venerdì 30 novembre 2012

The Flash Express ‎– Introducing The Dynamite Sound Of


Anno 2004. Tre teppisti in abiti mod fanno irruzione nelle torri di cristallo dei nuovi yuppie Nasdaq come Heat Ledger nell’attico di Bruce Wayne.
Baccano metropolitano, funk da depravati bianchi, strade intasate, taxi che usano clacson come mitra, trasporti nel caos; meglio prendere il Flash Express per downtown, con quel titolo che strizza tanto l’occhio al nord-est più rozzo dei Sonics. Ci troverete un ultra-garage irrobustito dal gelido taglio della Telecaster, una versione dei Cream uscita dal CBGB nel 1977, ubriaca di rock pesante e di tutte le false depravazioni losangeliane. C’è pure un blues ipercaratterizzato da fumetto (Feel These Blues) e fortunatamente nessuna zuccherosa ballatona unplugged, solo un lento fine anni ’50 da “Ballo Incanto Sotto al Mare” (Baby I'm Wrong). La California più urbana ha prodotto questo rock così a fior di pelle, tanto elettrico da sembrare quasi robotico, tanto strafottente da parlare di sé in terza persona, tanto scontato che alla fine resta appiccicato addosso come un chewing-gum masticato. E questi tre hanno veramente il “ritmo che uccide”, anche quando strappano una pagina notturna, cerchiata col rossetto, da un finale di James Ellroy (Sneak Around).
Peccato siano scomparsi presto.

Tra parentesi: CD  a 0,01 $ su Amazon… 0,01…

mercoledì 28 novembre 2012

Le brutte recensioni – Brutti dischi



Ovvero: posso trarre da un album che ritengo brutto una buona recensione? La qualità dell'oggetto recensito influisce sulla qualità del testo?
In linea teorica non dovrebbe: la lingua è talmente elastica e ricca di soluzioni da consentire la stesura di un buon testo partendo da un oggetto d'analisi che appare mediocre o addirittura scadente.
In pratica non è sempre così. Però occorre sgombrare il campo da un facile equivoco: il brutto, in realtà,  è una categoria preziosa. Spesso travisata e ancor più spesso trattata in modo superficiale, generico e discriminante. Umberto Eco, nell’introduzione all’antologia “Storia della Bruttezza”, ci dimostra come questo carattere sia una risorsa importante per arte e morale, così come lo è il bello.

venerdì 23 novembre 2012

Led Zeppelin IV – Il gonzo (esercizi di stile)



Nella migliore delle ipotesi è una narratore con cognizione di causa; nella peggiore, la più comune, è solo un fanatico che usa la prima persona del verbo. Adopera frequentemente inglesismi (e italianismi, perché no?) bizzarri e frasi fatte da critico; è un cultore di beat generation, Lester Bangs e Charles Bukowski; non rinuncia a parole o espressioni volgari e tratta spesso del proprio vissuto piuttosto che dell’album in questione; risulta sempre scettico, cinico e disincantato riguardo al carrozzone della musica rock, di cui per altro fa immancabilmente parte.

mercoledì 21 novembre 2012

Ma come si vestono?! (TVEye)


Guai a pensare che il Rock sia maestro di moda.
Mica tutti sono eleganti come i Mod o possono permettersi le giacche Armani di Clapton.
Quando poi si parla di Hard Rock, Southern o di altri generi di per sé imprigionati nei cliché, l'orrido è sempre dietro l'angolo, sopratutto tra le seconde file più esagitate.
Tanto per gradire: Uriah Heep, The Wizard (1972), in clamoroso playback vintage.
Ma lasciamo da parte la musica un attimo per chiederci, con sommessa ironia...come si vestivano questi?

lunedì 19 novembre 2012

US Hard Rock Underground - Bozze per un’introduzione


Premessa

US Hard Rock underground nasce come “guida turistica” all'ascolto di album remoti di Hard Rock americano dei primi anni '70.
Considerare il singolo album come elemento centrale è una questione di praticità e fruibilità, oltre che di curiosità nell’ indagare alcune uscite discografiche assai rare, talvolta misteriose e oggi addirittura preziose.
Ma occorre considerare che nell'epoca di internet in cui ci muoviamo, l'LP va sempre più perdendo unitarietà e importanza in favore di ascolti più elastici, più liberi, magari frammentari; playlist, video su Youtube, sample di LastFM…
Da qui l'esigenza di tracciare non solo "trame orizzontali" e autoconclusive su ogni singolo disco, che spesso corrisponde ad una singola carriera discografica, quindi una micro monografia, ma anche percorsi più trasversali che costituiscono una “trama verticale” alle avventure dei nostri rocker ignoti, pur sempre  rimanendo all'interno dei confini che abbiamo attribuito al campo d'indagine: musica Hard & Heavy di produzione americana tra il 1969 e il 1975.
Percorsi che possono costituire una introduzione alle singole monografie o recensioni, e che possono contribuire a restituire quel senso di unitarietà e omogeneità "di genere" che spetta ai lavori di questi artisti.

giovedì 15 novembre 2012

Quanto è bello ciò che piace?


Wow, la colonna sonora del Breakfast Club! Non vedo l’ora di essere abbastanza vecchio per apprezzare questa roba!
(Futurama - Il quadrifoglio)

martedì 13 novembre 2012

Led Zeppelin IV – Il pedante (esercizi di stile)



Costui fa della digressione la sua arma segreta: meno preciso dell’analitico, più verboso dell’esaltato, il pedante ha grossi problemi nello stare entro i limiti di lunghezza. Abbonda di punteggiatura e perifrasi, evita le ripetizioni solo con estenuanti giri di parole. Il suo periodare è a volte involuto e sovente ipotattico. Spesso sull’orlo della supponenza, non riesce mai a cogliere nel suo testo il senso unitario di un album. Pur non andando fuori tema, la sua recensione, ad una lettura attenta, parlerà di tutto fuorchè dell’album in questione.


Non si può certo dire che nel 1971 la ribalta della scena rock mondiale non fosse ricolma di grandi nomi e grandi dischi: Sticky Finger degli Stones, L.A. Woman dei Doors, Fragile degli Yes, Who's Next e tanti altri. Fu in questo notevole momento di creatività diffusa che i Led Zeppelin, i quali già da qualche anno avevano scosso la scena musicale prima con l’esordio hard blues di “I” e soprattutto con la vera e propria invenzione di un nuovo sound, l’hard rock, con il cosiddetto Bombardiere Marrone, arrivano con la loro quarta uscita a raggiungere quella perfezione formale che stabilirà un nuovo canone per tutto il classic rock e l’AOR dell’immediato futuro. Cosa sarebbero Aerosmith, Bad Company, Foreginer, ma forse anche Styx e Kansas senza gli Zeppelin e soprattutto senza questo album?
Un album che già dalla copertina detta le regole: in questo caso la regola di rinunciare in toto al marchio; rinunciare all’immagine, quel logo che per tanti gruppi è sinonimo di commerciabilità e vendibilità, che magari i progressivi più sofisticati si facevano disegnare da qualche illustratore famoso (magari Roger Dean?), perfino quel nome, quello stesso che stava stampato sui primi tre album degli Zeppelin, è quello stesso nome che scompare da IV, che per questo, non senza ragione, viene spesso identificato con l’appellativo di “Untitled”. Come se la Apple rinunciasse alla “mela” o Google al proprio nome colorato. Eppure in quel periodo, pur così denso di dischi che sarebbero presto diventati classici, questo album fu immediatamente riconoscibile poiché portatore di un messaggio che non poteva essere facilmente travisato.
Quel messaggio, che oggi è giustamente riverito come uno dei massimi testamenti musicali dell’epoca, ma non solo, è Stairway to Heaven. Il brano che inizia con un dolce arpeggio di Page, presto accompagnato dalle tastiere da favola di Jones, prosegue come una “power ballad” da manuale che sfocia finalmente in uno degli assoli più celebri della storia del Rock. E qui è necessario aprire una parentesi per considerare quanto questi pochi minuti strumentali abbiano colpito i giovani americani infatuati di rock nei primi anni ’70, quelli che magari già strimpellavano qualche strumento al college e che dal giorno in cui ascoltarono questo pezzo ebbero chiara la strada da percorrere. Pensiamo a Montrose, Blue Oyster Cult, Boston, di nuovo ad Aerosmith, Bad Company, Foreginer: anche qui forse c’è la ragione della loro esistenza.
E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di certo la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca.
Chissà se Chuck Berry, nello strimpellare Johnny Be Good o Roll Over Beethoven, aveva immaginato che quel suo nuovo sound un giorno avrebbe partorito brani come Rock n’ Roll, che da sola riassume tutto quanto un genere, o come Black Dog con le sue sfuriate rumorose degne del metal.
Ma gli Zeppelin non sono solo chitarre elettriche spianate o batterie rombanti come in When the Levee Breaks; anzi forse parte del cuore di questo “IV” sta ancora nello sperduto e romantico cottage di Bron-Yr-Aur dove Page e Plant, appena un anno prima, in compagnia di qualche “roadie” e poco più, misero a fuoco un approccio musicalmente differente, fatto di ascolti acustici e antiche suggestioni britanniche. E furono in effetti abili a sapere come mantenere con naturalezza il gruppo su due binari, perché è certo innegabile, ci mancherebbe, che i Led Zeppelin abbiano coniato il primo vero suono duro della scena rock (certo, non da soli, ma insieme a ad illustri colleghi come Cream, Hendrix, Sabbath, Jeff Beck…), ma hanno anche contribuito alla ricchezza di quel folk britannico che tra gli anni ’60 e ‘70 ha dato prova di grande creatività e freschezza, con gruppi come Pentangle, Incredible String Band, Fairport Convention, guarda un po’ la band dell’illustre ospite Sandy Danny che canta in The Battle of Evermore; e perché no, allora anche Led Zeppelin, quelli di Going to California e soprattutto del pezzo succitato, con i suoi duelli acustici di chitarre e mandolini che almeno risparmiavano a Bonzo l’ennesimo tour de force. Certo, niente paura, perchè poi ci sono anche canzoni come Misty Mountain Hop o Four Sticks, ma soprattutto brani come l’ultimo del disco, quella When the Levee Breaks, in realtà un vecchio blues del Delta, ormai celebre per la figura di batteria più imitata in campo hard, che riallaccia il filo non più con la tradizione folk di altri brani, o di interi album come III, bensì con un’eredità di blues elettrico, Waters, Willie Dixon, Wolf, che è poi quella originale da cui gli Zeppelin avevano pescato a piene mani per i primi due album.
Quindi, in conclusione, quello che qui abbiamo per le mani è un album di sintesi assai riuscito: sintesi tra due, o forse anche tre o quattro, anime che sin dall’inizio convivevano nel gruppo conferendogli un’ecletticità che mancava ad altri grandi come Who o Yes; un album uscito apparentemente indenne dalla prova del tempo, cosa che a molti mostri sacri mai è del tutto riuscita; un album che è stato in grado di fondere tradizione folk, radici blues e ispirazione rock. Un album, e vado a concludere, il cui ascolto è di fatto un obbligo per chiunque abbia l’ambizione o il desiderio di parlare e scrivere di musica.

domenica 11 novembre 2012

Le brutte recensioni – I voti




Vedi, il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica... e chi scava. Tu scavi
(Il Buono il Brutto il Cattivo – Voto: 8)

giovedì 8 novembre 2012

Led Zeppelin IV – L’analitico (esercizi di stile)



L’analitico è un pignolo al primo stadio. Utilizza come massima espressione grammaticale l’inciso e la frase incidentale, definendoli tramite virgole, parentesi ma anche trattini, come fosse un discorso diretto finito per caso nel testo. La sua attenzione sarà massima verso i particolari e assai minore rispetto al contesto e al quadro d’insieme. Innamorato di nomi e date, non mancherà di informarci all’inverosimile sul superfluo, faticando a trasmettere calore e passione.

martedì 6 novembre 2012

The Black Angels - Passover


Nascosto dentro un’integerrima copertina di derivazione Op-Art, sta un gruppo che si maschera dei facili costumi da rocker alternativi come Black Keys o Black Mountain (però basto con ‘sto nero ragazzi!), ma è invece composto da Discepoli della più scura psichedelia warholiana trapiantata nel reazionario Texas che rinchiuse Roky Erickson in manicomio. Una batterista che si crede Moe Tucker, un cantante capace di evocare spettri morrisoniani e, ovunque, bordoni di chitarre distorte. 
I Black Angels di Passover concedono poco al divertimento e pretendono l’ipnosi negli ascoltatori di trance spiraliformi come The First Vietnamese War o The Prodigal Sun, di raga multicolori come Manipulation e dell’obbligatoria (ma alla fine noiosa) epica di Call To Arms, diciotto minuti di Sister Ray per adolescenti. In verità è The Sniper At The Gates Of Heaven, giochi di parole a parte, che da sola può risvegliare un intero esercito di zombi. 
Un ascolto utile; per non starci sempre a raccontare che la musica degli anni ’60, alla fine, era un’altra cosa.

The Black Angels - Passover (Light In The Attic - LITA 018) 2006


domenica 4 novembre 2012

Led Zeppelin IV – Il Fanatico (esercizi di stile)


Il fanatico non scrive una recensione, compone l’esegesi di un testo sacro, l’agiografia di eroi leggendari. Grammaticalmente sfrutta tutte le possibilità del superlativo relativo ed assoluto ed abbonda in iperboli tali da andare anche oltre la sfera musicale di competenza. L’analisi delle tracce è completa ma non troppo approfondita: non si sa mai che scavando troppo si trovi qualche difetto… La stessa cosa accade per i riferimenti a band analoghe: sono ammessi paragoni solo con altri Immortali. Piuttosto comune la “professione di umiltà” come introduzione.

venerdì 2 novembre 2012

Le brutte recensioni - Esercizi di Stile



Per il futuro mi impongo degli esercizi di stile. Sono intriganti, utili e insegnano a non ricadere nei soliti errori.
Ma soprattutto… sono divertenti.

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...