domenica 31 agosto 2014

Frammento #21 Camp Bragg – Baia di Fuqing - 29-09-2034


NOTA: Ci sono un paio di motivi che mi hanno fatto riprendere questo discorso. Uno è la visione di "Monsters" un fil di qualche anno fa di Gareth Edwards; l'altro è l'attalità allucinante di questa estate medio-orientale.
In CEEM, rileggendo, trovo alcune cose azzeccate.
Per chi vuole riannodare i fili di quanto successo, il post di riferimento può essere questo; oppure c'è la sezione e-book, dove il PDF è sempre scaricabile (mi auguro...).
Altrimenti scrivetemi una mail che vi faccio il riassunto in due righe!


Camp Bragg – Baia di Fuqing  - 29-09-2034

“Giù! Scende! Giù! Scendeee!”
Quest’orrenda voce da contralto castrato mi sveglia per un attimo da un dormiveglia allo iodio salato.
Le urla del traghettatore taiwanese si agitano e gesticolano isteriche nell’aria.
“Giù! Prede roba! Scaricare! Scende!”
Attorno a me i grandi pacchi di plastica bianca legati assieme con elastici di seconda scelta sobbalzano. Qualcuno finisce in acqua; galleggiando placido per una breve deriva.
Le visioni della notte passata su questa barca putrida non se ne vanno.
Riemerge il volto mistico di Crowley, dal buio sotto una grande volta di cemento sopra la quale sfreccia un treno notturno trasparente e illuminato.
“Allora, Signor Anderson… Come mai così sorpreso di fare parte di questa gruppo operativo? Veramente crede che il suo nome sia spuntato fuori per sbaglio?”
Non so che rispondere; sono come inebetito a scrutare il breve secondo in cui figure incappucciate corrono via sull’ultimo treno. Berenger non la racconta giusta. O magari sono quelli delle Psy-Op che hanno fatto male i loro calcoli. O sono…io? Che mi metto addosso paure inesistenti; potrei anche provare a fidarmi una volta, no?
Dall’ombra, sotto il ponte, esce un’ altra figura.
“Wayne”
“E tu che cazza ci fai qui?”
“No, ascolta; ascoltami sono un attimo. Per favore.”
Si mangia sillabe, biascica suoni come avesse le labbra sfigurate da una malattia necrotica. Sparisce subito.
Non capitava tanto spesso che il profilo lattiginoso di mio fratello comparisse negli ultimi sogni del mattino. Prova ancora a parlarmi. Forse chiede aiuto.
Poi d’improvviso un odore fortissimo di diluente chimico mi punge le narici. E’ il pacco bianco acanto a me. Mi sveglio di soprassalto mentre John e Ray scaricano l’ultima roba rimasta sul ponte.
Mi volto di scatto.
Non si vede più niente.
Il cielo è grigio; le nuvole, il mare sono grigi come una lamina di metallo inquieta. Qualche goccia di pioggia. Gabbiani. Voci indistinte sotto di me. Grigie.
“Giù! Prede roba! Scaricare! Scende!”.
Appaltiamo i trasporti a piccoli pescherecci locali. Non fanno domande, non si spargono voci strane tra i ragazzi che partono per la costa a nord di Fuqing Bay.
Sembra un nome fatto per prenderci per il culo. Qui tutti la chiamano “Fucking Bay”.
Missioni sotto copertura in cui si disseminano falsi indizi per impedirci di avere chiaro il quadro; di capire che razza di direzione sta prendendo questa Operazione di Primo Contenimento.
Davanti un piccolo molo affaccia sulla breve strada recintata che porta dritto dentro lo spinato che circonda Camp Bragg, base operativa della 19°.

Allora, ci siamo. Territorio nemico. L’onda batte su una sabbia scura come fosse stata bruciata dal napalm. Banchi di alghe si seccano all’aria sulla battigia. Si muovono come il sospiro di un moribondo quando l’acqua le lambisce appena.

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mercoledì 27 agosto 2014

In (non) difesa di Jim Morrison


In risposta all’articolo di Detriti di passaggio Toccare l’intoccabile: Jim Morrison ai tempi dei rave party e una 2cv chiamata Percezione


Ecco un genere di post che è sempre un intrigante filo sottile su cui camminare, destreggiandosi tra l'attacco populista alla celebrità di turno e la silenziosa accondiscendenza del collaborazionismo con il mainstream.
Massi però, blogger "giovane" ma pur già scafato equilibrista, non disdegna di tentare la fortuna, questa volta con un personaggio per certi versi più ingombrante del "pigro" John Lennon post-Beatles. Lo fa con una brillante sceneggiatura che gioca la carta della commedia, piuttosto che quella dell'analisi, ma è bello così.
Qualche considerazione personale sui Doors, in apertura, premettendo che del Jim Morrison “cheguevarizzato" sulle t-shirt per adolescente nulla mi frega. Quella è la solita merceria postuma. Cerchiamo di stare ai fatti
I Doors sono stati un grande gruppo. Per un brevissimo periodo. Un anno, forse due. Il tempo del primo LP (un grande album, dai! Qui c'è poco da essere "alternativisti") e Strange Days; il resto è una triste parabola discendente fatta di liti, alcool, incomprensioni; pur con un bel colpo di coda finale (L.A. Woman, Raiders...).
I Doors sono stati una band ben amalgamata: un tastierista blues "neoclassico", un chitarrista di psycho flamengo, un batterista solido e un cantante con una buona voce e qualche idea; perchè ci sono stati anche cantanti con 0 idee, attenzione. A Jim qualche intuizione iniziale, anno '66, va ben riconosciuta.
Jim però aveva anche un'altra caratteristica vincente: era un giovane americano bianco belloccio. Basta poco, a volte. Arthur Lee, per esempio, era un nero strambo. Chiedere - oggi - alle periferie di Ferguson, Missouri, la differenza.
Detto questo, il primo, grande, album del gruppo, subito dopo la sua pubblicazione (e quella dei primi singoli) stava placidamente naufragando. Avrebbe forse fatto la fine di Velvet Underground & Nico se non fosse stato per un singolo estrapolato a viva forza e "rieditato" per il 45 giri: Light My Fire. Lighr My Fire canzone arrangiata da Manzarek e composta da Krieger, parole e musica. Parole e musica (ah, sì, poi c'è la "pira funeraria", la genialata!). Comunque il pezzo divenne n° 1 proprio nel luglio ’67: il singolo forte nell'Estate dell’Amore! BUM!
A questo aggiungete qualche (bella) foto di Jim mezzo nudo. BUM BUM! Il gioco si risolse nello spazio di un mese. Basta poco, se quel poco è fatto bene, nel tempo giusto.
Poi il resto della storia la conosciamo, probabilmente i pezzi forti di Morrison sono tutti quelli scritti prima di entrare nel gruppo. Soft Parade, Waiting For The Sun... lasciano il tempo che trovano, come per altro tanti altri album coevi di grandi nomi della West Coast (Love, Spirit…)
Morrison, nel suo periodo più cupo, quando stava clamorosamente ingrassando (basti vedere la differenza nelle foto tra il '67 e il '70...) e avrebbe avuto bisogno di girare col pannolone per non pisciare ovunque, ebbe almeno la capacità di comprendere di non potere continuare ad essere una figurina per ragazzine cantando canzonette come Touch Me, ma di tramutarsi in un moderno bluesman satradaiolo e ubriacone. Un post-beat. Comunque più credibile così che come teen-idol, no? Credo che a questa “autoanalisi” si debba L.A. Woman.
Ebbe anche la trovata di sfuggire dagli Stati Uniti per rifugiarsi tra i vicoli dei suoi (amati?) poeti maledetti. In questa casuale "pianificazione" si dimostrò molto più attento di Hendrix o della Joplin che arrivarono "al passo estremo", come dire, clamorosamente impreparati. Vuoi mettere lasciarci le penne a Parigi?
Per quanto riguarda lo spinoso capitolo dell'adorazione “post mortem”, un paio di considerazioni. Il giallo della morte, la fuga, la CIA, l'isoletta segreta: queste sono pratiche che procedono in automatico ogni volta che qualche artista mediamente famoso muore. In automatico; tanto che ce ne abbiamo un paio di casi perfino noi in Italia.
Personaggio di culto? Non so... andate a Graceland. Quello è culto. Un paio di fiori di qualche hipster a Père Lachaise è roba da ridere.
Oggi cosa resta?
Un Morrison sopravalutato? Si, forse in certi ambienti si, ma tutto sommato credo in maniera ragionevole. Tutti i fan sopravvaluteranno sempre all'inverosimile il loro idolo, mentre gli altri non ne spenderanno parole: è chiaro da che parte pende la bilancia.
Restano anche un paio di grandi album, belle testimonianze live, e qualche canzone entrata di diritto nell'immaginario Rock.
Poi, non so Ian Curtis, ma diversi performer hanno avuto in Morrison chiara ispirazione; faccio un nome su tutti: Jeffrey Lee Pierce. Capitolo lungo, in cui ora non mi addentro.
Ah, sì... restano anche le magliette. Ma chi se ne frega di magliette, qui si parla di musica!


P.S.: Sono di questi giorni alcune dichiarazioni di Marianne Faithfull in merito al ruolo avuto dal suo fidanzato nella morte di Jim. Marianne Faithfull che mi risulta avere un album in uscita a settembre e quindi abbiamo già capito il perché di queste clamorose rivelazioni oggi… 
Ma queste cose NON sono colpa di Morrison.

lunedì 25 agosto 2014

Psycho-pills su Spotify (cercando altro)



Battendo il web alla specifica ricerca di “altro” - prog americano, nella fattispecie - è fin troppo facile imbattersi in rottamature del passato, nuovi nomi del mondo alternativo, vecchie glorie che non abdicano al tempo.
Sintetiche, sinteticissime prime impressioni di quanto potete incontrare setacciando, casualmente e senza meta, la rete.


Black Pistol Fire



Con tripletta di LP: Omonimo (2011) Big Beat ’59 (2012) e Hush or Howl (2014)
A prima vista scatenati blues-tamarri tex-mex alla corte di Eric Sardinas, ma più alternativisti e low-fi e quindi discepoli invasati degli ovvi Black Keys prima maniera (tra 20 anni forse si potrà ben valutare la reale portata di Auerbach, magari anche di fronte alla scomparsa dalla memoria dei White Stripes). Del resto coppia pure loro (canadese) e - del resto - quando una canzone si intitola Jezebel Stomp qualche motivo per sbattere in giro la testa ci deve poi essere... Sort me Out è addirittura sfacciata nella copia carbone del duo di Akron.
Big Beat '59, già un titolo che attinge al primordiale, spiana un beat veramente troglodita, riduce il numero di brani (bene), ne riduce pure il minutaggio (bene, se vi piace così),  inserisce qualche malsana tonalità da mariachi rock (Beelzebub) e qualche ronzio in più negli strati di accompagnamento desertico, con slide obbligatoria (Crows Feet). Roba da motociclisti debosciati in stile Sons Of Anarchy. Lamentatevi!
Il terzo LP finge di complicare un po' la rifferia, ma è poi sempre la stessa roba di contrabbando al mercato nerissimo del garage blues, più cinetico e cromato degli esordi, questo sì.


The Stone Foxes



Ancora tripletta: omonimo, Bears and Bulls e Small Fires. Americani di San Francisco, mica scherzi.
Iniziano in un juke joint indie, quasi agreste, anzi addirittura campagnolo, con certe rozze leccate di slide e armonica che neanche nella contea di Hazzard. Sul primo album ci sono titoli ingombrantissimi come Rollin’ and Tumblin e Spoonfull, risolte con amichevole menefreghismo, ma anche tortuosità acidule come Take a Breath e ballatone slow. Menzione per la jammona ustionante di Under the Gun, 7 minuti di Power Trio confederato e Larsen a valanga.
Bears and Bulls (2010), che si avventura in un naturale glam-stomp mica male, si arrischia perfino di un titolo come I Killed Robert Johnson, una murder ballad a 320 volt. Poi rollingstonismi assortiti, un po' di iperboogie cannedheattiani, il solito tributo alla tradizione (Little Red Rooster) compiti ben svolti ed un eloquio sempre educato e a volte troppo rispettoso (Mr. Hangman a parte, che potrebbe essere un Lester Butler in stato di grazia...). Restano, per fortuna, gli echi acidi della Frisco che fu (Reno, bella).
Su Small Fire (2013) solo 10 brani (ottimo), che lasciano le campagne per urbanizzarsi in un funk cittadino, costruito da un sound maturo, voluminoso nello spessore, a colonna sonora di un notturno poliziesco e revivalista. Vicini agli ultimi B.R.M.C, con qualche afflato sognante e una pericolosa tendenza melensa che pur salvano sempre in corner. Copertina pulp di straniamento hollywoodiano, tra Hipgnosis e Strange Days.


Grodeck Whipperjenny



Album omonimo, anno 1970.
Psycho-funky spaziale e distorto, dal sound fantasioso ed imprevedibile. Progressivo nelle intenzioni, funkadelico nei risultati, come dei Love furibondi per le strade più rissose di Detroit. Furono backing band di James Brown. Conclusions è un nero strumentale con intro per quartetto d'archi, ma occhio a Put Your Thing On Me: devastante assolo di chitarra ultra fuzz che smitraglia raffiche di black pulp nel midollo del più cool dei pusher. Fantastico! Evidence Of The Existance Of The Unconscious è inedito black prog strumentale e morboso, tra Hysaac Hayes e Quatermass.


Thee Image

Due album: omonimo (ma vè…) del ‘75 e Inside The Triangle, sempre ‘75.
Soft rock da west-coast di secondissima generazione, mescolato a sensuale slow funky da nightclub, rilassato sulla spiaggia di Venice e senza pretese di trionfi internazionali. Nel trio c’è pure il buon Mick Pinera, che dopo Blues Image e Iron Butterfly, sa il fatto suo in fatto di latineggianti colate di Fender (Temptation). Secondo album più robusto e rockettaro.
Prodotti dalla Manticore, label di proprietà di ELP, per cui negli stessi anni suonava pure la PFM; strani incroci.


Joe Henry

Invisible (2014) cioè l’ultimo album; solo questo perché il personaggio merita ben altro approfondimento.
Lo immagini nella penombra di una stanza d'albergo al crepuscolo di un Mardi Gras anni '20. Uno spleen dal sapore di sano eroismo piccolo borghese (bianco, indubbiamente), che affonda le radici nel cuore stesso della Grande Canzone Cantautorale Americana, dal Bob nazionale al primo Tom Waits fino ai Grandi Disillusi sulle soglie del millennio: i Kozelek, gli Eitzel.
Classe da vendere, Sign (in crescendo di epico abbandono), Alice e Swayed da ascoltare. La riscoperta di un “segno folk” arricchito da orchestrazioni minime ed eleganti, mai appariscenti, che meditano sulla profondità nascosta nelle cose semplici. Traccia di un blues dell'assenza riempito da un country jazzato da settimane astrali, di sincera nostalgia.
Tante penne non sospette ne scrivono; a ragione.


Mystic Braves

Due album tra il ‘12 e il '14 (fa impressione scritto così, eh?)
Il primo, omonimo, si apre con Mystic Rabbit, tanto per ribadire il concetto di rosicchiatori mistici a piede libero. Un juke-box distorto da estati anni '60 riparato da un vetro giallastro di revivalismo stile Barracuda; chitarre western piene di riverberi e miraggi di 13th Floor, Quicksilver e pigrizie doorsiane (Strange Lovers). Un pop pulsante come facevano Bryan MacLean e Arthur Lee privi di ispirazione, copertine di colorati mandala appesi alle porte chiuse del Fillmore. Esordio bello ma monocorde (Please Let Me Know, brit-pop risuonato da qualche sballato psicotico texano della International Artist) che fluisce senza salti come un unico eterno brano di 3 minuti, ciclico e riflesso da 1000 specchi.
Desert Island (2014) si scuote dal torpore ipnotico e non rinnega certo il passato, aggiungendo qualche logica (e timida) linea di Farfisa da Ventures spaziali. Personalità rinvigorita da qualche assolo azzeccato, songwriting più multiforme, dal vago sapore spagnolesco, vocalità rivedibile, produzione ancora un po’ piatta. Bello il surf di Valley Rat e la sarabanda virulenta di Born Without a Heart.

Un pomeriggio di stordimento fumoso su un morbido e oppressivo divano psichedelico. Poi correre all'aria aperta, spalancando finestre e sperando nella pioggia.

lunedì 18 agosto 2014

Wicked Game

 

Nessuno insegna veramente qualcosa ad altri. Impariamo solo ciò che riteniamo conveniente imparare.

Cito a memoria, credo Paul Mico, psicologo dell’apprendimento, ma è un ricordo da prendere con le molle; in certi casi Google non aiuta.
Parafrasi libera e un po' provocatoria: nessuno ascolta veramente l'altro. Sentiamo solo ciò che vogliamo sentire.
È un assunto che a volte sembra calzante con la nostra società pur intrisa di comunicazione.
Possiamo veramente dire di ascoltare (leggere) ciò che altri dicono (scrivono), o ci è  sufficiente la firma di presenza, il +1 , il “mi piace”?
Certamente non si può dimostrare per via scientifica, ma sono sempre più convinto che se investiamo grandi risorse di tempo e impegno per comunicare, finiamo inevitabilmente per sacrificare l'ascolto. L'ascolto silenzioso, disinteressato, senza gettone di presenza o accondiscendenza in calce.
E la musica, in questo contesto, come si colloca?
Ulteriore parafrasi: la passione per la musica non è mai realmente disinteressata, ascoltiamo solo quella musica che riteniamo conveniente ascoltare.
Quella che ci dà qualche certezza di “piacere preliminare”. Quella che, a naso, si confà meglio al nostro gusto, quella da cui possiamo trarre gratuita gratificazione. Rifuggendo ciò che, a turno e secondo il gusto individuale, riteniamo troppo commerciale, troppo indie, troppo banale, troppo vecchio. Una selezione preliminare inconscia. Perchè alla fine è la ricerca del piacere che conta. Epicuro docet.
Ma allora possiamo dire di comprenderla veramente? Non sarà solo la gratificazione di un suono di superficie?
Quanto possiamo dire di possedere un pezzo di Miles Davies o del Wu Tan Clan, o quella canzone folk boliviana? Ma anche gli sperimentalismi tedeschi o le vibrazioni di Seattle. La società, l'informazione, ci educano presto a riconoscere il simile-a-noi e a rifuggire il diverso-da-noi.
Per quanto continueremo a rifugiarci nella formula del “linguaggio universale” , immediatamente comprensibile ed empaticamente valido per tutti? Ma esiste veramente un linguaggio universale?
Che poi alla fine, se ci togliamo anche quello... è una continua operazione di sottrazione, camuffata sotto migliaia di post, di articoli, di condivisioni, di links, di mail, di e-book.
Ascoltiamo, e subito condividiamo quell' ascolto, o meglio, crediamo di farlo, perchè in pochi sono in ascolto, in tanti comunicano. Un'esperienza che dovrebbe essere personale e sensoriale si tramuta in un atto sociale, con pregi e difetti dello stesso.
Come al solito, estremizzo.
Però questo è davvero un giochetto malvagio.

E i fondo, anche alla fine della canzone, nobody loves no one...

lunedì 11 agosto 2014

La lista di Capitan Vinile


Benvenuti in quest'ultimo agosto.

Mese dove sonnecchia la mente e si impigrisce pure la curiosità.
Tutti in ferie, eh? Con 728 euro a testa, ombrellone e sdraio e l'immancabile festa dell'Unità.
Anzi no, ora si chiamano “Democratici in Festa”.

Ma che razza di nome?!

martedì 5 agosto 2014

Tempo, denaro e qualche domandona



Una volta la domandona tabù per ogni giovane appassionato di musica era: “Ma tu quanti dischi hai a casa?”
10, 100? Più di 1000?
Sì, c’era chi ne aveva più di mille.
Poi qualcuno cominciava a frequentare qualche redazione, qualcuno metteva su il negozio. Certo che gliene passavano per le mani di dischi… Chi più ne aveva, più ne sapeva, più poteva vantare pareri illuminati, più si avviava a scrivere di quella stessa musica che teneva sugli scaffali. Più celebrava il proprio “possesso”. Come Gaber nel “Monologo del pelo.”
Oggi una domanda del genere è totalmente priva di significato.
Con Spotify, Deezer, Youtube, “download on demand” e compagnia bella, abbiamo già tutto.
Tutto. Lì, fruibile nel PC o nello smartphone. Anche a gratis.
Non è più questione di numero né di possesso.
Anche grandi aziende “tradizionali” come Amazon, nate come negozi, puri e semplici rivenditori, diventeranno distributori e intermediari. Provider di musica (e libri). Si trasformeranno da “store” che vendono beni materiali a gestori che offrono un servizio. Un voucher per ascoltare minuti in stream, un abbonamento ricaricabile, una tessera premium.
Quindi la domanda non sarà più “Quanti CD hai?” , perché di fatto già li ho tutti.
Ma piuttosto “Quanto tempo dedichi all’ascolto?”
In realtà credo che proprio da ciò si presenti una resistenza implicita che in tanti di noi provano nell’accedere a Spotify o servizi simili.
Quando sono in casa, di fronte allo scaffale dei miei CD, sto di fronte ad uno spazio fisico finito che conosco e misuro bene. Conosco la musica che c’è dentro. La controllo. L’ho comprata io, l’ho scelta io dall’espositore del negozio.
Quando sono di fronte alla schermata di Spotify, quel mio scaffale diventa un minuscolo sottoinsieme di un catalogo difficile, se non impossibile, da misurare.
Sarà sempre in maggioranza la musica che non conosco, che non ho mai ascoltato, rispetto a quella che conosco. Sarà in maggioranza la musica che mi sono sempre ripromesso di possedere, che addirittura mi sento “in dovere di ascoltare” (prima o poi), rispetto a quella che ho comperato e che ho sulle mensole di casa.
C’è di che perdere le proprie sicurezze di appassionato, di collezionista, di esperto; pure di critico…

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