MUSICHE PARALLELE


JPT Scare Band – Il Nulla al di fuori del Suono


Dai primi anni ‘70, da periferie anonime di Kansas City.
Sempre assieme. Sempre a suonare in quello stesso scantinato orrendo.
Chiusi dentro come in un Conclave per Santità Rock, con stormi di falene attorno e Buffalo Bill nascosto al buio, col coltello in mano.
Gloriosamente ignoti a tutti; addirittura inediti (I-N-E-D-I-T-I, 0 dischi, 0 singoli) fino alla metà degli anni '90, Paul Grigsby (bassista), Jeff LIttrell (battersita) e Terry Swope (chitarrista) sono i Supremi Invisibili.
Ben più di Zerfas o Granicus. Una band inesistente, oltre perfino al cavaliere di Calvino.
Dimenticate Helios Creed e Randy Holden. Dimenticate anche Keiji Haino, gli Sleep e gli Earth del secondo album. Scordatevi il Neil Young di Dead Man.
E’ esistita, ebbene si, la JPT Sare Band.
A questi non fregava un cazzo di fare canzoni. A loro interessava solo suonare.
I loro brani sono semplicemente continui, reiterati, insistenti, logorroici, dementi assoli. All’unisono. Basso, batteria, chitarra. Niente strofe, bridge, chorus. Una totale dedizione al free-form, spinta tanto da fare invidia a un Braxton o ad un Roscoe Mitchell.
Immaginate un 45 giri dei Cream riprodotto con la levetta del giradischi sul 33: gonfiato, esteso, deformato, piagato. Cantato con il mellifluo menefreghismo di chi parla ad una folla di sordi rinchiusa in qualche ospedale psichiatrico progettato dal Terry Gilliam dell’Esercito delle 12 Scimmie. La JPT si materializza proiettata nel tempo, come lo spaesato Bruce Willis che prova a salvare il mondo dall’epidemia. Senza riuscirci.
Il totale di tante parti è quasi un live dei Grand Funk suonato attraverso gli Sleep di Holy Mountain che succhiano avidi quella stecca di Quaalude rimasta nella tasca dello zaino per oltre vent’anni. Il  Mirror Man di Beefheart ricalcato da un Hendrix più strafatto di baccano di quello che suonò a Woodstock.
Gli unici termini di paragone plausibili sono sauropodi come Amboss degli Ash Ra Tempel e sopratutto Population II del “Vate” Randy Holden, ma del tutto privi del vagabondare cosmico e dell'aura mistica da guru capriccioso in favore di un ghigno e una siringa da teppisti da marciapiede. E con un basso elettrico che sembra veramente percosso da un gigantesco Hartmut Enke del profondo sud, un Titano dell'onda profonda che prende a prestito i giri più intontiti del Jack Casady di Saturday Afternoon per farne un bordone che al tempo stesso è enorme di suono e trascinante di ritmo: King Rat ne è il testamento assoluto. Un Death Metal degli abissi deformato da fumo afgano e LSD a litri, gettato impunemente nell’acquedotto dell’ultimo paese della frontiera.
La batteria di Littrell si ritaglia con la forza un autopsia di stonature in sottofondo; potrebbe stare in un’altra inquadratura, su un altro set, dalla parte opposta del globo, per come divaga senza guinzaglio, per come sbatte a destra e sinistra come una cassa da morto che cade dalla tromba delle scale del World Trade Center.
Su tanta ritmica potrebbe parere facile per Terry Swope  dispiegare una foga punk unita ad una perseveranza acida dal volume ignoto e da un feeling blues di ispirazione, assolutamente metal d'atteggiamento; che mai si nega il gusto del clichè ultra-macho, ma sempre talmente verboso da sommergere ogni noia con valanghe tidali di feedback esasperanti.
Brani di un quarto d'ora che passano rapidi e godevoli come una scopata sul retro di una Camaro; salvo poi risvegliarti in uno sconosciuto motel dalla parte opposta dello stato, mentre una grossa cimice trotterella allegra sulla tua pancia.
Wha-wha declinati in ogni forma, senza badare all'opportunità, al tempo e senza alcun freno inibitore. La James Gang di Funk #48 rinchiusa in una campana di bronzo che affonda nell’abisso, mentre i reduci dell’ Estate dell’Amore sono sbandati accattoni che mendicano una dose all’ingresso del vecchio Fillmore. Ma la porta è sprangata da anni. Non c’è salvezza per i reclusi nelle comuni rurali, per i Guru dell’amore libero, per i teorici yippie; Billy e Capitan America se ne sono andati da un pezzo col loro carico di “roba”.
Tracce di Black Sabbath che si prostituiscono all’acido e rinnegano ogni Dio, soprattutto quello più cattivo, anziano, con la barba bianca e un figlio pieno di problemi. Una selva di corde metalliche come violino e Gibson degli High Tide intrecciati assieme in un unico mefistofelico strumento, che nutre una jungla attraverso la quale si procede solo con un machete che urli di languori funky e stupefacenti forse ignoti perfino ai più estremi Funkadelic e al volante Reaper degli Guess Who.
E Jerrys' Blues dovrebbe essere una specie di slow bianchiccio da west side Chicago? O solo l'ultimo bootleg di qualche ramingo viso pallido perso in Maxwell Street? Veramente questi vogliono farci credere di sapere cosa sia il blues? Con quei minuti finali in cui il brano degenera in un altoforno di NWOBHM industriale?
Lo hanno ascoltato qualche volta, il blues, per radio, quando Clapton, Bruce e Baker stavano ancora sullo stesso palco. Quasi dieci anni dopo, sono ancora lì, sulla stessa stazione. Fantastico.
Ma quando attacca un insulto musicale come Rape Of Titan's Sirens lo stordimento è servito. Quando arriverete alla metà di Acid Acetate Excursion sarete irrimediabilmente persi in un dedalo privo di uscita, forse senza Minotauro, sicuramente senza il filo. Sono gli echi della Fender dell’ultimissimo Hendrix, quello più nero, quello intransigente; lo zingaro dell’iper-funky. Sono gli echi di uno strumento sotterrato come il tomahawk di un capo indiano di cui il Ku Klux Klan ha cancellato memoria e onore. Non c’è melodia, non c’è nessuna idea musicale. Ma non c’è neanche il puro rumorismo di Metal Machine Music o di certi Fushitsusha. Non c’è la meditazione trascendente di Earth 2.
C’è l’espansione totale degli spunti più anarchici di un Kaukonen bastardo, mischiato a qualche kraut-rocker atterrato bruscamente sulle esigenze progressive dei Blues Creation o della Flower Travellin' Band. Questo, ed un lercio pub di periferia in cui esibirsi due sere su tre, con le stesse quattro puttane che ti ascoltano prima di iniziare il turno. Per terra chiazze di birra, sangue e sperma.
E non cercate un senso dentro Time To Cry o Sleeping Sickness. Perché non c’è. Spirali che lasciano quel retrogusto di chimica marcescenza alle spalle; come nel sogno di una Detroit decadente e senza salvezza, in cui la lotta per i Sacrosanti Diritti ha lasciato il posto ad una scena frammentata di Fight Club clandestini in cui yuppies precoci sfogano il testosterone senza causa né ideologia.
Quando il brano più corto nel mezzo di un catalogo che di rado si abbassa sotto i 10 minuti, sono i 90 secondi di It's Too Late - follia backwords, incomprensibile, inutile, nichilista, falsamente psichedelica - allora è chiaro.
Il suono è il messaggio.
Chi se ne frega dei contenuti.

We travelled to the edge of the Cosmic Universe and returned semi-intact
Jeff Litrell

***

Cosa sia la discografia della JPT non è facile a dirsi.
Inediti per vent’anni, eppure imperterriti nel suonare sempre assieme, nell’incidere su qualsiasi supporto a portata di mano, per decenni sono circolati solo alcuni acetati, alcuni nastri; nulla di ufficiale.
Così, quando a metà anni ’90 la Monster Records compilò Acid Acetate Excursion, fu facile ipotizzare di trovarsi di fronte a qualche degenerato terzetto stoner in letargo tra il Mojave e la vecchia Seattle dei Melvins. In realtà i 4 pezzi del LP furono registrati tra il 1974 e il 1976. Ma a quel punto tra brani vecchi, nuovi, registrazioni live e chissà quant’altro era difficile raccapezzarsi. Non che il fattore tempo importasse poi molto: la JPT si era conservata come imbalsamata nell’ambra paleolitica e le jam di un tempo erano semplicemente reinterpretate con un filo sottile di post-produzione in più.
Certo il fascino del sound vintage delle incisioni di metà anni ’70 non teme il confronto con i brani più recenti. Perché nel frattempo, all’alba del nuovo millennio, erano usciti anche i due album destinati a diventare pivotali nel catalogo della Scare Band: Sleeping Sickness e Past is Prologue. Tanto che il gruppo si era accasato con una nuova etichetta ed era ritornato a sputare fuori vecchie jam nuove di zecca, tanto su Rumdum Daddy che su Acid Blues Is The White Man's Burden, del 2010. Certo che il sound si è imborghesito un po’, compaiono perfino brani di meno di 5 minuti…
Eppure quel fascino distantissimo da eremiti nel deserto dell’acid jam mica lo hanno perso.


Acid Acetate Excursion - Monster Records - 1994

A1 Sleeping Sickness      14:18    
A2 Acid Acetate Excursion           6:58      
B1 Slow Sick Shuffle       6:11      
B2 King Rat        12:44

Rape Of The Titan's Sirens - Monster Records – 1998

A1 Rape Of Titan's Sirens             4:43      
A2 I've Been Waiting      12:12    
B1 It's Too Late 5:35      
B2 Time To Cry  12:43

               
Sleeping Sickness - Monster Records - 2000 (poi ristampato dalla Kung Bomar Records nel 2009)

1 Sleeping Sickness         15:17    
2 Slow Sick Shuffle          7:13      
3 King Rat           13:17    
4 It's Too Late    5:31      
5 Acid Acetate Excursion              6:58      
6 I've Been Waiting         12:12    
7 Time To Cry     12:44

Probabilmente il disco definitivo della Scare Band. Fosse uscito in vinile nel 1976 sarebbe l’Arca dell’Alleanza dell’hard rock psichedelico. Tutti brani dell’Evo Arcaico, tra ‘74 e ‘76, registrati ottimamente in presa diretta. Nessuna sovraincisione, nessun effetto; distorsioni pazzesche, strumentali infiniti, deliri, confusioni, rumori, paure. Settantatre minuti allucinanti.

Past Is Prologue ‎- Kung Bomar Records - 2001 

1 Burn In Hell                    
2 I've Been Waiting                       
3 Wino
4 Sleeping Sickness                        
5 Time To Cry                   
6 Titan's Sirens                
7 Jerry's Blues                  
8 It's Too Late (Slight Reprise)

Altro ascolto consigliato. Qualche aggiunta rispetto a Sleeping Sickness (Titan's Sirens, fantastica e Jerry's Blues) e tre brani registrati negli anni ’90 (i primi in scaletta) che potrebbero ben essere usciti dalle fasi più letargiche degli Sleep: lentezze alla marijuana quasi esasperanti, torpori serafici e, certo, un sound assai più radio friendly…


Jamm Vapour - Kung Bomar Records - 2007

1. Amazons        9:25     
2. Ramona         6:52     
3. Rainbow Bridge          7:45     
4. Right Mind    8:20     
5. Don't Count Me Out  8:31     
6. Gello Jam       11:09    
7. Hungry for Your Love               9:36


Rumdum Daddy ‎ - Kung Bomar Records - 2009

1             You Don't Wanna Know             6:35      
2             Rat Poison For The Soul              6:11      
3             Rumdum Daddy             7:06      
4a           Intro     13:51    
4b           E Minor Exploration                     
4c           Theme From The Monster's Holiday                     
5             I've Been Waiting           9:26      
6             Bit Of A Minor Jam        9:20      
7             Bookends Jam 5:42      


Acid Blues Is The White Man's Burden ‎- Ripple Music - 2010

A1 Long Day      7:46      
A2 Not My Fault              4:56      
B1 Death Letter 2001      5:44      
B2 Stone House Blues    10:39    
C1 I've Been Waiting      9:27      
C2 Acid Blues Is The White Man's Burden             8:25      
D1 It's A Jungle                
D2 All Lit Up                      
D3 Amy's Blue Day          9:43

Gli ultimi album della JPT, eccetto qualche persistente percolazione seventies, presentano un bello schieramento di  “brand new songs”. Produzione di buon livello, qualche concessione in più al radio-pop e in generale un approccio più rilassato e d’estrazione maggiormente blues. Come dei pigri Sabbath che si divertono sugli slow di Peter Green in un pub di provincia al venerdì sera.
Ma roba come la suite E Minor Exploration / Theme From The Monster's Holiday impressiona ancora.


Alla fine di tutto ciò, in questi anni di tirannia a marca “www”, quasi dispiace che l’intero catalogo della JPT sia stato interamente riversato in digitale su i-Tunes, Amazon e addirittura Spotify.
Si può davvero ascoltare con tanta facilità, con tale esorbitante immediatezza, un reperto che per anni si è celato ad ogni orecchio, nascosto sotto le argille di un tempo archeozoico?
Cosa abbiamo mai fatto per meritarci questo?
E’ il prezzo che si paga per aver scontato vent’ anni di invisibilità, di inesistenza? Di mistero?
No! Sicuramente qualcuno voleva faticare molto di più. Spendere cifre esorbitanti per frammenti di acetati irriproducibili. Seguire gli indizi dell’ultimo Iniziato al Feedback Mistico “All’alba dell’anno in cui giunse l’ultima lettera del Killer dello Zodiaco, sorse dal cuore del Sud una band fatta per suonare, ma non per esistere…”
Inventarsi per caso questa Chicken Itza della distorsione assurda.
A voi la scelta: fare finta di niente e giovarvi dell’aver scoperto l’ultimo Graal della follia dei ’70.
O strappare il velo e godervi tutta questa abbondanza in coda all’ennesima playlist condivisa su Twitter senza spendere un cent.

Links e riferimenti

Spotify:

Amazon:

i-Tunes:






7 volte Led Zeppelin 4


Un gioco di variazioni linguistiche per recensire un album, Led Zeppelin IV, in sette modi alternativi, come se fossero scritti da altrettanti “personaggi” con caratteri, punti di vista e linguaggi diversi. 
Ogni pezzo è caratterizzato da un lessico, una sintassi e una fraseologia specifici, assai differenti gli uni dagli altri, ciò non di meno coerenti con la consegna di recensire un famoso album di musica rock come Zoso, fornendo giudizi, informazioni sugli autori, l’epoca e le canzoni, almeno quelle più celebri.


Le regole del gioco

1- L’album da recensire è uno e uno solo.
2- Le recensioni, almeno dal punto di vista generale, devono essere favorevoli. Questa è una regola restrittiva ma necessaria per non ridurre il tutto a due schieramenti contrapposti: bello – brutto. Pur nelle loro diversità, pur nel loro personalissimo punto di vista, i sette recensori danno un giudizio di fondo positivo dell’album, ognuno di loro soffermandosi sui punti forza più coincidenti con la propria personalità.
3- Le recensioni devono essere verosimili e spendibili, se non per la stampa specializzata, almeno per una qualsiasi webzine. Quindi niente giochi linguistici, nessuna caricatura esagerata e tantomeno parodie di genere. I sette recensori scrivono testi buoni, sbilanciati secondo i differenti caratteri ma mai banalmente iper-caratterizzati. Altra regole restrittiva, che obbliga ad un certo lavoro di lima.
4- Le recensioni devono avere una lunghezza di una cartella circa, per uniformare ulteriormente i prodotti finali
5- Non si dicono bugie. Si possono riportare opinioni, pareri, impressioni ma non si possono scrivere volontariamente inesattezze evidenti nelle date, nei nomi, nei titoli.


Lo scopo del gioco

Non ci sono vincitori né vinti, non ci sono premi né classifiche. Il gioco si propone di indagare l’elasticità e le potenzialità che possiede la lingua anche quando si confronta con generi altamente stereotipati come la “recensione musicale”.


L’album 

Alcune notizie formali sul disco oggetto delle recensioni.

Artista: Led Zeppelin
Album: Untitled, IV, Zoso
Pubblicazione: 8 novembre 1971
Durata: 42 min, 39 s
Tracce: 8

LATO A
Black Dog - 4:57 - (Page, Plant, Jones)
Rock and Roll - 3:40 - (Page, Plant, Jones, Bonham)
The Battle of Evermore  - 5:52 - (Page, Plant)
Stairway to Heaven - 8:03 - (Page, Plant)

LATO B
Misty Mountain Hop - 4:38 - (Page, Plant, Jones)
Four Sticks - 4:45 - (Page, Plant)
Going to California - 3:31 - (Page, Plant)
When the Levee Breaks - 7:08 - (Page, Plant, Jones, Bonham, Minnie)

Etichetta: Atlantic Records
Produttore: Jimmy Page

I personaggi

Da un punto di vista psicologico e culturale, i sette personaggi si posso considerare come divisi in due gruppi: caratteri forti (gonzo, pedante e bastian contrario) e caratteri deboli (narratore, analitico e fanatico) con il conformista a fare da raccordo e sintesi tra i due schieramenti. Graficamente stanno un po’ come la carta del sette di denari nel mazzo piacentino: bella, simmetrica, ma “pitagoricamente” aperta, in cui due fazioni si fronteggiano a coppie e un elemento sta a metà tra i due gruppi.
I caratteri deboli sono succubi del disco e tendenzialmente privi di spirito critico, originalità se non addirittura di autostima, e cercano di mascherarlo ognuno a suo modo.
Il fanatico non si pone domande e vive di passione incondizionata e acritica che gli impedisce un’analisi accurata e obiettiva. Vive la musica come l’ultrà vive lo sport dalla curva dello stadio. E se alla fine si perde,  è colpa dell’arbitro.
Il narratore si nasconde continuamente dietro l’uso reiterato della prima persona, come a volere dichiarare in anticipo che ciò che scrive è solo ciò che lui pensa, senza quindi fornire alcuna garanzia di obiettività, anche solamente abbozzata. Sempre raggomitolato nel proprio personalissimo giudizio di gusto, si mette al riparo dalle critiche perché, tanto, de gustibus…
L’analitico abbonda di precisazioni oggettive (nomi, date, titoli…) senza però mai esprimere opinioni personali, se non stereotipate e di facciata. Il suo intento è puramente informativo, mai critico.
Al contrario i caratteri forti cercano di dominare l’album, di farne una personale materia d’indagine, spesso eccedendo in supponenza, volgarità e pignoleria. 
Il gonzo parla in prima persona come colui che per anni ha vissuto di musica e quindi sa quello che dice, anche se ai più può sembrare quantomeno bizzarro. La garanzia sul suo giudizio è lui stesso, la sua esperienza, il suo vissuto.
Il pedante da sfoggio di cultura e memoria, salvo poi perdersi del tutto in esse, dimenticando che lo scopo di una recensione è presentare un prodotto, non dimostrare enciclopedica conoscenza. 
Il bastian contrario, rigettando costantemente l’opinione comune, vive in un “mondo parallelo” di democrazia all’opposto in cui sono le minoranze e i vinti a scrivere la storia. Mirabile, ma spesso forzato.
Questi sei personaggi, presi a due a due, possono essere considerati due facce della stessa medaglia. Così da una parte sta l’analitico, con le sue puntuali precisazioni, dall’altra il pedante, con le sue fumose digressioni: entrambi parlano del superfluo. 
Da un parte il narratore, nascosto dietro la prima persona, dall’altra il gonzo, che da sfoggio della prima persona: entrambi sono personaggi nel testo. 
Da un lato sta il fanatico, che replica ed amplifica il pensiero comune più acritico e succube del mercato; dall’altro il bastian contrario che sta costantemente fuori dal coro. Entrambi sono dei succubi della democrazia.
E il conformista? E’ un carattere liquido, che si adatta alle situazioni e si piega facilmente al soffiare del vento; però lo fa con cautela, perizia e buona scrittura. Qual è il suo intento ultimo? E’ rifugiarsi costantemente nell’oggettività, o meglio in ciò che egli scambia per oggettività e che è invece il pensiero più condiviso, che può essere quello della maggioranza o quello degli esponenti più riveriti di una comunità (per Hume era il “consenso degli esperti”). In questo modo crea l’illusione dell’inattaccabilità, dell’esattezza e dell’obiettività, ma in realtà si schiera solamente dalla parte più numerosa o da quella con la voce più forte. Non fa che perpetuare una convenzione, cioè che la verità sta dalla parte dei più forti, cosa che nell’Arte, in cui il parlare di verità ha spesso poco senso, è di fatto un discorso vuoto.


In dettaglio…


Il Fanatico

Il fanatico non scrive una recensione, compone l’esegesi di un testo sacro, l’agiografia di eroi leggendari. Grammaticalmente sfrutta tutte le possibilità del superlativo relativo ed assoluto ed abbonda in iperboli tali da andare anche oltre la sfera musicale di competenza. L’analisi delle tracce è completa ma non troppo approfondita: non si sa mai che scavando troppo si trovi qualche difetto… La stessa cosa accade per i riferimenti a band analoghe: sono ammessi paragoni solo con altri Immortali. Piuttosto comune la “professione di umiltà” come introduzione.


L’analitico

L’analitico è un pignolo al primo stadio. Utilizza come massima espressione grammaticale l’inciso e la frase incidentale, definendoli tramite virgole, parentesi ma anche trattini, come fosse un discorso diretto finito per caso nel testo. La sua attenzione sarà massima verso i particolari e assai minore rispetto al contesto e al quadro d’insieme. Innamorato di nomi e date, non mancherà di informarci all’inverosimile sul superfluo, faticando a trasmettere calore e passione. Il suo è un intento puramente informativo.


Il narratore

Questo personaggio vi accompagnerà lui stesso nella recensione in quanto, oltre che autore, ne è anche narratore interno. Da qui il largo utilizzo della prima persona e di frasi ricche di pronomi e aggettivi possessivi a formare espressioni del tipo: “a mio parere”, “mi fa venir in mente”, “per me”… E’ comune il tentativo di dare un taglio più narrativo al testo, fatto ben evidente nell’utilizzo di introduzione e conclusione collegate e a tema autobiografico. Spesso il testo degenera in uno scolastico “simil-tema-del-liceo” a sfondo musicale.


Il gonzo

Nella migliore delle ipotesi è una narratore con cognizione di causa; nella peggiore, la più comune, è solo un fanatico che usa la prima persona del verbo. Adopera frequentemente inglesismi bizzarri (e italianismi, perché no?) e frasi fatte da critico; è un cultore di beat generation, Lester Bangs e Charles Bukowski; non rinuncia a parole o espressioni volgari e tratta spesso del proprio vissuto piuttosto che dell’album in questione; risulta sempre scettico, cinico e disincantato riguardo al carrozzone della musica rock, di cui per altro fa immancabilmente parte.



Il bastian contrario

Il bastian contrario è in disaccordo per principio; non è un critico, non è un analista o un libero pensatore. E’ uno statista: identifica la maggioranza e si schiera al suo opposto. E’ prigioniero, in modo contrario, delle convinzioni altrui. 
La logica sarebbe stata fare di questo pezzo una recensione negativa, ma ciò contravveniva alle regole del gioco e si è dovuto ripiegare su un profilo un po’ differente. Il bastian contrario è in accordo sul piano generale (Led Zeppeli IV gli piace!) ma è in perenne disaccordo nello specifico. 
Non lo nego, è stata una sfida!


Il pedante

Costui fa della digressione la sua arma segreta: meno preciso dell’analitico, più verboso dell’esaltato, il pedante ha grossi problemi nello stare entro i limiti di lunghezza. Abbonda di punteggiatura e perifrasi, evita le ripetizioni solo con estenuanti giri di parole. Il suo periodare è a volte involuto e sovente ipotattico. e proprio attraverso la sintassi passa la sua caratterizzazione. Spesso sull’orlo della supponenza, non riesce mai a cogliere nel suo testo il senso unitario di un album. Pur non andando fuori tema, la sua recensione, ad una lettura attenta, parlerà di tutto fuorchè dell’album in questione.


Il conformista

Un tipo subdolo; ottimo padronanza della lingua, testi equilibrati, lessico vario. Lo si riconosce, a volte, solo ad una seconda e più approfondita lettura. Raramente prende posizioni definitive, smorza ogni superlativo, è un virtuoso della compensazione e dell’equo bilanciamento. Politicante della musica, “veltroniano” della sintassi, predilige costruzioni correlative del tipo “non solo… ma anche”, “sia… sia”, “né… né”. Sfrutta forme avverbiali e dubitative che passano spesso inosservate come “forse”, “probabilmente”, “magari”, “quasi certamente”… Si fingerà in disaccordo sulle piccolezze ma è solo una strategia per sviarvi: sul piano generale, laddove le cose contano, sta sempre con la maggioranza o con il pensiero degli opinion leaders dominanti. Facile ai populismi, il suo fine è l’illusione dell’oggettività.


In conclusione…

Chiunque ha avuto a che fare, attivamente o solo passivamente, con la scrittura ad argomento musicale, si è dovuto confrontare, magari in modo indiretto, con stereotipi di questo tipo, che qui sono sette ma potrebbero benissimo essere il doppio… Stereotipi che si generano spesso a partire dalla lingua, dal lessico e dalla sintassi, per poi espandersi alle opinioni, ai giudizi fino alla critica vera e propria. Stereotipi utili per costruirsi categorie che facilitino la comprensione della sfuggente materia artistica ed estetica, utili per creare classificazioni che agevolano la formulazione di un giudizio. Ma che vanno sempre riconosciuti come tali: contenitori chiusi, poco malleabili e tendenzialmente assai pratici quanto però convenzionali. Occorre usarli, ma non lasciarsi usare da essi.
In molti si potranno riconoscere in qualcuno di questi caratteri, probabilmente in più di uno, magari in un intero schieramento. E’ la normalità.
Sfruttarli, analizzarli, sviscerarli è un buon modo per imparare a gestirli, impiegarli nel migliore dei modi e magari esorcizzarli. Imparare a spenderli con parsimonia e consapevolezza, per non abdicare mai il proprio gusto alle categorie altrui.

***

Il Fanatico 

Non so se sia possibile trovare le parole giuste per descrivere un capolavoro come questo; spero di essere in grado di farlo, ma l’importanza e la celebrità di questo disco fanno veramente venire i sudori freddi a chiunque provi a recensirlo.
Led Zeppelin IV è il quarto leggendario album di una band a sua volta leggendaria: i Led Zeppelin. Dopo avere gettato le basi per tutto l’Hard Rock e buona parte del Metal (merito condiviso con altri giganti di quel tempo: Black Sabbath e Deep Purple) la band del geniale chitarrista Jimmy Page si concentra per la realizzazione dell’album perfetto. E ci riesce, a partire dalla mitica copertina che ormai ha fatto storia. Dall’inizio alla fine, dall’intro di Black Dog alla dissolvenza di When The Levee Breaks, quest’album mantiene un livello musicale altissimo e costante, senza nessun cedimento, nessuna indecisione e picchi di vertiginosa bravura e virtuosismo. 
Black Dog è un opener coi fiocchi: giro di basso tiratissimo e vocals estroverse e potenti, in quel puro stile hard che ti sbatte nelle tempie. Segue Rock’n Roll, una traccia il cui solo nome già dice tutto: un concentrato di rock purissimo che parte da Good Golly Miss Molly e attraversa vent’anni musica scatenata, rivista sotto l’aura di ultrapotenza del combo di Page & Plant. Con la terza canzone, The Battle of Evermore, entriamo in un regno di magia e suggestione affascinante, misterioso, sia per la delicatezza degli strumenti acustici sia per la presenza, come seconda bellissima voce, di Sandy Denny, che duetta con Plant su un testo che cita Angeli di Avalon e Regine della Luce: un mondo pagano e antico collegato al sorprendente utilizzo di quattro antiche ed indecifrabili rune che sostituiscono i nomi dei componenti della band. Un incredibile voltafaccia al marketing.
Ma ecco che arriva il pezzo che più di ogni altro rappresenta un modo di fare rock ormai scomparso: un modo epico, che affianca ad un virtuosismo fantastico l’ispirazione e la gioia stessa della musica. Quel pezzo è Stairway to Heaven, massimo testamento artistico del dirigibile e ballata dall’aura mistica che fa letteralmente sognare ad occhi aperti, fissandosi in modo indelebile nelle memoria. Page inizia con un arpeggio sul manico della dodici corde, Jones lo segue con le sue tastiere flautate. Quando, a metà del brano, si aggiunge la possente ed inimitabile batteria di John Bonham (R.I.P), ecco che la canzone decolla verso vette inconcepibili per noi umani. Il lungo assolo di Page è uno dei tre o quattro più famosi pezzi per chitarra di sempre assieme a quelli di Hotel California e Bohemian Rhapsody dei Queen. Alla fine di questa strepitosa canzone non ci sarebbe altro da aggiungere, ma i quattro fenomeni non hanno ancora finito il loro trattato sulla perfezione in ambito Rock. Ed ecco che le tastiere introducono Misty Mountain Hop, una canzone assai ascoltabile e ritmata. Poi viene il curioso esperimento di Four Sticks in cui Bonzo suona addirittura con quattro bacchette! La penultima song, Going to California, è una canzone acustica che apparentemente rinuncia al furore hard, sulla falsariga di certi pezzi dell’album precedente: una dolce ballata che ci dimostra come questo gruppo fosse composto da artisti veramente completi e difficilmente etichettabili in maniera univoca.
Chiude l’album When The Levee Breaks, con la più imponente batteria mai incisa su disco che apre un lungo brano che ci chiarisce le profonde e più autentiche radici blues del quartetto.
Per concludere, chiunque ascolti questo album sa di trovarsi di fronte ad un’opera immortale, un disco epocale, un inossidabile masterpiece di tutta la musica, come adesso non se ne fanno più; composto da musicisti completi che hanno saputo trovare la via alla perfezione della musica rock lassù, su una scala verso il paradiso.




L’analitico 

Led Zeppelin IV, o Zoso (cioè la trascrizione della runa che identifica Jimmy Page in copertina), è il quarto album del celebre gruppo inglese. Pubblicato nel novembre 1971 senza che sulla busta comparissero i nomi dei musicisti, per volere del gruppo stesso, è per questo spesso identificato anche come “Untitled”. Può essere considerato il coronamento del primo periodo della band, fondamentale e seminale, cominciato con Led Zeppelin I (pubblicato nel 1969) e proseguito negli altri due dischi successivi (II e III).
Musicalmente gli Zeppelin spaziano dall’hard rock alla ballata acustica, fino al blues, dimostrandosi ben capaci di affrontare con scioltezza e padronanza perfetta stili anche così diversi tra loro. 
La prima traccia, “Black Dog”, derivata da un giro di basso scritto da John Paul Jones, apre le danze con una struttura “stop & go” che ricorda “Oh Well!” dei Fleetwood Mac (su Then Play On, 1969). 
La seconda traccia, “Rock and Roll”, comincia con una citazione di una vecchia canzone di Little Richard del 1958, “Good Golly Miss Molly”, e prosegue come un omaggio scanzonato al vecchio rock n’ roll di fine anni ’50, quello di Chuck Berry, Elvis Presley e Jerry Lee Lewis. Un pezzo veramente scatenante. 
Nella terza traccia, il cui titolo è “The Battle of Evermore”, compare, come seconda voce, Sandy Denny, la cantante di un gruppo folk, i Fairport Convention, piuttosto famosi all’epoca e freschi dei successi di Liege & Lief (1969) e Full House (1970). E’ una delicata ballata di quasi 6 minuti in stile medioevale in cui Robert Plant cita riferimenti alla vecchia tradizione pagana inglese. E’ un pezzo molto affascinante, mistico e in grado di trasmettere un’aura misteriosa all’ascoltatore anche grazie al mandolino suonato da Jones. Jimmy Page non aveva in effetti mai fatto mistero di avere un grande interesse per la figura di Aleister Crowley, un occultista vissuto in Inghilterra tra il XIX e il XX secolo: anche a lui si ispira la copertina interna, con la figura dell’Eremita (carta n° 9 dei Tarocchi). 
Questi tre brani forniscono una sorta di introduzione al capolavoro del disco e probabilmente di tutto il Rock dell’epoca e non solo: “Stairway to Heaven”. È questa la canzone più trasmessa in assoluto dalle radio statunitensi che la mandavano spesso in onda in contemporanea con il funerale di qualche giovane fan della band; già da questo possiamo capire l’importanza e la considerazione, del tutto meritate, che ha assunto nel tempo. Inizia con un arpeggio leggero di Page sulla chitarra a dodici corde, mentre le tastiere di Jones, che imitano il suono di un flauto, la accompagnano con una melodia di grande mestizia. Poi arriva la voce di Plant ad introdurre il tema della “scala dorata”, un testo che il cantante sosteneva di avere scritto come in trance; a metà del brano si aggiunge anche la batteria di John Bonham, che conduce al famosissimo assolo alla sei corde di Page, un momento di altissima tecnica strumentale.
Il brano seguente, “Misty Mountain Hop”, presenta un interessante riffing “multi-layer” per piano elettrico doppiato dalla Les Paul. 
Intrigante anche “Four Sticks”, che Bonham interpreta con quattro bacchette (due per mano) per tenere un tempo dispari in 5/8. 
Nei 3 minuti e mezzo di “Going to California”, il gruppo ritorna esattamente al sound del terzo album, (“That's the Way” in particolare) con un soffice brano acustico che rappresenta un omaggio di Robert Plant all’amata California e in particolare alla cantante Joni Mitchell. 
“When the Levee Breaks”, ultimo brano, è la cover di un vecchio blues composto da Memphis Minnie nel 1929: l’introduzione di batteria è monumentale tanto da essere in seguito stata campionata da numerosi gruppi hip-hop tra cui i Beastie Boys di “Rhymin' & Stealin” (da Licensed to III, 1986); la canzone è un torrido blues in 12 battute con chitarre ruggenti ed armonica incisa in modalità “backwords”, al contrario, con un bell’effetto straniante.
L’album venderà qualcosa come 23 milioni di copie (23 dischi di platino) facendo delle sue canzoni, e di “Stairway to Heaven” in particolare, manifesti intramontabili del rock classico degli anni ’70.
Voto: 9,50/10


Il narratore 

Mi accingo a scrivere questo pezzo mentre il CD ancora gira nello stereo. E’ passato ormai parecchio tempo da quando ho acquistato Led Zeppelin IV per la prima volta, ma ne è passato poco dall’ultimo ascolto. Questo è uno di quegli album che riesce sempre a trasmettermi qualcosa di profondo, che ogni volta mi regala emozioni nuove e differenti dalle precedenti. Voglio mettere subito in chiaro le cose dicendo che, a mio parere, questo è uno degli LP che si merita il titolo di capolavoro. E mentre il mio stereo è a tutto volume, incurante delle orecchie di chi sta al piano di sotto, voglio anche tagliarla corta coi preamboli.
Immergiamoci allora insieme nell’ascolto del mitico Zoso!
E che inizio! Non c’è il tempo di rilassarsi un attimo che siamo subito inseguiti dal cane nero di Black Dog, un classico hard rock come gli Zeppelin ci hanno abituato nei precedenti lavori.
Rock n’ Roll, non c’è niente da fare, mi fa sempre scatenare: una canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry rivisitata dalla potenza del quartetto inglese. Con una accoppiata di tracce del genere la strada sembra segnata. Ma ecco uno di quei cambi di umore che segnalavo all’inizio: Battle of Evermore è una ballata lenta, in cui ogni volta ci sento dentro qualcosa di nuovo. La prima volta che l’ascoltai, devo ammetterlo, rimasi delusa; ma col tempo, ho cominciato ad apprezzarla di più: sarà per gli intrecci acustici di chitarra e mandolino o per la bella voce della cantante Sandy Denny che duetta con Plant? Un brano, a mio parere, ancora da scoprire a pieno nel catalogo degli Zeppelin.
Ma ecco che ci siamo; alzo appena il volume, spengo la luce. E’ il momento di Stairway to Heaven. Una canzone per cui proprio non ce la faccio ad essere oggettiva; perché? Forse perché non è una canzone ma è la canzone; quella che mi ha fatto scoprire il Rock, quello con la “r” maiuscola, quello degli anni ’70, quello che mi ha accompagnato nei momenti più esaltanti e mi ha sorretto in quelli più deprimenti. Non ho tante parole per descrivere questo brano: ascoltatelo voi, in silenzio, magari in penombra; ascoltate l’assolo di Page. 
Il tempo sembra fermarsi per un momento… ma il CD gira e l’album è incalzante. Misty Mountain Hop è una canzone che ho sempre ritenuto sottovalutata, forse sarà il fatto che segue un mostro come Stairway o che magari manca un po’ di “personalità”; io la trovo accattivante, robusta nel riff ma affascinante nelle liriche un po’ lisergiche e surreali. Ma a proposito di fascino vorrei spostare per un attimo il discorso sulla copertina di quest’album, misteriosa ma piena di significati, in cui il gruppo ha voluto rappresentare, nel contrasto tra il vecchio e la città, il contrasto planetario tra “natura” e “umanità”. 
Fra tutti i brani dell’album, Four Sticks è sempre quello che mi ha preso di meno: riconosco la bravura di Bonzo a destreggiarsi in una ritmica così complessa, ma la melodia non mi ha mai convinto più di tanto. Poco male perché il brano seguente, Going to California, con la sua dolcezza acustica è sempre stato uno dei miei preferiti nel catalogo “Zeppelin Unplugged”. Una canzone che a tratti ricorda i brani migliori di Led Zeppelin III e che è un’ode del gruppo all’amata west-coast.
Un paio di secondi si silenzio, ed ecco che una batteria veramente statuaria ha riempito la mia stanza: è When the Levee Breaks, ultimo pezzo, un ritorno all’amato blues dell’album d’esordio. Un brano che mi richiama alla mente certi passaggi di How Many More Time o addirittura di Dazed and Confused, altro capolavoro che ho amato alla follia.

Non resta molto da dire; anche il mio stereo si è spento, dopo l’ultimo giro vorticoso di un CD da considerarsi immortale. Ancora un ascolto, e mi sento pieno di qualcosa di nuovo. Credo che ogni disco si possa amare od odiare, credo che ognuno di noi abbia un capolavoro che qualcun altro detesta. Forse questo è l’album che ci può veramente mettere d’accordo tutti; almeno su cosa sia il Rock, quello vero.
Alla prossima!


Il pedante 

Non si può certo dire che nel 1971 la ribalta della scena rock mondiale non fosse ricolma di grandi nomi e grandi dischi: Sticky Finger degli Stones, L.A. Woman dei Doors, Fragile degli Yes, Who's Next e tanti altri. Fu in questo notevole momento di creatività diffusa che i Led Zeppelin, i quali già da qualche anno avevano scosso la scena musicale prima con l’esordio hard blues di “I” e soprattutto con la vera e propria invenzione di un nuovo sound, l’hard rock, con il cosiddetto Bombardiere Marrone, arrivano con la loro quarta uscita a raggiungere quella perfezione formale che stabilirà un nuovo canone per tutto il classic rock e l’AOR dell’immediato futuro. Cosa sarebbero Aerosmith, Bad Company, Foreginer, ma forse anche Styx e Kansas senza gli Zeppelin e soprattutto senza questo album?
Un album che già dalla copertina detta le regole: in questo caso la regola di rinunciare in toto al marchio; rinunciare all’immagine, quel logo che per tanti gruppi è sinonimo di commerciabilità e vendibilità, che magari i progressivi più sofisticati si facevano disegnare da qualche illustratore famoso (magari Roger Dean?), perfino quel nome, quello stesso che stava stampato sui primi tre album degli Zeppelin, è quello stesso nome che scompare da IV, che per questo, non senza ragione, viene spesso identificato con l’appellativo di “Untitled”. Come se la Apple rinunciasse alla “mela” o Google al proprio nome colorato. Eppure in quel periodo, pur così denso di dischi che sarebbero presto diventati classici, questo album fu immediatamente riconoscibile poiché portatore di un messaggio che non poteva essere facilmente travisato.
Quel messaggio, che oggi è giustamente riverito come uno dei massimi testamenti musicali dell’epoca, ma non solo, è Stairway to Heaven. Il brano che inizia con un dolce arpeggio di Page alla dodici corde, presto accompagnato dalle tastiere da favola di Jones, prosegue come una “power ballad” da manuale che sfocia finalmente in uno degli assoli più celebri della storia del Rock. E qui è necessario aprire una parentesi per considerare quanto questi pochi minuti strumentali abbiano colpito i giovani americani infatuati di rock nei primi anni ’70, quelli che magari già strimpellavano qualche strumento al college e che dal giorno in cui ascoltarono questo pezzo ebbero chiara la strada da percorrere. Pensiamo a Montrose, Blue Oyster Cult, Boston, di nuovo ad Aerosmith, Bad Company, Foreginer: anche qui forse c’è la ragione della loro esistenza.
E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di certo la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca.
Chissà se Chuck Berry, nello strimpellare Johnny Be Good o Roll Over Beethoven, aveva immaginato che quel suo nuovo sound un giorno avrebbe partorito brani come Rock n’ Roll, che da sola riassume tutto quanto un genere, o come Black Dog con le sue sfuriate rumorose degne del metal.
Ma gli Zeppelin non sono solo chitarre elettriche spianate o batterie rombanti come in When the Levee Breaks; anzi forse parte del cuore di questo “IV” sta ancora nello sperduto e romantico cottage di Bron-Yr-Aur dove Page e Plant, appena un anno prima, in compagnia di qualche “roadie” e poco più, misero a fuoco un approccio musicalmente differente, fatto di ascolti acustici e antiche suggestioni britanniche. E furono in effetti abili a sapere come mantenere con naturalezza il gruppo su due binari, perché è certo innegabile, ci mancherebbe, che i Led Zeppelin abbiano coniato il primo vero suono duro della scena rock (certo, non da soli, ma insieme a ad illustri colleghi come Cream, Hendrix, Sabbath, Jeff Beck…), ma hanno anche contribuito alla ricchezza di quel folk britannico che tra gli anni ’60 e ‘70 ha dato prova di grande creatività e freschezza, con gruppi come Pentangle, Incredible String Band, Fairport Convention, guarda un po’ la band dell’illustre ospite Sandy Danny che canta in The Battle of Evermore; e perché no, allora anche Led Zeppelin, quelli di Going to California e soprattutto del pezzo succitato, con i suoi duelli acustici di chitarre e mandolini che almeno risparmiavano a Bonzo l’ennesimo tour de force. Certo, niente paura, perchè poi ci sono anche canzoni come Misty Mountain Hop o Four Sticks, ma soprattutto brani come l’ultimo del disco, quella When the Levee Breaks, in realtà un vecchio blues del Delta, ormai celebre per la figura di batteria più imitata in campo hard, che riallaccia il filo non più con la tradizione folk di altri brani, o di interi album come III, bensì con un’eredità di blues elettrico, Waters, Willie Dixon, Wolf, che è poi quella originale da cui gli Zeppelin avevano pescato a piene mani per i primi due album.
Quindi, in conclusione, quello che qui abbiamo per le mani è un album di sintesi assai riuscito: sintesi tra due, o forse anche tre o quattro, anime che sin dall’inizio convivevano nel gruppo conferendogli un’ecletticità che mancava ad altri grandi come Who o Yes; un album uscito apparentemente indenne dalla prova del tempo, cosa che a molti mostri sacri mai è del tutto riuscita; un album che è stato in grado di fondere tradizione folk, radici blues e ispirazione rock. Un album, e vado a concludere, il cui ascolto è di fatto un obbligo per chiunque abbia l’ambizione o il desiderio di parlare e scrivere di musica.



Il gonzo 

Queste redazioni virtuali non sono certo quelle di una volta; almeno dieci anni fa qualcuno mi attaccava un post-it minuscolo sullo schermo: “G.B. serve pezzo P.I.L. x venerdi 12!”. Dodici; venerdì sarebbe stato il 14, ma comunque… 
Ora invece arriva la mail! Inchinatevi oh voi sottoredattori pulciosi alle parole del grande capo! Rigorosamente via mail. Elenco pezzi disponibili, poche pippe e rispondere in fretta (fretta: cioè smettetela di farvi le seghe, chiudete Youporn e ditemi i pezzi che volete). 
Ma per fortuna per me non funziona così; che culo essere una penna ricercata! G.B. si cucca il quarantesimo anniversario di Zoso, eccheccazzo! Mamma mia! E non tanto per la settima recensione che scriverò su questo disco in 27 anni di carriera. 
Quarantesimo anniversario. Certo che il tempo scappa veloce.
Non ricordo esattamente quando comprai l’album, anzi non ricordo esattamente nemmeno quanti ne abbia comprati di L.Z. IV: un paio di vinili (di cui uno è una bella english press), poi la cassetta, un CD che ho prestato a Joe Marozzi nel ’92 (e mai me l’ha ridato, l’infame…). Lo confesso: mi esce dalle orecchie.
Ma facciamo pure ‘sto pezzo. 
Da dove si parte a scrivere di Zoso? Tutti hanno già detto tutto. E allora non resta che ribadire l’ovvio. Si parte da una considerazione banale: questo è un grande platter; e Stairway to Heaven è un gran pezzo. Mi sarei anche stancato di sentire certi damerini ultracool, iperalternativi, che giocano al piccolo cinico gettando da anni merda su ogni disco uscito prima del ‘76. 
Ok, ci siamo ascoltati tutto il punk di questo mondo, abbiamo sopportato Johnny Rotten, Anarchy in Inghilterra e perfino Sid Vicious; ci siamo vestiti come Joey Ramone, abbiamo goduto come mandrilli per ogni rumorosa cazzata post punk. 
Adesso basta.
Basta revisionismi radical-chic del cazzo.
Altrimenti la prossima volta che mi fanno scrivere di Sticky Fingers andrà a finire che dovrò sostenere che l’olocausto non è mai esistito e che Richards non si faceva di eroina.
E’ roba per cui si va in galera!
Quindi, stop con le pose originali-indie-alternative: Stairway è una signora canzone! 
Bene, detto questo sfogatevi pure su quel testo balordo (il più sopravalutato di sempre, s-e-m-p-r-e!) ma non andate oltre, perché ormai anche Johnny Rotten è roba da museo. E non c’è bisogno di travestirsi da panda del WWF per la raccolta fondi in favore dei preraffaelliti sul dirigibile più famoso d’Inghilterra. Badate bene: quelli sono veramente capaci di pisciarvi in testa e farvi credere che è acquerugiola di dolce primavera precoce. Quale altro gruppo riuscirebbe a farvi credere che Four Sticks è una genialata? Quali altri quattro bastardi metterebbero mai assieme cocci vecchi di vent’anni per farci Rock n’ Roll? E tutti a gridare al miracolo: “…canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry!” Wow! Non mi dire. Addirittura c’è ancora chi pensa che le visioni da fotoromanzo di Artù e Ginevra in Battle… siano autentiche concezioni culturali! 
Let me say: questi vi fregano! Lo hanno sempre fatto da quando hanno rubato Dazed and Confused a quello sfigato di Jake Holmes. Vi hanno sempre fregato, ma volete sapere una cosa? Lo hanno fatto con una grande classe! Ve lo hanno messo di dietro eppure vi hanno fatto godere. Mai provata quella sensazione? Bè ci si rimane male, aftermath. Ma mentre ascoltate quel drumming, quella cazzo di chitarra, quel pennellone tutto capelli che canta come una checca in calore: mentre ascoltate tutto questo, allora pregherete per averne ancora. Di più, datemi tutti i centimetri del vostro amore, bastardi! 
E non ve ne fregherà niente se è paglia o oro, perche i Led Zeppelin possono tramutare l’una nell’altro come nessun ha mai saputo fare.
Ma se volete un consiglio dal vecchio G.B. andatevi ad ascoltare due pezzi, solo due. Il cane nero: perché quelle chitarre sono veramente selvagge e non sfigurerebbero a Detroit. Poi When the Levee Breaks perché, occhio, è il migliore tra tutti i blues travisati nei secoli dagli Zeppelin; è la travisazione somma, la più fantasiosa, la più approfondita, senza paccottiglia psichedelica di contorno: solo stupore, casino e strafottenza ritmica. E’ anche l’ultimo grande blues di un gruppo destinato a sprofondare con Houses of the Holy da lì ad un paio d’anni. 
Visto? Vi hanno fottuto ancora, ma lo hanno fatto alla grande!



Il bastian contrario 

Dopo un trittico di successo imponente e notevolissimo spessore artistico, per i Led Zeppelin sembra giunto il momento della riflessione e addirittura del ripensamento. 
L’album numero quattro della serie, a posteriori, è stato il più celebrato, il più popolare, il più redditizio. Tale sovraesposizione, legittima e in buona parte meritata, è però dovuta esclusivamente a Stairway to Heaven, il brano feticcio di tutta quanta un’epoca che oggi pare piaccia identificare come “classic rock”, quasi a volerne sottolineare una quantomeno dubbia supremazia su tutto il resto.
Stariway è il preferito dei fans, delle fans (…in netta minoranza…), il preferito dalle radio, soprattutto il preferito dei recensori apocrifi. Ma cos’è realmente questa canzone? Una ballata affascinate, senza dubbio, maliziosa, costruita per piacere senza stupire né “shockare”. Una grande prova di maturità e di mirabile costruzione musicale, ben più cerebrale di quanto non sembri.
E se immaginiamo, per assurdo, di togliere questa ballata dalla tracklist dell’album, cosa resta? Possono gli hard-rock di Black Dog e Rock n’ Roll tenere testa ai pezzi migliori del secondo album? Possono le pur pregevoli distorsioni blues di When the Levee Breaks essere paragonate a Dazed and Confused o How Many More Time, quelle sì realmente foriere di stupore e incredulità? 
Quello che i Led Zeppelin avevano seminato nei primi tre LP, viene qui sintetizzato, condensato e raccolto in due ottime facciate; ottime ma, scendendo nei particolari, non al livello dei singoli capolavori precedenti. E se consideriamo quanto sia comunque spettacolare anche questo Zoso, possiamo capire veramente la grandezza di questo complesso, troppo spesso relegato all’arcinoto e stantio ruolo di “patriarca dell’heavy metal”. In realtà erano ben altri i gruppi che stavano partorendo le mostruosità metalliche definitive: Gun, Black Widow, poi Blue Cheer, Grand Funk e Bloodrock in terre oltreoceano. I led Zeppelin non furono gli inventori di nulla, ma i precursori di molto, e questa è forse la reale grandezza anche di questo album.
E il bello di Zoso sta nelle pieghe e negli interstizi, più che nelle celebrazioni postume. Tralasciando quindi i “soliti noti”, ecco che una canzone minore come Misty Mountain Hop dispiega, nella semplicità di un riff elementare ed ostinato, tutta la mistica tanto cara ai componenti del gruppo, riproponendo una visione tardiva, distorta e naif di quell’ Alice in Wonderland che tanto piaceva ai Jefferson Airplane. Ecco che la scheggia epic-folk di The Battle of Evermore dischiude scenari celtici per mandolini ed eroismi assortiti, dove non è tanto l’ospite Sandy Denny a brillare, quanto la cristallina intesa acustica tra le corde di Page e Jones. Ma soprattutto la sempre bistrattata Four Sticks, colpevole solo di un titolo infausto che attira l’attenzione laddove non ce n’è bisogno; e così si finisce per dimenticare quel bell’arrangiamento di stampo mediorientale, quasi un anticipazione di Kashmir, che sarà rivalutato pienamente solo vent’anni dopo, quando Page e Plant si riuniranno per No Quarter, il più misconosciuto dei progetti post-Zeppelin.
E pazienza se Rock’n Roll è un collage citazioni scolastico, pazienza se la voce di Plant non è eroica come un tempo, perché la produzione in studio di Page sopperisce ampiamente ad un materiale che per la prima volta comincia a dare segni di ripetitività; lo fa trovando nuovi equilibri, nuove raffinatezze ed una precisione sonora che mancava nelle prove precedenti, basti a sostegno di ciò il sound di batteria che apre l’ultima traccia.
Questo non è l’album migliore dei Led Zeppelin e forse non è nemmeno sul podio: eppure ascoltandolo è lampante il germe di un’ecletticità, perfino di una modernità per l’epoca addirittura rischiosa. Non un “Testo Sacro”, ma un vademecum da mettere a memoria, tanto per i residuati hippie folk, quanto per i più sofisticati stregoni del AOR di fine decennio.



Il conformista 

Non so se il volume di popolarità possa di per sé costituire, o almeno ispirare, un giudizio critico. Credo possa almeno fornire un criterio di valutazione con cui, perché no, tentare la classificazione di un lavoro artistico.
Se la “qualità” fosse decisa in democrazia, in quella dei mercati almeno, album come Thriller o Hotel California sarebbero indiscussi capolavori; come Led Zeppelin IV, come Dark Side of the Moon…
E alla fine, forse, lo sono davvero. E non solo in quanto il giudizio delle masse che li hanno idolatrati per anni ha sentenziato così. 
Nel caso di Zoso, sembra che un clamoroso successo commerciale si accoppi con un innegabile valore artistico, tratto su cui pur spesso si è discusso, ma che, anno dopo anno, pare rafforzarsi, consolidarsi, mettendo radici perfino nella moderna musica rock di generazioni spaurite che a volte guardano al passato come fosse fonte inesauribile di ispirazione e magari di sicurezze perdute.
E allora Led Zeppelin IV è uno di quegli scogli che si erge sicuro, non certo solitario, ma impassibile e solido. Prodotto del 1971, annata che potrebbe veramente essere considerata come definitiva di quel rock (Sticky Fingers, Who's Next, At Fillmore East…), fu, almeno nelle intenzioni, apice formale della prima parte di carriera del quartetto britannico.
Forse è vero che una Dazed and Confused fu più sbalorditiva, che sia Whole Lotta Love sia  Immigrant Song codificarono definitivamente un genere (con il benestare di Deep Purple e Black Sabbath); forse un blues come Since i've been loving you gli Zeppelin non l'avrebbero mai più scritto né interpretato.
Però, concediamoci per una volta ai ragionamenti semplici e abbandoniamo le pose artatamente alternative, revisioniste e intellettualoidi; diciamo che se mezzo mondo trovò in Stairway to Heaven il proprio vangelo musicale, un motivo deve esserci. Diciamo che la sicurezza, l'autocompiacimento e la sintonia del gruppo sono tali che numeri, per ogni altra band “di routine”,  come Rock and Roll e Black Dog trasmettono tutta questa strafottenza e questo strapotere auto celebrativo direttamente nella testa di chi ascolta; una medicina per le orecchie e il cervello. E’ il bello di una semplicità non banale, che arriva dritta al centro del bersaglio.
Jimmy Page, l'eremita con la lanterna nella busta interna del disco, stava cercando. Cercando il risultato ultimo, quello non più migliorabile; quello perfetto. La sintesi tra qualità del prodotto e successo di pubblico. Regge la lanterna assieme ad un cantante magari non più mitologico di voce ma ancora fresco, ispirato, a modo suo coraggioso nella propria infantile visione favolistica del reale. Assieme ad un percussionista che fu il vero fulcro della band, e con cui, in When the Levee Breaks, ha semplicemente inciso “la batteria” per antonomasia, se non da una prospettiva prettamente tecnica, almeno per la memoria collettiva degli appassionati. Con un polistrumentista, arrangiatore, bassista che fa tutto quanto il resto, a partire da quel richiamo flautato col quale  incomincia quella che con ogni probabilità è la prima, reale ballata rock per il popolo. Forse un popolo di ragazzini; ma di una generazione curiosa. Forse una ballata a tratti scontata, ma che è riuscita a non essere effimera. 
E poi, proviamo ad ammetterlo senza troppi pregiudizi, ci sono volute, ahimè, superstar come queste per mettere a nudo il sistema-Rock, per riversarlo nelle torri del capitalismo sfrenato. Ci sono voluti questi preraffaelliti intoccabili, corrucciati e irraggiungibili sul loro boeing da Mille e una Notte per dare il colpo di grazia definitivo al 45 giri, alle interviste pilotate, alla stampa specializzata, alle copertine con foto in chiaroscuro. 
Per assurdo, ci sono voluti loro, ebbene sì, anche per fare deflagrare la bomba del punk. Tra le pieghe dei bizantinismi fantasiosi di Misty Mountain Hop o The Battle of Evermore, nelle periferie ritratte sul retro della copertina, sta la miccia di quell'esplosivo che avrebbe portato alla ribalta  un’ideologia risoluta, chiassosa, ma a suo modo fondamentale per lo sviluppo futuro di tutta la  musica popolare.
Nessuno all'epoca la vide; e come fare d'altronde?
Ma in molti recepirono un messaggio che oggi, a oltre quarant'anni di distanza sembra rimasto immutato; un'eco di fondo, costante a tutta la musica dei decenni successivi, che viaggia in parallelo ad altri enormi intoccabili come Pink Floyd,  Rolling Stones, Who, Doors…
Led Zeppelin IV, che allora probabilmente rappresentò un punto d'arrivo, oggi sembra essere il punto di partenza migliore per esplorare il cielo del Dirigibile.










Monografia: Vanilla Fudge

Il più grande enigma del 1967 

Mark Stein, Tim Bogert, Vince Martell  e Carmine Appice formarono i Vanilla Fudge sulle ceneri degli Electric Pigeons nel 1967 in quel di Long Island. Rimasero assieme per tre anni e cinque album.
Ancora oggi i Vanilla Fudge sono uno di quei gruppi, pochi per la verità, di cui si può coerentemente sostenere tutto e il contrario di tutto.
Grandi innovatori o semplice cover band? Eroi del Metal o gruppo per teenagers? Sbandati fattoni psichedelici o gelidi calcolatori progressivi? Musicisti originali o sapienti contrabbandieri del sound dei concittadini Vagrants? Grande successo popolare o macchinazione della mafia italo-americana di New York? (ebbene sì…girano anche queste voci…ma non prendetele troppo sul serio!).
Nell’affollata estate del 1967, quella dell’Amore mica una qualunque, i Fudge furono, in un modo o nell’altro,  catapultati nella top ten con l’album d’esordio omonimo, Vanilla Fudge (ATCO 33224): sette canzoni, tutte cover:

1. Ticket To Ride (John Lennon & Paul McCartney)
2. People Get Ready (Curtis Mayfield)
3. She's Not There (Rod Argent)
4. Bang Bang (Sonny Bono)
5. You Keep Me Hangin' On (B. Holland, L. Dozier, & E. Holland)
6. Take Me For A Little While (Trade Martin)
7. Eleanor Rigby (John Lennon & Paul McCartney)

Il sound era evidentemente assai debitore ai Vagrants di Leslie West (futura star nei Mountain), con i quali la band si divideva i palchi nei locali di Long Island, ma il successo del LP fu dovuto in gran parte a You Keep Me Hangin' On una hit delle Supremes vecchia solo di qualche mese.
L’anno successivo ben due uscite, registrate quasi in contemporanea. Una ha fatto la storia del kitsch estremo più di qualunque altro album dell’epoca: The Beat Goes On (ATCO 33237), un concept dalla tracklist intricatissima:

Side one

1.   "Sketch" (Appice/Bogert/Martell/Stein) - 2:55
Phase One
1.   "Intro: The Beat Goes On" (Sonny Bono) - 1:57
2.   Eighteenth Century: Variations on a Theme by Mozart: "Divertimento No. 13 In F Major" (Wolfgang Amadeus Mozart) - 0:46
3.   Nineteenth Century: "Old Black Joe" (Stephen Foster) - 0:46
4.   Twentieth Century - 3:09
    1. "Don't Fence Me In" (Cole Porter) - 0:52
    2. "12th Street Rag" (Euday L. Bowman) - 0:49
    3. "In The Mood" (Garland-Razaf) - 0:45
    4. "Hound Dog" (Jerry Leiber, Mike Stoller) - 0:43
    5. The Beatles - 1:45
a) "I Want To Hold Your Hand" (John Lennon, Paul McCartney)
b) "I Feel Fine" (Lennon–McCartney)
c) "Day Tripper" (Lennon–McCartney)
d) "She Loves You" (Lennon–McCartney)
e) "Hello Goodbye" (Lennon–McCartney)
Phase Two
6.   "The Beat Goes On" - 1:32
7.   Beethoven: "Fur Elise" & "Moonlight Sonata" (Ludwig von Beethoven) - 6:33
8.   "The Beat Goes On" - 1:05

Side two

1.   "The Beat Goes On" - 1:00
Phase Three
2.   "Voices in Time": Neville Chamberlain, Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt, Harry S. Truman, John F. Kennedy, and Other Voices - 8:09
Phase Four
1.   "The Beat Goes On" - 1:50
2.   "Merchant/The Game Is Over" - 8:57
                        I.      "Merchant" (Appice/Bogert/Martell/Stein)
                      II.      "The Game Is Over" (Bourtayre/Bouchety): Vinnie
                     III.      "Merchant"
                    IV.      "The Game Is Over": Tim
                      V.      "Merchant"
                    VI.      "The Game Is Over": Carmine
                   VII.      "Merchant"
                  VIII.      "The Game Is Over": Mark
                    IX.      "Merchant"
3.   "The Beat Goes On" - 2:20

L’idea? Riassumere in due facciate la storia della musica occidentale. Usando come motivo conduttore una canzonetta pop di Sonny Bono, The Beat Goes On, appunto. Non male, eh?
Di nuovo un album di sole cover ma a questo giro il gruppo alza il tiro: Mozart, Beethoven, Cole Porter. Il lato B poi è un’assurda sciarada per sole voci registrate (Kennedy, Churchill, Roosevelt )…la Storia del Mondo su LP?
Un disco del genere avrebbe ammazzato qualsiasi gruppo sul pianeta ed in effetti non portò buono nemmeno ai Vanilla Fudge, nonostante riscontri di vendita assai positivi: n° 17 per Billboard.

Renaissance (ATCO 33244), terza uscita, ritorna dove il primo LP era finito: canzoni deformate da arrangiamenti pesanti e melodrammatici, volume e presunzione altissimi. Questo doveva essere il primo vero album del gruppo dopo un esordio da cover band ed un pastiche come The Beat Goes On: 7 brani e solo 2 sono le cover!

1. The Sky Cried/When I Was A Boy (Mark Stein / Tim Bogert)
2. Thoughts (Vince Martell)
3. Paradise (Mark Stein / Carmine Appice)
4. That's What Makes A Man (Mark Stein)
5. The Spell That Comes After (Ezzra Mohawk - Liner Notes say 'Calvin Schenkel')
6. Faceless People (Carmine Appice)
7. Season Of The Witch (Donovan Leitch)

E forse il problema sta proprio lì: assoluta mancanza di ispirazione e songwriting di base. Nessuna idea melodica, nessun supporto armonico. Sound eccezionale; canzoni, semplicemente, brutte.
Per non tradire la megalomania del gruppo, l’album uscì corredato della una pomposa “Vanilla Fudge Simphony” scritta da Carl DeAngelis:

FIRST MOVEMENT
This sphere is near to being done
or being one
The Perpetual Inconceptual is and
silently awaits awareness from we
the people in order to form a more perfect
The neurosis nucleus must be made
Vestigial so the raw flaw legacy will be
a mutation in the new habitation
All ones shall softly quietly express the
image of the asexual ultimate while
floating through beauty love and
peace ...more than you will know
So-so, So-so
Cleanse before the angel falls
Wall of walls

SECOND MOVEMENT
Pretty people born of passion
competing defeating is inevitable fashion
Taught so well until it's too late
all the wrongs to accumulate
Who was it that said our primary need
is before we are dead we have to succeed
Success in itself must be one's own
Peace in the head when completely alone
A partner doubles all that there is
but look in the mirror what is hers or his
Nothing is something and something is nothing
the mixture is for later on
Until then continue how
breathing air must do for now

THIRD MOVEMENT
Consciousness expansion a reprimand
where is the consciousness to expand
To say and do both is a difficult game
where is the one who's both are the same
Looks aren't deceiving when vibrations are seen
but looks are just looking Through a translucent screen
The pulpit of music is leading the way
for all who will listen to the silent next day
Is where it's at really known
where it isn't must be shown
This place has its place not to be confused
by presuming all and that all has been used
A beautiful person is a beautiful thought
a living soul unhung uncaught

FOURTH MOVEMENT
An art form has risen
from St. John and St. Paul
St. George and St. Ringo
spreading to all slowly moved
by its gentle growth disciples compelled
overwhelmed and possessed
joining together in doing the best
Following following not knowing how far
Jim's special friend the avatar
Where we are going
not where we have been
error's showing "Let us begin"
Hi Ho Silver - AWAY

CATHARSIS

Il 1969 vede l’uscita di Near The Beginning (ATCO 33278), forse l’album migliore nonostante i 23 minuti di jam live del lato B: impressionante per proporzioni e ferocia, a tratti piuttosto noiosa. Tre brani sul lato A, due cover.

1. Shotgun (Autry De Walt)
2. Some Velvet Morning (Lee Hazelwood)
3. Where Is Happiness (Carmine Appice)
4. The Break Song (Stein, Bogert, Martell, & Appice)

Shotgun e la Some Velvet Morning di Lee Hazelwood sono i brani migliori mai incisi dai Vanilla. Il secondo vinse addirittura la gondola d’ora alla Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia, e rinsaldò la già buona fama italiana del gruppo che ebbe certamente non poca influenza sul nascente movimento Prog del Bel Paese (Panna Fredda in primis, ma anche Alphataurus e, perché no, New Trolls). Non è certo un caso che questa bella prova coincida con l’abbandono del super produttore-manager-direttore musicale Shadow Morton.
Di fatto nel 1969 il gruppo era però già finito. Le deliranti parti solistiche di Break Song rendono esplicite le velleità individualistiche del quartetto che pubblicherà ancora Rock n’ Roll (altro titolo modesto…) come testamento postumo e di scarsa ispirazione (sette canzoni… ancora tre le cover). Un album quasi apocrifo.
Qualche reunion, qualche tour commemorativo. Solita storia.
I meriti e gli eccessi vanno tutti ricercati nello spazio del triennio 1967-1969. In questo periodo il quartetto suonava regolarmente sui palchi più prestigiosi assieme a gente come Hendrix o Cream, per i quali i Vanilla supportarono il “Farwell Tour

Vanilla Fudge, l’album d’esordio, è uno dei più perfetti esempi di Rock barocco in tutta la sua pomposa artificiosità. Lo stratagemma è semplice e replicabile all’infinito: si prende una buona melodia pop, le si incollano lunghe parti strumentali in apertura e in coda, si rallenta il tempo e si alza il volume. Tutti i brani dell’album seguono questa regola e alcuni, come People Get Ready, restituiscono ottimi risultati. Stessa cosa faranno i Nazareth - ma anche tanti altri gruppi “pesanti” - con This Flight Tonight, Vigilante Man e soprattutto con Love Hurts, il loro maggiore successo. Ma gli stessi Led Zeppelin e Jeff Beck avevano adottato una simile formula di storpiatura, non più del pop ma del vecchio blues di Willie Dixon. L’idea  funziona! Non ci sono reali novità musicali, l’innovazione sta tutta in volume, timbro e tempo. Si prenda una colonna dorica e la si elabori con stucchi candidi e capitelli intarsiati di foglie esotiche: stessa funzione, diversa apparenza. E comunque nel 1967 i Vanilla Fudge erano un gruppo assai peculiare nel panorama americano ed assieme a Nice (The Thoughts of Emerlist Davjack) e Procol Harum (Procol Harum) rappresentarono la primissima linea di un rock pre-progressivo facile alle interpolazioni “classicheggianti”. A ciò si aggiunga il divagare arzigogolato del basso di Bogert e la vocalità acuta “da castrati” ed ecco due elementi ricorrenti del prog britannico di lì ad un paio d’anni.

The Beat Goes On, pur nella sua tronfia esagerazione, è un concept album esasperato ai limiti della rock opera (Tommy uscirà solo dell’anno seguente) che utilizza in modo intensivo, quanto superficiale, lo stratagemma del leit-motif; non certo un album wagneriano ma un esperimento unico pur nel panorama variegato dell’epoca, voluto e forse preteso dal produttore Morton, ma assecondato da un gruppo che accetta con una certa naturalezza “cover” imbarazzanti e stucchevoli di Classici come Per Elisa e Sonata al chiaro di Luna. Comunque una delle primissime contaminazioni esplicite di musica classica e pop. “Per i giovani il volto giovane della musica immortale”, così recitava la copertina del 45 giri di stampa italiana dei pezzi di Beethoven.

Renaissance è la grande occasione perduta. La dimostrazione che un seguito più personale ed autonomo all’album d’esordio era possibile. Ma…il Re è Nudo. Stein, Bogert, Martell e Appice saranno anche eccellenti strumentisti ma nessuno di loro è un autore, nessuno ha la minima idea di dove cominciare per scrivere una canzone. A parte qualche notevole parte solista in The Sky Cried o Thoughts il pezzo forte resta una cover: questa volta è Season Of The Witch di Donovan, che assume i tratti della tragedia shakespeariana in un gelido teatro fatto di allucinazione e paura. La copertina megalomane, i quattro scolpiti su un Mount Rushmore di proporzioni astronomiche, non fa che rafforzare il sospetto di trovarci di fronte ad un ego smisurato e pompato fino all’inverosimile.

Near the Begeinning è un album più misurato nonostante l’eterno medley che occupa tutto il lato B; niente poemi, niente proclami. Le canzoni trovano finalmente un proprio equilibrio e il sound è, se possibile, ancora più pregevole: pieno, potente, in grado di fondere alla perfezione il timbro caldo dell’Hammond alla violenza della chitarra e alla profondità del basso, mentre Appice si conferma uno dei maggiori talenti della sua generazione.
Shotgun è un Hard Rock purissimo, esteso, fatto di virtuosismo come di potenza d’assieme; Some Velvet Morning è un brano inumidito della rugiada di una foschia crepuscolare che esplode in boati metallici improvvisi e deflagranti, secondo un pattern soft/hard divenuto poi fin troppo abusato. Nell’introduzione al volumetto della Giunti “Heavy Metal – I Classici”, Luca Signorelli scrive “Non sono in pochi a cogliere in  Some Velvet Morning dei Vanilla Fudge il primo vagito del Metal”.
Chi fossero quei “non pochi” e quale il loro numero, non è dato sapere…ma l’opinione non è da scartare.

Traendo le somme della loro parabola artistica i misteri non si risolvono del tutto.
Un ascoltatore attento potrebbe trovare nella musica dei Vanilla Fudge buoni argomenti per sostenerne diritti di paternità tanto sull’ Hard & Heavy quanto sul Progressive (cioè i due pilastri del Rock dei primi anni 70) oltre che sull'Acid Rock di cui erano già conclamati paladini. Ma un ascoltatore altrettanto attento avrebbe altresì buoni argomenti per dimostrare come il gruppo newyorchese fosse poco più di una cover band per ragazzi.
Una cosa è certa: vi sono indubbie liaison sonore, spesso evidenti ed importanti, con eroi degli anni successivi (Yes, King Crimson, Uriah Heep, Moody Blues, ELP...); spesso si legge (pur da fonti non troppo attendibili o verificabili) che Lennon e George Harrison accolsero assai positivamente le cover dei Beatles: il che è tutto sommato plausibile; di certo le gradirono più di Beatle Bone 'n' Smokin' Stones di Beefheart o della I Saw Her Standing There dei Pink Fairies. Ma, speculazioni  a parte, i Vanilla Fudge esercitarono un paio di influenze dirette (e dichiarate) determinanti per l’evoluzione del Rock nell'immediato futuro.

We [Ritchie Blackmore & Jon Lord] shared the same taste in music. We loved Vanilla Fudge - they were our heroes. They used to play London's Speakeasy and all the hippies used to go there to hang out - Clapton, The Beatles - everybody went there to pose. According to legend, the talk of the town during that period was Jimi Hendrix, but that's not true. It was Vanilla Fudge. They played eight-minute songs, with dynamics. People said, "What the hell's going on here? How come it's not three minutes?"... The whole group was ahead of its time..."

Guitar World Interview, Feb. 1991.
Quote hi-jacked from the The Highway Star: The Deep Purple Official Site

Gli “eroi” dei Deep Purple! Mark Stein e Vince Martell stabilirono uno standard nell’approccio hard al binomio Hammond-chitarra elettrica, posti ora a pari dignità solista, binomio che fece la fortuna di Blackmore e Lord ma anche di Uriah Heep, Atomic Rooster e altri celebri complessi dell’epoca.
Ma non vi furono solo i Deep Purple: anche l'altra band cardine del movimento Hard britannico, tali Led Zeppelin, ebbero rapporti rilevanti con i Vanilla.

John Paul Jones of Led Zeppelin: Question: "John Paul, what was your favorite band that seemed a precursor to the Zep sound, i.e. Cream , Traffic, Jefferson AIrplane, et al?"
John Paul Jones: "Possibly Vanilla Fudge. I know that sounds odd, but they really were extremely powerful plus they had a great stage show. They had two great voices. And we became great friends -- we supported them on the first tour."

America Online Chat with John Paul Jones, Nov. 17, 1997.
Quote hi-jacked from the Led Zeppelin - The Master Compilation

Durante il 1969 i due gruppi furono spesso in tour assieme, dividendosi il cartellone nelle diverse serate; se non che, all’epoca, le star navigate erano i Vanilla e gli Zeppelin i novellini (Page a parte, s’intende…). Tra i due gruppi nacque subito un’eccellente alchimia e una notevole complicità artistica, nonché una sanissima competizione  che li portò ad inscenare spettacoli memorabili.
John Bonham e Carmine Appice divennero amici e fu il batterista italo-americano ad introdurre Bonzo al drumkit di marca Ludwig che diventerà elemento distintivo del sound possente del gruppo britannico. Le qualità “didattiche” di Appice verrano per altro alla luce molto presto, visto che già nel 1972 il suo metodo per batteria rock “The Realistic Rock Drum Method” era già un best seller nel suo genere ed ancora oggi è un classico.
Ma i Vanilla Fudge furono spalla di Page & Plant (e viceversa) anche al di fuori dal palcoscenico; come a Seattle, nel celebre episodio dello squalo, oggi una delle più citateleggende della mitologia rock. Stephen Davis riporta la versione di Richard Cole, road manager degli Zeppelin:

Per me, quel secondo cazzo di tour con i Led Zeppelin rappresentò il miglior periodo della mia vita. Fu proprio quello. Eravamo sulla cresta dell'onda e stavamo salendo sempre più in alto e nessuno ci controllava troppo da vicino. Così ci potevamo divertire un casino. E queste fighe arrivarono nel mio alloggio con l’intenzione di scopare, mentre Bonzo e io eravamo seriamente impegnati a pescare." Non è del tutto chiaro che cosa accadde dopo. Una ragazza, una graziosa giovane groupie dai capelli rossi fu spogliata e legata a un letto. Secondo la leggenda dell'“episodio dello squalo”, i Led Zeppelin procedettero quindi a infilarle pezzi di squalo nella vagina e nell’ano. Richard Cole sostiene che non avvenne in quel modo. “Bonzo non c'entra, sono stato io. Plant e Bonzo non sapevano nulla, erano dei bambini. Non erano pezzi qualunque dello squalo: venne infilato il naso, E già, lo squalo era vivo! Non era morto! Prendemmo un sacco di squali, perlomeno due dozzine, infilammo degli attaccapanni tra le branchie e li lasciammo appesi nell'armadio… Ma la vera storia dello squalo è che non era nemmeno uno squalo. Era un dentice rosso e guarda caso la gallinella aveva una cazzo di testa rossa e una fighetta color fuoco. E questa è la verità. Bonzo era nella stanza, ma fui io a farlo. Mark Stein, dei Vanilla Fudge, filmò il tutto. E a lei piacque immensamente. Fu una cosa tipo: "Ti piace scopare? Vediamo un po' quanto piace alla tua pesciolina rossa questo pesciolone rosso!' . Tutto li. Non dico che la ragazza non fosse ubriaca, non dico nemmeno che nessuno di noi non lo fosse. Ma non ci fu nulla di malizioso o pericoloso, per carità! Nessuno venne mai ferito. Può darsi che lei, per non aver obbedito agli ordini, sia stata ‘colpita' un paio di volte con uno squalo ma non venne ferita."

Frank Zappa, uno che alle groupies ci teneva, diede la sua versione dei fatti nell’ironica The Mud Shark dal live Fillmore East - June 1971 (Bizarre MS 2042, August 1971):

Let's say you were a travelling Rock and Roll band called The Vanilla Fudge . . . let's say one night you checked into the Edgewater Inn with an 8mm movie camera . . .
Mud Sh-sh-shark
Enough money to rent a pole, and just to make it more interesting . . .
Mud Sh-sh-shark
A succulent young lady!
With a taste for the bizarre . . .
Mud Sh-sh-shark
My mind drifts back . . . to a meeting, a chance meeting in the Chicago O'Hare Airport . . .
Mud Sh-sh-shark
Where the members of The Vanilla Fudge told Don Preston about a home movie they made at the Edgewater Inn . . . with a mud shark!
Mud Sh-sh-shark
And I'm gonna tell you, this dance, the Mud Shark, is sweeping the ocean!
Hey! Mud Sh-sh-shark
Ah, we're goin'! Go 'head! Ah, we're goin'! Now we're gonna go out, somehow! Come one!
Out
You go out
So far out
You do the Mud Shark, baby

La strana (ma non tanto, in realtà…) coppia Fudge-Zeppelin si ritrovò assieme anche al di fuori della sfera musicale - orgiastica. Nei primi anni ‘70 ebbe una certa risonanza un esperimento botanico condotto da Dorothy Retallack, del Colorado Woman's College di Denver, per testare le reazioni dei vegetali esposti a musica di vario genere.

There is a well-known study from the early 1970s, conducted by Dorothy Retallack at the Colorado Woman's College in Denver using the college's three Biotronic Control Chambers. Among other experiments, she also tried different types of music and studied their effects on plants. She tried acid rock music by Led Zeppelin, Vanilla Fudge, and Hendrix. It was played to one group of plants and semi-pop music (of the 1970's) to another. The "acid rock music" plants were sickly and small compared to the control group of "semi popular" music (now termed soft rock).


Mrs. Retallack’s next experiment was to create a tape of rock music by Jimi Hendrix, Vanilla Fudge, and Led Zeppelin. Again, the plants turned away from the music. Thinking maybe it was the percussion in the rock music that was causing the plants to lean away from the speakers, she performed an experiment playing a song that was performed on steel drums. The plants in this experiment leaned just slightly away from the speaker; however not as extremely as did the plants in the rock chambers. When she performed the experiment again, this time with the same song played by strings, the plants bent towards the speaker.


L’Hard Rock, sopratutto se acido, fa appassire i fiori? O di nuovo la mafia italoamericana ci ha messo lo zampino? Se credete ai risultati di Retallack occhio a non alzare troppo lo stereo durante Immigrant Song o Shotgun. E soprattutto allontanate le piantine che la vostra fidanzata annaffia con tanta cura.
Resta il fatto che oltre alle accuse di furto del sound dei Vagrants, collusione con la mafia, tentato stupro con animali vivi, ai Vanilla tocca pure la fama di musicisti ammazza vegetali; non male… Nello specifico,  riguardo al rapporto iniziale coi Vagrants, Tim Bogert rilasciò nel 1998 un’ intervista che lascia poco spazio ai dubbi…

"The Vagrants and The Rascals obviously were very big influences on us. l first saw the Young Rascals at a place called The Phone Booth in the city in 1966 and they knocked my head off They still had the costumes on. Mark and l went, and Mark had seen ‘em before. And they just blew me away knocked our heads right off. We were just a couple of kids in the audience thinking, ‘Oh, my gosh.' We used to watch the Vagrants all the time at The Action House in Oceanside on Lang lsland and they were just wonderful". “The Fudge’s style started with Mark and l coming home one night and sitting in front of my house in the car — just sittin'and chattin’at three-thirty in the morning - and the Supremes’ tune ‘You Keep Me Hangin' On,’ which had knocked us out, came on the radio. And we thought wouldn’t this be wonderful if we slowed it down in that style thats goin’around the area at the time. The Vagrants did that - they slowed things down and mode them dramatic. The Rascals were very dramatic. And Mark admired Felix’s keyboards very much. He was one of the first people who had ‘wall of sound' on the keyboard. So, all those different influences were combining. We were perfecting that style ourselves. And it came out real good. We could really lay on ‘dark'”.
Brano tratto dalle note di copertina a Renaissance (Soundazed - SC 6143)

Innovatori misconosciuti o scaltri mestieranti di notevole successo, i Vanilla Fudge restano un vero mistero della loro epoca. Un’avventura che offre più domande che risposte; domande che a volte travalicano le vicende ristrette della band.
Quando una cover smette di essere solo una copia di un modello originale ed acquista una propria autonomia ed identità artistica indipendente? Può un’opera “derivata” valere di più dell’originale? Cosa serve per pubblicare un album di cover dei Beatles? Sfrontatezza, incoscienza o reverenza? …o magari molta furbizia?
Forse nelle risposte a queste domande sta la vera natura dei Vanilla. Un gruppo che certo ha avuto idee ed intuizioni importanti, innovative, ma che non ha mai trovato al proprio interno l’autonomia necessaria per impiegarle al meglio. Novità non melodiche o armoniche ma tutte esteriori, potremmo dire timbriche, dalla batteria come elemento guida e leader di un complesso, all’amalgama perfetta di Hammond e Gibson, alla carica vocale melodrammatica, esagerata ed a volte parossistica.
La loro sfortuna è che molte di queste trovate appaiono oggi tremendamente datate, soprattutto se mai abbinate a canzoni originali, assolutamente non in grado di resistere all’erosione del tempo. Ed è stato il tempo più che la musica a relegarli nel limbo dei misconosciuti.
Riguardo alla questione delle cover: si, un’opera derivata può senza dubbio essere più rilevante di un originale. Il bello dell’Arte sta nel sapersi migliorare e magari anche riciclare. Forse non solo per la fisica vale la regola “nulla si crea nulla si distrugge”; e laddove le idee o le melodie veramente nuove scarseggiano, non è un disonore né un peccato appropriarsi di qualcosa altrui per rimodellarlo secondo un proprio personale punto di vista; certo, a patto di dichiararlo. Ci sono canzoni talmente potenti da potere inseminare decine di cover, ognuna differente. I Vanilla Fudge più di altri possedevano questa capacità di tramutare materiale esistente in qualcosa di diverso, rimodellandolo a loro piacimento, a volte estremizzandolo, a volte rendendolo realmente irriconoscibile. Quindi…furbizia o talento?
Alcune domande sono migliori delle risposte. E lasciandole aperte ci creiamo almeno l’illusione che ci sia qualcosa su cui ancora vale la pena scrivere.









I Led Zeppelin & William Burroughs

Alla scoperta del Rock



Il 20 gennaio 1975 i Led Zeppelin tennero a Chicago il primo concerto del mastodontico decimo tour degli Sates. Spettacoli di oltre 3 ore, un light-show all’avanguardia, raggi laser e nebbie di ghiaccio secco; una copertura mediatica per la prima volta veramente in grande stile fece del tour l’apice della popolarità del gruppo.
Al concerto del 3 febbraio, il primo a New York, tra il pubblico del Madison Square Garden vi era anche lo scrittore William Burroughs, accompagnato da un giornalista di Crawdaddy, rivista per cui l’autore del Pasto Nudo avrebbe scritto un articolo sul gruppo Inglese dal titolo “Rock Magic”. Burroughs era da poco rientrato in patria dopo anni trascorsi a Londra e viveva da meno di un anno in un appartamento del Lower East-Side. Alla disperata ricerca di qualche introito, finì per qualche tempo a scrivere di musica, ambito nel quale non aveva poi molta esperienza.
Prototipo di intellettuale della sotto-cultura beat, tra gli anni ’40 e ’60 aveva sperimentato tutto lo sperimentabile, dal’orrore della Seconda Guerra Mondiale alle antiche università europee, dai circoli gay e lesbo della New York dei primi anni ’30, all’ascesa del nazismo. Cittadino del mondo, viaggiò, oltre che per mezza Europa, per il Messico e il Sud America dove entrò in contatto con le droghe sciamaniche, la telepatia, il controllo delle menti e gli stati allucinogeni e di alterazione legati ai culti tribali; e dove finì per uccidere la sua compagna Joan Vollmer in una specie di gioco alla roulette russa. Era in stretti rapporti con altre figure della beat generation tra cui Jack Kerouac che lo omaggiò del personaggio di Old Bull Lee in On the Road. Pansessuale, dedito ed assuefatto ad ogni tipo di sostanza (naturale o sintetica) che potesse alterare i sensi e la percezione, tra la fine degli anni 50 e i primi anni 60 raggiunse la notorietà con alcuni libri divenuti capisaldi prima della cultura beat, poi di una certa fantascienza alternativa, del racconto fantasy, fino al moderno cyberpunk.

Burroughs era un geniale e cortese Lucifero umano, un mago moderno, un leggendario tossicodipendente e un artista la cui influenza si estendeva oltre la letteratura per raggiungere la musica, la pittura e il cinema.


Certo anche i Led Zeppelin del 1975 si portavano dietro un curriculum non indifferente: gruopies sodomizzate con squali vivi, inseguimenti stradali alla Bullit per le strade francesi, camere d’albergo martirizzate ed epiche scazzottate tanto nei backstage quanto nei locali di mezza Los Angeles. In verità tutta roba da novizi in confronto all’aura da vate proto psichedelico emanata da Burroughs.
Certo che lui, a metà anni ’70, non era un profondo conoscitore di musica contemporanea; tutto ciò che aveva imparato era quello che aveva visto e sperimentato in giro per il mondo una ventina di anni prima. Ciò non di meno la sua nomea mistica ed esoterica e il suo stato di figura patriarcale per il culto della beat-generation ben si associavano alla potenza oscura che i Led Zeppelin emanavano tanto su disco quanto in concerto.
Così, la sera del 3 aprile, seduto in tredicesima fila e senza tappi nelle orecchie, si lasciò investire dall’Armageddon sonoro di 3 ore di Page, Plant & Co. che sciorinarono tutto il loro repertorio migliore. Fu un buon concerto, la folla era comprensibilmente entusiasta e lo scrittore raccolse abbastanza materiale per il suo articolo, che riportiamo integralmente qui di seguito.


Rock Magic: Jimmy Page, Led Zeppelin, And a search for the elusive Stairway to Heaven
by William Burroughs, Crawdaddy Magazine, June 1975.

When I was first asked to write an article on the Led Zeppelin group, to be based on attending a concert and talking with Jimmy Page, I was not sure I could do it, not being sufficiently knowledgeable about music to attempt anything in the way of musical criticism or even evaluation. I decided simply to attend the concert and talk with Jimmy Page and let the article develop. If you consider any set of data without a preconceived viewpoint, then a viewpoint will emerge from the data.
My first impression was of the audience. As we streamed through one security line after another–a river of youth looking curiously like a single organism: one well-behaved clean-looking middle-class kid. The security guards seemed to be cool and well-trained, ushering gate-crashers out with a minimum of fuss. We were channeled smoothly into our seats in the thirteenth row. Over a relaxed dinner before the concert, a Crawdaddy companion had said he had a feeling that something bad could happen at this concert. I pointed out that it always can when you get that many people together–like bullfights where you buy a straw hat at the door to protect you from bottles and other missiles. I was displacing possible danger to a Mexican border town where the matador barely escaped with his life and several spectators were killed. It’s known as “clearing the path.”
So there we sat, I decline earplugs; I am used to loud drum and horn music from Morocco, and it always has, if skillfully performed, an exhilarating and energizing effect on me. As the performance got underway I experienced this musical exhilaration, which was all the more pleasant for being easily controlled, and I knew then that nothing bad was going to happen. This was a safe and friendly area–but at the same time highly charged. There was a palpable interchange of energy between the performers and the audience which was never frantic or jagged. The special effects were handled well and not overdone.
A few special effects are much better than too many. I can see the laser beams cutting dry ice smoke, which drew an appreciative cheer from the audience. Jimmy Page’s number with the broken guitar strings came across with a real impact, as did John Bonham’s drum solo and the lyrics delivered with unfailing vitality by Robert Plant. The performers were doing their best, and it was very good. The last number, “Stairway to Heaven”, where the audience lit matches and there was a scattering of sparklers here and there, found the audience well-behaved and joyous, creating the atmosphere of a high school Christmas play. All in all a good show; neither low nor insipid. Leaving the concert hall was like getting off a jet plane.
I summarized my impressions after the concert in a few notes to serve as a basis for my talk with Jimmy Page. “The essential ingredient for any successful rock group is energy–the ability to give out energy, to receive energy from the audience and to give it back to the audience. A rock concert is in fact a rite involving the evocation and transmutation of energy. Rock stars may be compared to priests, a theme that was treated in Peter Watkins’ film ‘Privilege’. In that film a rock star was manipulated by reactionary forces to set up a state religion; this scenario seems unlikely, I think a rock group singing political slogans would leave its audience at the door.
“The Led Zeppelin show depends heavily on volume, repetition and drums. It bears some resemblance to the trance music found in Morocco, which is magical in origin and purpose–that is, concerned with the evocation and control of spiritual forces. In Morocco, musicians are also magicians. Gnaoua music is used to drive out evil spirits. The music of Joujouka evokes the God Pan, Pan God of Panic, representing the real magical forces that sweep away the spurious. It is to be remembered that the origin of all the arts–music, painting and writing–is magical and evocative; and that magic is always used to obtain some definite result. In the Led Zeppelin concert, the result aimed at would seem to be the creation of energy in the performers and in the audience. For such magic to succeed, it must tap the sources of magical energy, and this can be dangerous.”


Burroughs probabilmente non conosceva nessuna delle canzoni in scaletta quella sera; di Stairway to Heaven sapeva appena il titolo. Era un osservatore super partes, vergine di esperienze Rock e privo di ogni interesse giornalistico nel denigrare od esaltare il gruppo. Non meraviglia che le sue considerazioni manchino di specificità ma possiedano quella lucidità nell’esporre concetti di base (spesso tralasciati in favore di un’esasperante disamina tecnico-musicale) che meglio di tante recensioni possono spiegare la musica dei Led Zeppelin (e di buona parte di tutti i grandi musicisti rock del dopoguerra) e il perché del loro successo.
Il primo elemento, il più immediato ma spesso trascurato: il pubblico.

My first impression was of the audience. As we streamed through one security line after another–a river of youth looking curiously like a single organism: one well-behaved clean-looking middle-class kid

E’ il pubblico lo specchio in cui ogni performer si riflette. Il pubblico dei Led Zeppelin – non lo scopriva Burroughs - era costituito in stragrande maggioranza di adolescenti maschi, bianchi, giovanissimi, che non aspiravano più a cambiare il mondo, a fermare la guerra o promulgare equità sociale. Volevano divertirsi, sbracare, ubriacarsi di musica e sopratutto scopare (cosa, quest’ultima, assai più complicata delle altre…). Un pubblico alquanto a-critico e totalmente assuefatto ai propri Eroi. I Led Zeppelin, forse per primi tra i grandi gruppi commerciali dell’epoca, rinunciarono totalmente ad avere la stampa dalla loro parte, soprattutto nei primi cinque anni della loro carriera: una scelta simile avrebbe affossato la maggior parte dei complessi in circolazione, compresi molti mostri sacri. Rinunciarono ai mass media, a concedere interviste, ad apparire in televisione o assieme ad altre band; rinunciarono a compiacere i critici, ad ottenere l’approvazione di intellettuali, colleghi o discografici;  tutto in favore del loro pubblico e della loro, suprema, autocrazia. Piaccia o no, sarebbero stati campioni incontrastati di OGNI televoto.
Il secondo elemento annotato da Burroughs è forse determinante per capire da cosa scaturisce la musica del gruppo: l’energia.

There was a palpable interchange of energy between the performers and the audience which was never frantic or jagged. The special effects were handled well and not overdone.

Niente ritmo, niente swing, assolutamente niente politica (ci mancherebbe, siamo nel 1975!) e, soprattutto, niente amore. I Led Zeppelin avevano bandito l’amore già dal loro terzo tour americano del 1970, in un periodo in cui ancora riecheggiavano le parole di alcuni vati della west-coast:

There‘s not enough love in the world nowadays. And the groups give them [listeners] love, the good ones. And I think they know it . . . and you gotta love the kids and the music both to play it right, so that it will excite them. There is definite love going on between the kick and the performers, and its both ways"
David Crosby in un’intervista citata da Richie Unterberger in: Eight Miles High: Folk-Rock's Flight from Haight-Ashbury to Woodstock 

Al contrario la musica degli Zeppelin dipende da altro:

The Led Zeppelin show depends heavily on volume, repetition and drums

Una frase che potrebbe essere la più sintetica ed efficace definizione di tutto il Metal, il punk, l’hardocre di lì a venire.
La musica dei Led Zeppelin non è musica per i piedi (come il vecchio Rock n’ Roll), ma nemmeno per il cuore (Joni Mitchell, Cat Stevens…), nè per il cervello (King Crimson, Van Der Graaf…). E’ musica di nervi, di pancia. Furono loro a trasformare il rapporto tra artista e pubblico in una (ottima) scopata senza sentimento: che lascia esausti, sudati ed appagati. Senza doversi scambiare i numeri di telefono.

 “...la cosa che emerge più chiaramente dai loro concerti è un sentimento di violente emozioni interiorizzate. Non c'è traccia della spontaneità o della gioia dei concerti degli Stones o dei Faces. Non c'è rilassamento. l Led Zeppelin ottengono grandi risultati quanto a controllo del tempo e delle dinamiche sonore. I loro concerti sono magnificamente ritmati ma non c'è un climax soddisfacente.  Musica corporea ma, dal momento che non riesce ad avere swing, non riesce a far ballare il proprio pubblico; punta alle tempie, non ai piedi, e il suo effetto finale è il completo stupore".
Mick Gold  citato da Stephen Davis  ne Il martello degli dei. La saga dei Led Zeppelin

E’ questo scambio di pura energia nervosa e sessuale il legame più saldo tra il gruppo e i suoi fans. Su questo legame, puramente fisico, istintivo, Page ha costruito una dubbia sovrastruttura fatta di rituali, incantesimi, riferimenti all’occulto e tutta una serie di simboli che solo loro, i fans, potevano decodificare. Il quarto, mitico, album uscì privo di titolo e di autore. Fu uno schiaffo al marketing e alla distribuzione ma anche un rischio molto calcolato. Jim Morrison aveva cominciato durante i  concerti dei Doors a relazionarsi con il suo pubblico in modo nuovo, aperto e imprevedibile; a comandarlo e dirigerlo come un generale pacifista e senza la divisa. Peccato che l’alcool e la bizzarria intrinseca del personaggio finissero spesso per rovinare tutto. Page e Plant non avevano bisogno di proclami per incitare il pubblico; i loro accordi, il loro volume, la cassa di Bonzo parlavano per loro. Ai primi accordi di Stairway to Heaven, immancabilmente tutti gli accendini di ogni stadio d’America si accendevano. Era un rito, una sorta di eucarestia rock.
Burroughs non macò di annotare la similitudine tra il rito religioso e il concerto Rock, in cui la star è l’officiante. E, da buon rito, il messale è immutabile e pubblico. Give the people what they want. Ma allora possiamo veramente dirci atei rispetto al culto del Rock? O siamo pronti ad accettare tutto ciò che esce dagli amplificatori come la parola rivelata? Abbiamo ancora la coscienza critica per poter giudicare con la nostra testa cosa è bello e cosa è brutto?
Di fronte agli accordi pastorali e i flauti della scala per il Paradiso, rinforzati dal silenzio totale e da mille fiammelle tremolanti è difficile essere obiettivi…

Dopo il concerto, Crawdaddy organizzò anche un incontro tra Burroughs e Jimmy Page. Il lungo dialogo tra i due fu dettagliatamente documentato e registrato. Più che un’intervista, sembra un lungo monologo dello scrittore su arte, viaggi, antropologia e musica, interrotto qua e là dai mugugni di approvazione e meraviglia del musicista: su di un palcoscenico di fronte a 20.000 ragazzini urlanti Page poteva fare lo sbruffone, ma a tu per tu con un vero mostro sacro gli mancarono parole ed argomenti.
In verità, leggendola oggi, quell’intervista appare più una pagina scartata dagli autori di Voyager o Mistero: controllo della mente, mostro di Loch Ness, armi militari segrete…. ma nel 1975 l’impressione doveva essere ben differente.
Per i curiosi riportiamo il sunto che lo stesso Burroughs fece dell’incontro. L’integrale, sbobinato, dell’intervista è disponibile all’indirizzo: http://www.arthurmag.com/2007/12/05/willima-burroughs-onled-zeppelin/


I felt that these considerations could form the basis of my talk with Jimmy Page, which I hoped would not take the form of an interview. There is something just basically WRONG about the whole interview format. Someone sticks a mike in your face and says, “Mr. Page, would you care to talk about your interest in occult practices? Would you describe yourself as a believer in this sort of thing?” Even an intelligent mike-in-the-face question tends to evoke a guarded mike-in-the-face answer. As soon as Jimmy Page walked into my loft downtown, I saw that it wasn’t going to be that way. We started talking over a cup of tea and found we have friends in common: the real estate agent who negotiated Jimmy Page’s purchase of the Aleister Crowley house on Loch Ness; John Michel, the flying saucer and pyramid expert; Donald Camel, who worked on ‘Performance’; Kenneth Anger, and the Jaggers, Mick and Chris. The subject of magic came up in connection with Aleister Crowley and Kenneth Anger’s film ‘Lucifer Rising’, for which Jimmy Page did the sound track.
Since the word “magic” tends to cause confused thinking, I would like to say exactly what I mean by “magic” and the magical interpretation of so-called reality. The underlying assumption of magic is the assertion of ‘will’ as the primary moving force in this universe–the deep conviction that nothing happens unless somebody or some being wills it to happen. To me this has always seemed self-evident. A chair does not move unless someone moves it. Neither does your physical body, which is composed of much the same materials, move unless you will it to move. Walking across the room is a magical operation. From the viewpoint of magic, no death, no illness, no misfortune, accident, war or riot is accidental. There are no accidents in the world of magic. And will is another word for animate energy. Rock stars are juggling fissionable material that could blow up at any time… “The soccer scores are coming in from the Capital…one must pretend an interest,” drawled the dandified Commandante, safe in the pages of my book; and as another rock star said to me, “YOU sit on your ass writing–I could be torn to pieces by my fans, like Orpheus.”
I found Jimmy Page equally aware of the risks involved in handling the fissionable material of the mass unconcious. I took on a valence I learned years ago from two ‘Life-Time’ reporters–one keeps telling you these horrific stories: “Now old Burns was dragged out of the truck and skinned alive by the mob, and when we got there with the cameras the bloody thing was still squirming there like a worm…” while the other half of the team is snapping pictures CLICK CLICK CLICK to record your reactions–so over dinner at Mexican Gardens I told Jimmy the story of the big soccer riot in Lima, Peru in 1964.
We are ushered into the arena as VIPs, in the style made famous by ‘Triumph of the Will’. Martial music–long vistas–the statuesque police with their dogs on leads–the crowd surging in a sultry menacing electricity palpable in the air–grey clouds over Lima–people glance up uneasily… the last time it rained in Lima was the year of the great earthquake, when whole towns were swallowed by landslides. A cop is beating and kicking someone as he shoves him back towards the exit. Oh lucky man. The dogs growl ominously. The game is tense. Tied until the end of the last quarter, and then the stunning decision: a goal that would have won the game for Peru is disqualified by the Uruguayan referee. A howl of rage from the crowd, and then a huge black known as La Bomba, who has started three previous soccer riots and already has twenty-three notches on his bomb, vaults down into the arena. A wave of fans follows The Bomb–the Uruguayan referee scrambles off with the agility of a rat or an evil spirit–the police release tear gas and unleash their snarling dogs, hysterical with fear and rage and maddened by the tear gas. And then a sound like falling mountains, as a few drops of rain begin to fall.
“Yes, I’ve thought about that. We all have. The important thing is maintain a balance. The kids come to get far out with the music. It’s our job to see they have a good time and no trouble.”
And remember the rock group called Storm? Playing a dance hall in Switzerland…fire…exits locked…thirty-seven people dead including all the performers. Now any performer who has never thought about fire and panic just doesn’t think. The best way to keep something bad from happening is to see it ahead of time, and you can’t see it if you refuse to face the possibility. The bad vibes in that dance hall must have been really heavy. If the performers had been sensitive and alert, they would have checked to be sure the exits were unlocked.
Previously, over two fingers of whiskey in my Franklin Street digs, I had told Page about Major Bruce MacMannaway, a healer and psychic who lives in Scotland. The Major discovered his healing abilities in World War II when his regiment was cut off without medical supplies and the Major started laying on hands…”Well Major, I think it’s a load of bollocks but I’ll try anything.” And it turns out the Major is a walking hypo. His psychic abilities were so highly regarded by the Admiralty that he was called in to locate sunken submarines, and he never once missed.
I attended a group meditation seminar with the Major. It turned out to be the Indian rope trick. Before the session the Major told us something of the potential power in group meditation. He had seen it lift a six-hundred-pound church organ five feet in the air. I had no reason to doubt this, since he was obviously incapable of falsification. In the session, after some preliminary excercises, the Major asked us to see a column of light in the center of the room and then took us up through the light to a plateau where we met nice friendly people: the stairway to heaven in fact. I mean we were really THERE.
I turned to Jimmy Page: “Of course we are dealing here with meditation– the deliberate induction of a trance state in a few people under the hands of an old master. This would seem on the surface to have a little in common with a rock concert, but the underlying force is the same: human energy and its potential concentration.” I pointed out that the moment when the stairway to heaven becomes something actually POSSIBLE for the audience, would also be the moment of greatest danger. Jimmy expressed himself as well aware of the power in mass concentration, aware of the dangers involved, and of the skill and balance needed to avoid them…rather like driving a load of nitroglycerine.
“There IS a responsibility to the audience,” he said. “We don’t want anything bad to happen to these kids–we don’t want to release anything we can’t handle.” We talked about magic and Aleister Crowley. Jimmy said that Crowley has been maligned as a black magician, whereas magic is neither white nor black, good nor bad–it is simply alive with what it is: the real thing, what people really feel and want and are. I pointed out that this “either/or” straitjacket had been imposed by Christianity when all magic became black magic; that scientists took over from the Church, and Western man has been stifled in a non-magical universe known as “the way things are.” Rock music can be seen as one attempt to break out of this dead soulless universe and reassert the universe of magic.
Jimmy told me that Aleister Crowley’s house has very good vibes for anyone who is relaxed and receptive. At one time the house had also been the scene of a vast chicken swindle indirectly involving George Sanders, the movie actor, who was able to clear himself of any criminal charges, Sanders committed suicide in Barcelona, and we both remembered his farewell note to the world: “I leave you to this sweet cesspool.”
I told Jimmy he was lucky too have that house with a monster in the front yard. What about the Loch Ness monster? Jimmy Page thinks it exists. I wondered if it could find enough to eat, and thought this unlikely–it’s not the improbability but the upkeep on monsters that worries me. Did Aleister Crowley have opinions on the subject? He apparently had not expressed himself.
We talked about trance music. He had heard the Brian Jones record from recordings made at Joujouka. We discussed the possibility of synthesizing rock music with some of the older forms of trance music that have been developed over centuries to produce powerful, sometimes hypnotic effects on the audience. Such a synthesis would enable the older forms to escape from the mould of folk lore and provide new techniques to rock groups.
We talked about the special effects used in the concert. “Sure,” he said, “lights, lasers, dry ice are fine–but you have to keep some balance. The show must carry itself and not rely too heavily on special effects, however spectacular,” I brought up the subject of infra-sound, that is, sound pitched below 16 Hertz, the level of human hearing; as ultra-sound is above the level. Professer Gavreau of France developed infra-sound as a military weapon. A powerful infra-sound installation can, he claims, kill everyone in a five-mile radius, knock down walls and break windows. Infra-sound kills by setting up vibrations within the body so that, as Gavreau puts it, “You can feel all the organs in your body rubbing together.” The plans for this device can be obtained from the French Patent Office, and infra-sound generators constructed from inexpensive materials. Needless to say, one is not concerned with military applications however unlimited, but with more interesting and useful possibilities, reaching much further that five miles.
Infra-sound sets up vibrations in the body and nervous system. Need these vibrations necessarily be harmful or unpleasant? All music played at any volume sets up vibrations in the body and nervous system of the listener. That’s why people listen to it. Caruso as you wil remember could break a champagne glass across the room. Especially interesting is the possibility of rhythmic pulses of infra-sound; that is, MUSIC IN INFRA-SOUND. You can’t hear it, but you can feel it.
Jimmy was interested, and I gave him a copy of a newspaper article on infra-sound. It seems that the most deadly range is around 7 Hertz, and when this is turned on even at a low volume, anyone within range is affected. They feel anxious, ill, depressed, and finally exclaim with one voice, “I feel TERRIBLE!”…last thing you want at a rock concert. However, around the borders of infra-sound perhaps a safe range can be found. Buddhist mantras act by setting up vibrations in the body. Could this be done in a much more powerful yet safe manner by the use of infra-sound rhythms which could of course could be combined with audible music? Perhaps infra-sound could add a new dimension to rock music.
Could something be developed comparable to the sonar communication of dolphins, conveying an immediate sonar experience that requires no symbolic translation? I mentioned to Jimmy that I had talked with Dr. Truby, who worked with John Lilly recording dolphins. Dr. Truby is a specialist in inter-species communication, working on a grant from the government–so that when all our kids are born Venusians we will understand then when they start to talk. I suggested to him that ALL communication, as we know it, is actually inter-species communication, and that it is kept that way by the nature of verbal and symbolic communication, which must be indirect.
Do dolphins have a language? What is a language? I define a language as a communication system in which data are represented by verbal or written symbols–symbols that ARE NOT THE OBJECTS to which they refer. The word “chair” is not the object itself, the chair. So any such system of communication is always second-hand and symbolic, whereas we CAN conceive of a form of communication that would be immediate and direct, undercutting the need for symbols. And music certainly comes closer to such direct communication than language.
Could musical communication be rendered more precise with infra-sound, thus bringing the whole of music a second radical step forward? The first step was made when music came out of the dance halls, roadhouses, and night clubs, into Madison Square Garden and Shea Stadium. Rock music appeals to a mass audience, instead of being the province of a relatively few aficionados. Can rock music make another step forward, or is it a self-limiting form, confirmed by the demands of a mass audience? How much that is radically new can a mass audience safely absorb? We came back to the question of balance. How much new material will be accepted by a mass audience? Can rock music go forward without leaving its fans behind?
We talked about Wilhelm Reich’s orgone accumulator, and I showed him plans for making this device, which were passed along to me by Reich’s daughter. Basically the device is very simple, consisting of iron or steel wool on the inside and organic material on the outside. I think this was highly important discovery. Recently a scientist with the National Aeronautics and Space Administration announced an “electrical cell” theory of cancer that is almost identical to Reich’s cancer theory put forth 25 years ago. He does not acknowledge any indebtedness to Reich. I showed Jimmy the orgone box I have here, and we agreed that orgone accumulators in pyramid form and/or using magnetized iron could be much more powerful.
We talked about the film ‘Performance’ and the use of cut-up techniques in this film. Now the cut-up method was applied to writing by Brion Gysin in 1959; he said that writing was fifty years behind painting, and applied the montage method to writing. Actually, montage is much closer to the facts of perception thatn representational painting. If for example you walked through Times Square, and then put on canvas what you had seen, the result would be a montage…half a person cut in two by a car, reflections from shop windows, fragments of street signs. Antony Balch and I collaborated on a film called ‘Cut-Ups’, in which the film was cut into segments and rearranged at random. Nicholas Roeg and Donald Camel saw a screening of the film not long before they made ‘Performance’.
Musical cut-ups have been used by Earl Browne and other modern composers. What distinguishes a cut-up from, say, an edited medley, is that the cut-up is at some point random. For example, if you made a medley by taking thirty seconds from a number of scores and assembling these arbitrary units–that would be a cut-up. Cut-ups often result in more succinct meanings, rather than nonsense. Here for example is a phrase taken from a cut-up of this article: “I can see the laser gate crashers with an appreciative cheer from the 13th row.” (Actually a gate crasher was extricated by security from the row in front of us; an incident I had forgoten until I saw this cut-up.)
Over dinner at the Mexican Gardens, I was suprised to hear that Jimmy Page had never heard of Petrillo, who started the first musicians’ union and perhaps did more than any other one man to improve the financial positioin of musicians by protecting copyrights. One wonders whether rock music could have gotten off the ground without Petrillo and the Union, which put musicians in the big money bracket, thereby attracting managers, publicity, and the mass audience.
Music, like all the arts, is magical and ceremonial in origin. Can rock music return to these ceremonial roots and take its fans with it? Can rock music use older forms like Moroccan trance music? There is at present a wide interest among young people in the occult and all means of expanding consciousness. Can rock music appeal directly to this interest? In short, there are a number of disparate tendencies waiting to be synthesized. Can rock music serve as a vehicle for this synthesis?
The broken guitar strings, John Bonham’s drum solo, vitality by Robert Plant–when you get that many people to get it, very good. Buy a straw hat at the door–the audience all light matches. Cool well-trained laser beams channelled the audience smoothly. A scattering of sparklers. Danger to a Mexican border town. We start talking over a cup of the mass unconscious–cut to a soccer riot photo in Lima. The Uruguayan referee as another rock star. Sound like falling mountains of the risks involved. It’s our job to see trouble and plateau the center of the room–remember the stairway to Switzerland? Fire really there. You can’t see it if you refuse–underlying force the same. I mean we were playing a dance hall in heaven at the moment when the stairway actually possible for the audience was unlocked.











Monografia: The Misunderstood

Viaggio nel Sole. E ritorno



I Misunderstood, loro malgrado, ebbero già nel loro nome il proprio destino.
La loro è una delle più celebri tra le nascoste avventure rock degli anni ’60; è la storia di un fallimento. Un meraviglioso, grandioso fallimento.
I protagonisti sono Glenn “Ross” Campbell, selvaggio e tenebroso chitarrista; Rick Brown, il cantante fuggitivo; Steve Whiting, l’unico bassista bottleneck della costa occidentale e John Ravencroft, talent-scout inglese vagabondo della California del Sud.

Mark 0: The Blue Notes

La Riverside dei primi anni ’60 è una pigra città universitaria sulla costa pacifica, distante circa 80 miglia e almeno cinque anni dalla capitale culturale del momento: Los Angeles.
La scena musicale di provincia è ferma alle bollicine di gazzosa del surf strumentale, un genere che aveva raggiunto l’apice tra il 1960 e l 1961 e che stava inesorabilmente segnando il passo. Uno sparuto gruppo di teenagers,  noti come Blue Notes nelle serate danzanti del college, sguazzano timidamente nel surf dalla metà del 1963: sono Greg Treadway, chitarrista e tastierista, Rick Moe batterista e George Phelps, leader e solista. Dopo un anno passato a suonare Ventures, Dick Dale e Beach Boys, ai tre si aggiungono Rick Brown un giovane e promettente cantante e il bassista Steve Whiting. Riconvertiti a quintetto, cambiano anche il nome ribattezzandosi Misunderstood.

Mark 1: First Sessions

E’ il 1965 e mentre a L.A. si prepara ad esplodere la bomba Byrds, un ciclone che lascerà sbigottita mezza California, dall’Inghilterra le ultime novità dell’underground sono gli Animals del possente vocalist Eric Burdon e gli Yardbirds, gruppo di blues rigoroso organizzato attorno al giovane prodigio Eric Clapton. I Misunderstood tentano di allinearsi alla corrente dominante e riescono ad incidere un acetato con 6 tracce, per la maggior parte cover di brani inglesi. Il gruppo sta imparando a conoscersi, Brown cerca di tirare fuori quanto più phatos possibile a volte scadendo nel languido, Phelps è un chitarrista educato ma piuttosto retrò e con scarsa fantasia. Da queste prime sessions risultano, tra le altre, una I need your Love precisa ma piatta, una I Cried my Eyes Out interessante, arrangiata sul torpore di un Farfisa vellutato e riscattata da un’appassionata interpretazione del cantante: le primissime prove dei Doors a casa Manzarek non dovevano essere poi tanto diverse.
Il clima generale è però piuttosto dimesso, privo di aggressività e spontaneità, l’innegabile talento di Brown non basta a tenere assieme brani nati già vecchi. Inadatto al ruolo di chitarrista eroico (in stile Clapton o Bloomfield) Phelps lascia i compagni a metà del 1965 e il gruppo inizia le audizioni per trovare un sostituto.
Oltre ai Blue Notes, l’altro gruppo dominante ai balli dei college di Riverside sono i Goldtone, un combo surf di quindicenni che aveva ottenuto un certo successo grazie alla trasmissione televisiva “Bowling For Dollars” per cui aveva inciso il singolo Gutterball (A&R Records 714), uno sfrenato strumentale dominato dalla rumorosa e indisciplinata chitarra di Glenn “Ross” Campbell.
Glenn è un teenager alto e magrissimo, moro di capelli e torvo di sguardo. Autodidatta, amante della slide per le ampie possibilità sonore, rumoristiche ed elettriche dello strumento, tra il 1963 e il 1965 non si taglia mai i capelli e si specializza in uno stile scorbutico, selvaggio, assolutamente non lineare né tecnicamente pulito, eppure di grande impatto. Solitamente scartato ai provini delle rock band per il solo fatto di presentarsi col bottleneck al dito, si presenta anche alle audizioni dei Misunderstood in cerca del nuovo solista. E’ amore a prima vista.
Con questo nuovo ombroso chitarrista a bordo, il gruppo si lancia in studio per incidere due classici blues: You Don't Have to Go' di Jimmy Reed e Who's Been Talkin' di Howlin' Wolf. Campbell restituisce al timido gruppo dei primi acetati un volume ed un impatto sonoro tutti nuovi, mentre alle sue spalle Winthing ha sviluppato un’originale tecnica di basso bottleneck e Brown è un cantante sempre più sfrontato e sicuro. Who's Been Talkin' suona incisiva nel call and response tra armonica e chitarra che finalmente sostiene il brano in tutta la sua durata con un riff pulito e ben suonato che si concede anche una buona dinamica nel soffuso passaggio centrale.  You Don't Have to Go' sfodera per la prima volta una languida slide à la Muddy Waters gestita con maestria appena timida da Campbell in bel contrasto con i potenti acuti del baritono di Brown: un bel pezzo in puro stile Chicago.


Mark 2: The American Yardbirds

Ma non basta l’inserimento del pur ottimo Campbell a fare decollare il gruppo: l’incontro determinante per i ragazzi di Riverside sarà quello con un dick-jokey inglese disperso nella California meridionale e di base a San Bernardino,  si fa chiamare John Ravencroft e gode di una buona reputazione di talent-scout al passo coi tempi nonché di un ampio credito derivatogli dall’essere in diretto contatto con la scena britannica.
Amico di alcuni gruppi di Riverside come i North Side e i Mystics, John assiste ai concerti dei Misunderstood tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966, rimanendone folgorato:

I saw this group taking the stage and starting to tune up and they looked very weird and freaky so I decided to hang around and to see it they were any good. They called themselves, it transpired, The Misunderstood…  Well it was like one of your St. Paul on the road to Damascus experiences, it was stunning. They cut both The North Side Moss and The Mystics to pieces, they really did! Glenn Campbell looked incredibly thin and ill, with exceptionally long hair for those days and he was hunched over his steel guitar playing the most unbelievable stuff I'd ever heard... and Steve Whiting was doing things like playing bass with a bottleneck; they were quite fantastic.

John Ravencroft, dale note di copertina a Before The Dream Faded

All’inizio del 1966 Ravencroft porta il gruppo ai Gold Star Studio di Hollywood e supervisiona, in qualità di produttore, alla prima incisione professionale dei Misunderstood. Da oltremanica intanto, arriva l’eco dell’ultimo portento del rock inglese: è Jeff Beck, chitarrista d’avanguardia che ha sostituito Clapton negli Yardbirds proiettando il gruppo di in una nuova dimensione elettrica e psichica. E’ a lui che la scena underground americana guarda come una guida; ma se molti altri gruppi si accontentano di imitare l’istrionismo e i trucchi tecnici di Beck, per Campbell questo è solo un punto di partenza, un incoraggiamento in più per intraprendere una sua personale esplorazione sonora che incorpora nel linguaggio rock musica etnica, droni orientali, arpeggi spagnoli e melodie cicliche africane ascoltate sui vecchi vinili della Library of Congress. Le sei tracce incise ai Golden Star Studio, di fatto quasi un intero LP, sono 20 minuti di musica che nei momenti migliori si spingono già oltre l’avanguardia. Su tutto I'm Not Talkin', dove sul basso profondo e pulsante di Whiting, Campbell inscena un delirio di risonanze ed effetti Larsen ciclici, musica modale in stile raga, fluttuazioni di volume e impennate slide che vanno ben oltre il pur perfetto archetipo psichedelico di Shapes of Things o Over Under Sideways Down. Gli altri brani riconsegnano un robusto rock-blues nello stile che in quello stesso momento andava affinando a Chicago Paul Butterfield con la sua affiatatissima Blues Band, vedi l’indiavolata Shake Your Moneymaker o lo slow Blues With a Feeling, tra le altre. E se il gruppo ha finalmente trovato un equilibrio e una alchimia notevole, la sezione ritmica non è mai banale, il cantante è esuberante e deciso e quella di Campbell è la prima e più imponente slide elettrefficata dai tempi di Elmore James.
Come se non bastasse, sulla falsariga dei deliri di I'm Not Talkin', i Misunderstood andavano perfezionando un live-act sconvolgente che si chiudeva coi musicisti che lasciavano il palco abbandonando gli strumenti mentre ancora producevano liberi a imprevedibili feedback, tanto da lasciare sbigottiti il mite pubblico del piccoli club di riverside. Campbell, magrissimo, emaciato, con lunghi capelli arruffati emanava un carisma malato e morboso unico, come unico era anche il pioneristico light-show di sua ideazione collegando tra l’altro fanali di vecchie moto e automobili agli amplificatori, in modo che le luci rispondessero selettivamente a particolari frequenze
Eppure, a parte qualche escursione al Pandora’s Box di Los Angeles, il gruppo faticava a trovare un suo habitat e a farsi conoscere ed apprezzare dal grande pubblico. L’ambiente della California del sud era ormai troppo ristretto per il quintetto. La scelta più logica sembrava essere il trasferirsi a L.A. che all’inizio del 1966 non era ancora stata soppiantata da San Francisco come capitale della scena musicale dell’ovest: nella Città degli Angeli risiedevano i Byrds, massimi alfieri del neonato Folk-Rock e stavano muovendo i primi passi band d’avanguardia come i Love del fantastico chitarrista-autore Arthur Lee e la Magic Band, lo strambo combo di blues agli ordini di Don Van Vliet, una sorta di Howlin Wolf bianco.
Ma qui Ravencroft, fin troppo inserito nel ruolo di produttore-mentore, decise al posto del gruppo e mise i Misunderstood su un aereo per Londra, assicurando ai cinque ragazzi appena ventenni un avvenire di successi nella capitale della cultura pop. Era il giugno 1966.

Mark 3: Prophet of New Order

A posteriori il trasferimento a Londra fu l’inizio della fine per un gruppo che, artisticamente, pareva destinato al Successo.
Rick Brown non potè partire con i compagni a causa di problemi pendenti con la leva; i restanti quattro componenti, che avevano racimolato i soldi per i biglietti aerei vincendo una serie di Battle of the Band assai pilotate, sbarcarono a Londra, senza visti né documenti, in una piovosa giornata di mezz’estate, caricandosi a spalla tutto il loro equipaggiamento. Si stiparono in un taxi diretti a casa Ravencroft dove il produttore aveva garantito loro ospitalità. Dovettero aspettare due giorni, dormendo sul marciapiede, che qualcuno aprisse loro la porta. I genitori di John nulla sapevano di quel gruppo di esausti ragazzi californiani ed ebbero non pochi dubbi (e problemi) ad offrirgli una prima accoglienza. Quando, dopo circa due settimane, Rick Brown potè riunirsi al gruppo, trovò i suoi amici accampati in un gelido seminterrato a vivere d’espedienti. Il primo a mollare fu Treadway, costretto anzi a rientrare in patria per obblighi militari. Nel frattempo la vita semi-clandestina e la sperimentazione dei paradisi artificiali del sottobosco londinese stava minando gravemente la salute fisica e morale di Campbell e Rick Moe.
Fu solo attraverso il fratello di John Ravencroft, Alan, che il gruppo entrò in contatto con la Fontana Records, sussidiaria della Philips, etichetta che aveva sotto contratto l’eccellente soul bianco dello Spencer Davis Group, il rock scatenato dei Pretty Things e i campioni del proto Punk, i Troggs. Treadway fu sostituito da Tony Hill, chitarrista preparatissimo e originale che strinse un solido rapporto artistico con Campbell.
Con la produzione di Dick Leahy il gruppo incise i sei pezzi che ancora oggi possono essere considerati il punto d’inserzione di tutta la psichedelica britannica (e non solo…). Prima dei Pink Floyd, dei Deviants, dei Soft Machine, i Misunderstood decollarono per l’esplorazione di un “altrove” musicale senza precedenti. La sezione ritmica ormai solidissima, la voce da rocker consumato di Brown, gli inediti intrecci chitarristici di Campbell e Hill alzarono di parecchio l’asticella che Jeff Beck (e Jimmy Page) aveva posto con brani come Smokestack Lightin’ o Stroll On.
Children of the Sun, innestata su un riff spagnoleggiante, avanza a ritmo di marcia, sferzata dal furore chitarristico di Campbell che suona con tutta la rabbia di colui che sente pressante il bisogno di riscatto e rivincita nei confronti di un mondo che per troppo tempo lo ha ignorato, mentre Rick Brown declama con una verve quasi mistica versi di invasata iniziazione:

Let go lovely children
Close your eyes and drift away
When you wake again tomorrow
You'll be born again to stay
Thus the word of love has spoken
You've joined the children of the Sun
You've joined the children of the Sun
Relax yourselves and drift
Into the regions of your mind
As understanding glows before you
All that’s left of you is kind
Thus the word of love has spoken

Ancora meglio è My Mind, il raga-rock definitivo, aperto dal riff cardiaco e rotondo di basso che lascia spazio a chitarre orientali e ad accordi martirizzati e metallici di slide: una foga, un volume, una tendenza hard sconosciuta alla dolce psichedelica inglese cresciuta all’ombra di Norvegian Wood e Tomorrow Never Knows. In quell’estate del 1966 solo i 13th Floor Elevator di Reverberation potevano tenere testa ad un brano simile.
La riscrittura che il gruppo fa di Who Do You Love, vecchia hit di Bo Diddley, precede addirittura di un paio d’anni le fantastiche versioni di Doors e, soprattutto, dei Quicksilver. Un pezzo dilatato e spinto verso l’atmosfera dalla propulsione delle chitarre, ora placidamente fluttuanti, ora cariche di rabbia hard-rock in un’alternanza spiazzante. I Unseen recupera lo stesso brano di Pete Seeger di che i Byrds stavano incidendo per Fifth Dimension: i Misunderstood trasformano l’elegia malinconica e fatalista in un impeto di vendetta e risentimento declamato con scenica arte da Rick Brown. Find a Hidden Door è un boogie mistico impreziosito da armonie vocali e dal consueto nodo gordiano di chitarre inestricabili. Poi I Can Take You To The Sun, canzone che lo stesso Ravencroft riteneva (e ritiene tutt’ora…) una delle migliori canzoni di sempre, uno space rock in galassie prive d’atmosfera che sfocia in una lunga coda acustica di Tony Hill, uno psycho-sirtaki su cui il cantante sussurra una poesia di dolce abbandono:

Well I speak of love but you do not see
cause words are words and they mean nothing more
with half a mind you laugh at me
cause I speak of colours you’ve never seen before
You’ve existed in a lie, that will some day show
I can take you to the Sun, to the Sun,
but you don’t want to go

In tutto circa 15 minuti di musica, ben registrata, ottimamente prodotta. La Fontana distribuì come primo singolo I Can Take You To The Sun/Who Do You Love? (Fontana TF 777); intanto il gruppo cercava di farsi largo nel folto ambiente musicale londinese: se le opportunità erano molteplici, la concorrenza era spietata e ogni band in città poteva vantare un management migliore dei cinque spiantati di Riverside. Nonostante tutto i Misunderstood riuscirono a suonare al mitico Marquee dove riproposero il loro l’avveniristico live-act con liberi feedback ciclici di strumenti solitari sul palco. Tra il pubblico, i membri dello sconosciuto gruppo blues Pink Floyd prendevano appunti…  John Ravencroft cercò di blandire la stampa locale con estese recensioni, miste tra il romantico e l’iniziatico:

Now there is considerable talk in London about the Misunderstood. One influential critic has said that their music had affected him as had no other music, It had expanded his mind and increased his comprehension of the essential goodness in mankind. Other critics speak of the "beauty" and "love" they find in the music. This is not another of the myriad group hitching their narrow hopes to the “psychedelic" label. They believe, they see, they comprehend and their goal is not wealth, tame and the other trappings of our tired, sad, blind and staggering civilization but It is nothing less than that of bringing the whole world to this state of awareness through their music. When they left California they were just people, musicians and the best friends l've ever had. Now they have become prophets of the new order, harbingers of a brilliant. soft and alive dawn for mankind. They stand in the midst of a wilderness that is filled with man’s mistakes and stupidly and they stand with Donovan, the Beatles and those others who, through investigation and mystical experience have had their eyes closed to the pettiness, blinded to thee greed, blocked from the violence and opened to a dancing, shimmering, whispering, sliding, beckoning light.

John Ravencroft – Articolo del 1966 tratto dalle note di copertina a Before the Dream Faded

Ma poco dopo le sessions per la Fontana, Rick Brown fu definitivamente costretto a ritornare in patria per risolvere le sue pendenze con l’esercito, mentre Rick, Glenn e Steve rimasero in Europa cercando di gettare le basi per un piccolo tour promozionale.
Questa nuova separazione fu la fine del gruppo. Rick non riuscì più a ritornare in Gran Bretagna e i tre ragazzi americani passarono giorni interi sul battello tra Dover e Calais, coi visti scaduti, senza potere mettere piede a terra. Quando furono rimpatriati, i Misunderstood non esistevano più. Il caso volle che, subito dopo il loro scioglimento, la scena underground di Londra, letteralmente,  esplose: John Hopkins e Joe Boyd aprirono l’UFO Club alla fine del 1966 e per tutto l’anno seguente ospitarono come band fisse Pink Floyd e Soft Machine; contemporaneamente i Social Deviants, la comune anarco-hippie di Mick Farren, si riversò nel seminale gruppo di rock alternativo dei Deviants, poi evolutisi nei Pink Fairies con l’ingresso dell’agitatore-sovversivo-batterista Twink, fresco del successo di S.F. Sorrow coi Pretty Things, proprio su label Fontana. Fu una questione di tempo. Qualche mese in più e i Misunderstood sarebbero probabilmente stati headliner al “The 14 Hour Technicolour Dream”, l’evento che fu zenit di tutto il movimento psichedelico britannico.

Mark 4: Aftermath

Tony Hill si aggregò al violinista della Third Ear Band Simon House per dare vita ad un oscurissimo gruppo di Hard-rock d’appendice, gli High Tide.
Steve Whiting e Rick Moe ritornarono e Riverside, abbandonando ogni velleità artistica. Per pagarsi il viaggio di ritorno i ragazzi furono costretti a vendere i propri strumenti. Glenn Campbell invece volle ritentare l’avventura in Gran Bretagna: mise in piedi un gruppo piuttosto male assortito di musicisti e tornò in sala d’incisione ancora con la Fontana. Il risultato furono un paio di singoli a nome “Misunderstood feat. Glenn “Fernando” Campbell”:  rock-blues competente e discretamente prodotto ma nessuna rimanenza del furore e della sperimentazione di un tempo. Le incisioni del 1969 saranno poi edite integralmente molti anni dopo dalla Get Back Records a titolo Golden Glass.
Sulle ceneri di quest’ultima, apocrifa, formazione dei Misunderstood, Campbell, assieme al cantante Ray Owen e al sassofonista Chris Mercer formò poi i Juicy Lucy, che, accasatisi con la Vertigo, pubblicarono qualche album all’inizio degli anni ’70 seguendo il flusso del pacifico Prog-Blues di Savoy Brown, Groundhogs e Climax Blues Band.
Dal canto suo John Ravencroft non esisteva nemmeno più; smessi i panni del talent-scout vagabondo, aveva cambiato il suo nome in John Peel: sarebbe diventato il disk-Jokey “undergound” più influente di sempre. Scontò la pena di avere contribuito ad affossare una delle più luminose promesse della musica pop facendo conoscere in Inghilterra (e nel mondo) gi Amon Duul, i Social Deviants, i Faust, Marc Bolan e tanti altri artisti, dando voce e riconoscimento ad un embrionale forma di “Rock Alternativo”.
Nel frattempo la vita di Rick Brown si stava trasformando in un romanzo d’avventura degno di Heinrich Harrer. Intollerante alla vita militare, strafatto di LSD, disertò l’esercito e si rifugiò a San Francisco in Haight-Ashbury, non più paese delle Meraviglie ma ormai crocevia di ogni diseredato d’America. Con gli agenti FBI alle costole, riparò prima in Inghilterra, dove divise per breve tempo un appartamento con un ubriachissimo Jeff Beck, poi fu costretto a fuggire addirittura nell’India del Nord. Sull’Hymalaya studiò sanscrito, unendosi alla setta Vaishnava per oltre tre anni. Nel 1974, a seguito di una lite con il vecchio maestro del monastero, scappò al sud, dove un amico di vecchia data che trafficava in gemme preziose aveva scoperto una miniera di rubini. Qui iniziò una seconda vita come importatore di preziosi.
Nel 1981, assieme a Campbell, Rick tentò anche di resuscitare il ricordo dei Misunderstood suonando raga-rock col gruppo The Influence.
Riemerse di nuovo nel 2008 quando, pubblicò il racconto autobiografico Like, Misunderstood. A Band, a Journey, a Dream, a Disaster, uno script su cui ci sono voci di trasposizione cinematografica.

Il nome dei Misunderstood fu riportato veramente in luce per la prima volta luce dalla casa discografica Cerry Red nel 1981 con l’EP Before the Dream Faded, compilation dei singoli del 1966 per la Fontana. Col tempo si sono moltiplicate le pubblicazioni su CD, fino a riesumare le prime incisioni con Phelps e l’esperienza ai GoldStar Studio documentata su The Legendary Goldstar Album.

Durante la loro beve esistenza  i Misunderstood pubblicarono un solo 45 giri.
La loro è la storia di un meraviglioso fallimento. Un fantastico, avanguardistico, futuristico flop. Troppo oltre per il loro tempo. Il loro destino era già scritto nel nome; nulla ha più potuto cambiarlo. Più di ogni altra parola, vale il ricordo dello stesso Glenn Campbell riportato da Richie Unterberger nel suo libro Unknown Legends of Rock'n'Roll:

“It wasn’t that we were so much overlooked when we were around. It was just that nobody knew we existed!”
  












Monografia: Randy Holden 

Un pioniere oltre il muro del Suono

Questa è la storia, breve, di uno dei grandi esploratori delle frontiere sonore che si estendono oltre il Volume, oltre la Distorsione, oltre il Feedback. La storia di una chitarra in grado di piegare le onde elettromagnetiche attorno sé. Una storia interrotta e poco conosciuta. La storia del primo guitar-hero anarchico del Rock, che in un desolato teatro di periferia inventò il Doom e forse tutto quanto il Metal. Randy Holden.
Classe 1945, nativo della Pennsylvania ma cresciuto un po’ ovunque, sin da giovane Randy imbraccia la chitarra come un’arma da guerra. Sono i primi anni ’60 e dopo le danze scatenate del primigenio Rock n’ Roll, l’America è invasa dagli effetti e dalle sfavillanti tavolozze sonore del surf prima, della British Invasion poi.  
Dopo alcune prime interessanti seppur embrionali esperienze con Iridescent e Fender IV, band per lo più strumentali e devote a Dick Dale, il primo vero gruppo di cui Randy fu leader si formò nella zona di Baltimora e prese il nome di Sons of Adam. Un quartetto classico, di classico garage datato 1966: sullo stile dei gruppi texani della International Artist, i Sons proponevano una versione yankee e cafona dei successi del Merseybeat e, soprattutto, di Stones e  Yardbirds che al tempo spadroneggiavano tra gli adolescenti più irrequieti d’America come l’ultima novità dell’underground britannico.  La differenza la facevano i colori ed il frenetico vibrato della Fender di Randy (Take My Hand, per esempio), capace di cogliere quei primi bagliori di acido che già nel 1966 si infiltravano tra i pulsanti R’nB delle migliori garage band. Ricollocati in California all’alba della grande stagione psichedelica, arrivarono ad incidere tre 45 giri, di cui due per la Decca. Palesi riferimenti al gruppo di Clapton e Beck, robuste schitarrate tra Byrds e vecchio west in Saturday's Son, serrati ritmi hambone in Tomorrow's Gonna Be Another Day, quasi un out-take dei primi Pretty Things.
Ma a quel punto i riferimenti della band si erano vertiginosamente moltiplicati, la linea da seguire appariva incerta e Holden non condivise le divergenze tra produttore e resto del gruppo. Sull’ultimo singolo, Feathered Fish, scritta da Arthur Lee, leader dei Love, Randy non compare nella versione ufficiale del 45 giri.
Dopo un inevitabile tutti contro tutti, i Sons of Adams si dissolsero nelle foschie violacee del Pacifico proprio mentre i loro unici possibili rivali, i Misunderstood del sinistro Glenn Ross Campbell, prendevano la via dell’Inghilterra per cercare fortuna a Londra.
Leggenda vuole che dopo avere lasciato il gruppo, a Holden fu offerta addirittura la chitarra solista degli Yardbirds (proprio loro!) dispersi in un massacrante tour negli Stati Uniti e con grossi problemi a controllare l’umor nero di un Jeff Beck sull’orlo di una crisi di nervi. Randy non era interessato e Jimmy Page prese in mano la situazione per le date restanti del tour.
Così, dopo un lungo periodo di inattività e di problemi di salute psicofisica che quasi gli costarono la paralisi di un braccio, Holden cominciò a frequentare un’ oscura band della suburbia di Los Angeles: alla prima jam insieme, Randy alzò al massimo gli amplificatori ruotando ogni manopola che gli passava sotto mano, trasportando gli sconosciuti Other Half nel regno del Volume.
Il chitarrista rimase con il gruppo di Los Angeles  oltre un anno, percorrendo in lungo e in largo la West-Coast di fine anni ’60, aprendo le serate per gli storici gruppi della Bay Area in locali come Avalon o Winterland. Il complesso incise il suo primo e unico LP nel 1968 ai Golden State Studio di San Francisco e, nonostante Holden non fosse affatto soddisfatto del risultato finale, The Other Half è il primo vertice della sua carriera nonché una delle più sfavillanti gemme nascoste dell’underground dell’epoca.
Assieme ad un nome di ascendenze “morrisoniane”, l’album poteva vantare anche un variopinto patchwork di copertina in bello stile psichedelico sul modello di Forever Changes dei Love. Gli stessi Love di Seven & Seven Is sono l’ispirazione primaria per le dieci canzoni dell’album scritte per la maggior parte da Holden e dal cantante Jeff Nolan, di fatto continue declinazioni del sofisticato garage di Arthur Lee e Soci. Pezzi (e titoli…) come Flight of the Dragon LadyOz Lee Eaves Drops o Morning Fire sono manifesti del sound indiavolato del gruppo: basso pulsante, batteria rullante e voce schizoide quel tanto che basta; e se abbondano certi clichè di produzione che parevano imprescindibili dopo Sgt. Pepper, Holden trova una dimensione finalmente matura e compiuta, proponendo una personale sintesi dei trucchi elettrici del vate Jeff Beck e del sustain hendrixiano del giovane chitarrista degli Spirit, Randy California. La rivincita rombante di Feathered Fish (ben più scatenata del vecchio singolo dei Sons…), l’hard-Rock di I Need You, la stramba cantilena di Morning Fire e la quasi spaziale Flight Of The Dragon Lady  lasciano già intravedere la direzione che il chitarrista avrebbe intrapreso di lì ad un paio d’anni. Chiude l’album un lungo e sinistro brano diviso in due parti: What Can I Do for You (FirstHalf)/ (The Other Half) un po’ una caricatura di certi Doors un po’ la personale ed ante-litteram Dazed and Confused di Jeff Nolan e Randy Holden che per la prima volta improvvisa liberamente svincolato dalla “forma canzone”, concedendosi tutto il tempo di cavar fuori dalla sua chitarra un suono profondo, a tratti cupo e sotterraneo, nonché un ventaglio di soluzioni sonore e tecniche sbalorditivo, in equilibrio tra tarda psichedelica e neonato hard-rock. Nei quasi 10 minuti dei due brani la tensione resta sempre alta e il deliquio del solista non perde mai di graffiante carica rock: il passaggio dalla Fender degli esordi alla Gibson SG diede in effetti enormi risultati sul versante dell’impatto volumetrico.

“When The Other Half records, all their amplifiers are turned to maximum volume The very latest and advanced recording techniques have made possible the faithful translation of this sound onto the vinyl disc which you are now holding. It is the: hope of The Other Half that you enhance your enjoyment of this record by playing it at least once at FULL VOLUME”
The Other Half – Note di Copertina

Ma il pezzo forte del gruppo venne per ultimo, sottoforma di singolo per la Crescendo (l’etichetta dei Seeds), nel 1968, Mr. Pharmacist: un robustissimo Psycho-Punk con tanto di furibondo rave-up strumentale ed incendiario quanto sintetico assolo di Holden, manco fosse già il tempo di Communication Breakdown. Il pezzo ebbe una discreta risonanza e in futuro fu ripescato dai Nuggets di casa Rhino e riproposto dai Fall. Sul momento però non impedì al gruppo di sfaldarsi.
Insoddisfatto della resa sonora dell’album ed evidentemente incapace di trovare una propria collocazione nel lavoro d’equipe, Holden non seguì gli Other Half decisi a cercar fortuna a San Francisco, preferendo L.A. alla capitale della west-coast music.

Randy era di nuovo senza lavoro ma a questo punto l’incontro tra i Blue Cheer e il Virtuoso Solitario fu l’inevitabile happening tra due mostri sonori: erano i musicisti che avevano fama di utilizzare il maggior numero di amplificatori sulla costa Pacifica e il loro matrimonio pareva celebrarsi in cielo. Randy raggiunse i Blue Cheer nel 1968 in tempo per incidere il lato B di New! Improved!, un album che segnò il distacco del furibondo trio di Dick Peterson dallo stoner motociclistico degli esordi. Alla chitarra, al posto di un esausto Leigh Stephens, un altro Stephens, Bruce e in più il pianista Burns Kellogs. Il lato A del LP diventò un’ educata collezione di bozzetti west-coast, tra il folk elettrico di Dylan e le divagazioni soffuse di Jerry Garcia (ma l’appeal “southern” di Aces & Heights non è male). Con l’ingresso in scena di Holden il tono cambia drasticamente: tre brani, due molto estesi, concepiti come una suite lunga tutto il secondo lato che si riallaccia idealmente alla What Can I Do for You degli Other Half, privilegiando al mordente rock n’ Roll  una solennità contemplativa e a tratti ridondante.
Introdotto da una lunga assolvenza di gong in feedback, il tono profondo e rilassato di Holden traccia uno dei grandi classici dell’Hard-Psych, definendo forse per primo la fusione tra i due stili che si sarebbero presto avvicendati al top delle chart transatlantiche. Dopo un delicato e ciclico arpeggio orientaleggiante di placido torpore, gestendo con perizia le sovra incisioni, Holden termina la solenne Peace of Mind con una ragnatela di chitarre baritonali e pensose. Lo stesso tono domina anche il suo cavallo di battaglia Fruit and Iceburgs: un Hard-Rock che si avvolge ad un riff elicoidale discendente e sinistro doppiato dal rintocco del basso e sferzato da una linea di canto semplice ma sottilmente ambigua. Chiude con grazia acustica e pastorale Honey Butter Lover un frammento di “adagio” che sa di Prog ed è la faccia nascosta della strafottenza sonora di Holden, segnando un pattern “Hard-Soft” che presto sarà dogma per molti gruppi AOR. Il sigillo finale del gong di Paul Whaley è anche il sigillo sulla permanenza di Holden con il terzetto di San Francisco.
La relazione coi Blue Cheer durò giusto lo spazio di circa 15 minti di musica su disco e di un travagliato tour per gli Stati Uniti; di nuovo incapace di trattenere buoni rapporti con un gruppo già consolidato, lasciò la compagnia nel 1969. New! Improved!, di fatto un’opera spuria e di transizione tanto per Holden quanto per i Blue Cheer, sarebbe stato solo l’anteprima del successivo, definitivo, lavoro del chitarrista: quel Population II che è il suo massimo testamento artistico e album oggi di culto assoluto per collezionisti e appassionati di estremismi da fine anni ’60.
Inciso nel ventre di un teatro dell’opera deserto, con uno schieramento di 20 amplificatori Sunn collegati in parallelo, sintetizzando ulteriormente il formato del power-trio rinunciando al bassista, quindi in sola compagnia di Chris Lockhead, batterista già coi Kak, Holden pesca a piene mani dal repertorio Hendrixiano pur con un plettro lento e a tratti flemmatico che sbatte e rimbomba sui tocchi profondi delle corde gravi, manovra la leva e i pedali con sapiente mestiere e dilata ulteriormente riff e linee melodiche. E’ lui che inaugura il formato minimo e dipolare “chitarra-batteria” riportato in auge in anni recenti da Black Keys e White Stripes. La foto sul retro della copertina, in tremendo nero-bianco, bicromatica, ritrae il chitarrista di fronte al muro di amplificatori che si stagliano come una fortezza sonora alle spalle dei musicisti: 1600 watt di potenza incanalati nella nuova Stratocaster di Randy, ora tramutata in una vera arma di distruzione di massa musicale, con un timbro ed un “ingombro sterico” irriconoscibili in una Fender.
Nei 30 minuti del LP, anche grazie all’originale binomio Strato - Sunn, Holden forgia il più potente e profondo sound di chitarra mai inciso fino al ’69Guitar Song, una opener che è un Programma, è una vibrazione tellurica, rotonda, plumbea, zeppa di armonici, che emana onde di ampiezza sempre più dilatata, dal tono bollente che emerge come dal nero di un Big-Bang acustico tonante. Un paio di anni prima dei Black Sabbath, questo è vero e proprio Doom in tutta la sua stordente solennità. Holden riprende Fruit & Iceburgs che qui si espande, tremenda, su svisate di feedback dinosaurini e riff monocordi di basso: una versione horror di Hall of the Mountain King, che riecheggia in un antro di vastità insondate. Il tempo è ulteriormente dilatato e il passo della batteria rievoca l’avanzare di un esercito invasore di SS nel territorio della Moderazione e della Decenza. La voce è un puro accessorio che insiste su visioni e toni ormai quasi disperati. Between Time potrebbe essere una fosca memoria di Jumpin’ Jack Flash in forma catacombale, che dondola come un Golem per il ghetto di una pellicola espressionista. Holden dà fondo a tutto il suo mestiere distorcendo ed elevando a potenza le raffinatezza elettriche del primo Jeff Beck, adoperando la sua chitarra come un’ apparecchiatura futuribile per deviare, forgiare e plasmare le onde sonore che stanno attorno a lui. Un unico profondo lamento che si leva da un golfo mistico deserto fin oltre le quinte spoglie del teatro.
Questo chitarrista genera un sound che è realmente titanico, anche nel senso mitologico della parola. Un Prometeo finalmente libero dalle catene che riversa la sua rabbia sottoforma di maree di tetro, livido vibrato. La sparuta batteria di Lockhead, sommersa da tanto tsunami, si limita a definire i contorni di figure che Randy puntualmente deforma e riscrive. Con Population II, Holden inventa il primo modello di guitar-hero solitario, cacofonico e volumetrico, una forma primitiva di Helios Creed, Keji Haino, Caspar Brötzmann o qualche integralista “Kraut” della prima ora in stile Manuel Göttsching. Sarà anche per questo che l’entusiasta germanofilo Julian Cope riserva per Holden parole di esaltato elogio.

POPULATION 2 is a legendary album for several reasons, but none more so than because it’s the most strung out, wrung out ambient hulk of metalwork to rise from the mystic portals that crossed the 1960s over into 1970. When Andrew Marvell wrote about ‘desarts of vast eternitie’ in the 17th century, he was for sure anticipating Randy Holden’s POPULATION 2, deffo the most aptly-titled record ever. For it sounds like the musical equivalent of two loners in the Belfast shipyard, working heads down and wall-eyed during afterhours to create a solo aircraft carrier of Howard Hughes-ian proportions. That big, that lonely, that singular – a friendless featureless musicscape that rivals Skip Spence’s OAR and Klaus Schultze’s CYBORG for sheer doing-my-thing-till-I’m-damned proportions.

Blue My Mind procede stentorea e strafottente (I don’t mind, I don’t care…) come un Classic-Rock notturno in grado da solo di spazzare via quasi tutto Master of Reality e le sue finte visioni sataniche. Ma il vero mostro arriva solo alla fine con Keeper of My Flam: oltre dieci minuti di maratona in quello che di lì a poco diventerà lo stile dei primi Grand Funk Railroad; un continuo esercizio di assoli e contro assoli con ripartenze fulminanti, sustain esasperati, silenzi improvvisi, intermezzi spaziali che massacrano una platea di zombie fatti di Valium e acido.
Fine.
Perché poi, da buon sciamano, Randy Holden, scomparve nel nulla.
Population II fu, teoricamente, l’uscita n° 5002 della Hobbit. Una post-produzione disastrosa costò addirittura la perdita del master originale, l’album non ebbe nessuna distribuzione e fu stampato in un numero ridicolo di copie, peraltro non autorizzate. Il resto lo fece il furto di tutto il mastodontico equipaggiamento tecnico, fatto che lasciò Holden sul lastrico, deluso e depresso. Di fatto, lì finì la sua carriera. Passò gli anni seguenti sempre meno interessato alla musica, dedicandosi quasi a tempo pieno  alla pittura, ambito in cui ancora oggi è attivo (con risultati discutibili…).
Riemerse un paio di volte negli anni ’90 con album di hard-Rock “alternativo” tutto sommato buoni (pezzi Dark Eyes o Scarlet Rose…)ma dai titoli deliranti come “Guitar God”. Certo che se dopo AC-DC prima, Kyuss o Motorpsycho poi, queste uscite segnano inevitabilmente il passo, è pur vero che l’ultra-reggae I Sail On Love, montato su assoli à la Stairway to Heaven, è un brano di notevole impatto emotivo. Così come l’immane anthem di Prayer To Paradise, oltre venti minuti di esercizi di stile che ripassano enciclopedicamente trent’anni di chitarra elettrica da Dick Dale a Hendrix, da Page a Van Halen, da Blackmore a Slash; una prova di dedizione assoluta che anche nel nuovo millennio desta un’enorme impressione sonora e si colloca a buon diritto tra le massime maratone chitarristiche della musica pop.

Sons of Adams e lo psycho-surf, Other Half e la psichedelica pesante; i Blue Cheer con il metal classico e quasi mistico. Population II: la sperimentazione oltre la sfera del suono, oltre il volume o la distorsione. Uno dei primi grandi affronti del Rock alla Fisica e all’ Acustica. 
Randy Holden resta una figura mitologica. Deve esserlo. Un’ eco di un tempo antico che ancora rimbomba tra pachi vuoti, spettrali.
I suoi contorni sfumati, incerti, vagamente messianici, circondati dalla candida aureola stellare sulla copertina cosmogonica di Population II restano la sua più perfetta iconografia.











Monografia: Eddie Hazel

I once had a life…

A sessant’anni dalla sua nascita, la storia dell’unico solista afroamericano che poteva rivaleggiare con Hendrix; Eddie Hazel, figura mitologica della chitarra elettrica, è oggi un eroe dimenticato di un tempo eroico per la Black-Music.


“Cerca… cerca di suonare come se tua madre fosse appena morta… suona così!”
Poi il chitarrista si piega sullo strumento, socchiude gli occhi; attorno a lui solo un mormorio blues in lontananza. E il fruscio elettrico della tastiera; in dissolvenza. Non servono parole.
Il modo in cui George Clinton cercò di tirare fuori il meglio dal suo solista - immaginare la madre morta - oggi è solo un aneddoto sulla genesi dell’ epica “Maggot Brain”.
Ma durante quella seduta d’incisione, da qualche parte, nella Detroit dei primissimi anni ‘70, Eddie Hazel fu il miglior chitarrista rock del mondo.
E lo fu, per fortuna di chi ascolta, proprio mentre il jack era inserito e le spie accese.
Tutt’intorno ci sono i neon tubolari, il fracasso della General Motors; vapori urbani e pioggia leggera.


La storia di Eddie Hazel inizia il 10 Aprile 1950 a Brooklyn; da bambino canta nel coro, inizia presto a suonare la chitarra. Ad appena 12 anni conosce un bassista in erba di nome Billy Nelson, di un anno più giovane; con lui forma i primi complessi. Cinque anni più tardi sarà lo stesso Nelson ad introdurlo a George Clinton, pittoresco guru della nuova funky music in cerca di un gruppo che lo supportasse in tour. Hazel e Nelson arrivano giusto in tempo per la prima hit, “(I Wanna) Testify”, Rn’B robusto pur senza troppa originalità: sarà comunque nella Top 20. L’inizio appare promettente e il giovanissimo Hazel si imbarca nell’affare: da allora la sua vicenda artistica sarà, nel bene e nel male, inscindibile (e spesso offuscata) da quella del grande personaggio George Clinton.
Al successo di “(I Wanna) Testify” seguono altri 4 singoli per la Revilot Record, ma nessuno entrerà in classifica; i Parliaments perdono rapidamente quota, anche perchè la musica, sul finire del decennio, appare in rapido cambiamento: non è più epoca di quartetti vocali e doo-woop da sala da ballo, ma piuttosto da ballata acida per sit-in universitari; nel frattempo Eddie sviluppa uno stile ispirato tanto a Jimmy Nolen (allora chitarrista di James Brown) quanto alla nascente scena psichedelica.

La prima svolta arriva nel 1969, quando il gruppo si consolida attorno al nuovo progetto Funkadelic. Clinton ne è produttore, regista e autore: il focus musicale passa dalle armonie vocali ad essere tutto sulle spalle degli strumentisti che, liberi da ogni struttura-canzone di 3 minuti e senza l’assillo della hit necessaria, possono improvvisare liberamente su jam di psycho-blues incandescenti. La band firma per la Westbound e trasloca a Detroit, una delle scene più eccitanti d’America per il rock più puro e rabbioso. Hazel dominerà  la prima “trilogia” del gruppo: “Funkadelic”, “Free Your Mind...And Your Ass Will Follow” e “Maggot Brain”.
Ma nel frattempo Clinton, in una fase di acuta schizofrenia, resuscita i Parliament: non sono certo più il gruppo vocale di qualche anno prima, ma rappresentano la parte Rn’B del leader. Tra la fine del 1970 e il settembre 1971,i Parliamet (che mantengono la stessa line-up dei Funkadelic) incidono 5 singoli e un album per la Invictus. “I Call my Baby Pussycat” (dicembre 1970), firmata anche da Eddie, sembra l’inno del la band e la sua chitarra hard-funk può spaziare tra Beck ed Hendrix fino a trovare un suo stile. Intanto è entrato in gruppo anche il preparatissimo tastierista Bernie Worrel: con lui la chitarra di Eddie incrocerà le lame in duelli al limite del rock. Il secondo singolo, “Red Hot Mama” (febbraio 1971), è aperto da un collasso di feedback del chitarrista, che poi infila il riff più pesante della sua carriera: metallico, grezzo a volume spropositato; la canzone diventa un po’ la “Whole Lotta Love” del gruppo, ma il successo ancora non arriva. L’album del luglio 1971, “Osmium”, contiene tra l’altro il funk tiratissimo di “Breakdown”, in cui Hazel conduce al galoppo tutti quanti, e l’epica spaziale “Livin' the Life”. Eddie raggiunge l’apice della prima parentesi con i Parliament con “Come in Out Of the Rain” (settembre 1971), ballata politica in crescendo à la “Hey Joe” in cui il chitarrista è fluido, immacolato, perfetto; la canzone suona come una traccia di Volunteers dei Jefferson con Hendrix al posto di Jorma Kaukonen.
Nel 1995 la Fantasy ristampa in CD “Osmium” col titolo “First Thangs” aggiungendo B-side e inediti come “Fantasy Is Reality”, soffice brano corale in cui il chitarrista ricama un lungo assolo pieno di effetti, colori sonori e fragili distorsioni, fondendo ed esasperando gli stili di Beck ed Hendrix.

Hazel è ancora più protagonista con il ritorno sul versante Funkadelic: il free rock lisergico di “Free Your Mind…” raccoglie il testimone di MC5 e Stooges ed è trascinato in orbita dagli scontri esplosivi tra le tastiere di Worrel e la Stratocaster di Eddie, che marchiano a fuoco brani come “Funky Dollar Bill” e “I Wanna Know If It's Good to You?”. Alla lezione psichedelica di Kaukonen e Arthur Lee, a quella dell’hard inglese, Hazel aggiunge una devozione che diventa quasi studio per il sound di Hendrix, mirabolante negli effetti ma appassionato e coerente nella melodia.
Il 1971 si chiude in gloria con l’opus magnum “Maggot Brain”, testimonianza dell’ormai matura concezione del funk-rock di Clinton. L’album passa alla storia per la traccia d’apertura: 10 minuti di commemorazione elettrica dai toni trasognati e drammatici; “Maggot Brain” è un soliloquio improvvisato di lucida dipendenza da stupefacente; dolente e introspettiva, sta al Rock come la disperata “Lover Man” di Charlie Parker stava al bebop. Ad un anno esatto dalla morte di Hendrix, Hazel sembra qualcosa più di un erede designato: il suo plettro continua sulla strada tracciata dal maestro di Seattle, lo fa in modo personale, travolgente; una reincarnazione fulminante. Cappello floscio a falde larghe, colli di pelliccia, vestiti variopinti: in piena “blaxploitation”, Hazel entra nel personaggio e il prepotente assolo finale di “Super Stupid” rimbomba come una raffica del mitra di Shaft. Come John Gilmore per Sun Ra nell’ Astro Infinity Arkestra, Eddie è per Clinton una colonna sonora di fantasia cosmica e spiraliforme genialità. “Maggot Brain” entra nella charts R&B  e i Funkadelic, con Sly Stone e Isaac Hayes, sono i campioni rock del nuovo black-power.
Quale fosse la potenza del gruppo dal vivo in questo momento, lo dimostra un live pubblicato nel 2005 dalla Westbound: “Live-Meadowbrook, Rochester, Michigan 12th September 1971”. La performance di Hazel è stellare e “Maggot Brain” suona ancora più devastante che in studio. Stupefacente.

Ma a proposito di stupefacenti, il gruppo non faceva certo mistero di usare dosi massicce di allucinogeni d’ogni tipo per sperimentare nuovi confini per musica e mente. Il primo a farne le spese fu Tawl Ross, che quasi morì d’overdose nell’estate del 1971; poi anche il batterista Tiki Fulwood gettò la spugna, seguito a ruota da Hazel e Nelson che ruppero con Clinton per problemi contrattuali derivati dal loro costante stato di alterazione da LSD. A “Maggot Brain” seguono anni difficili, in cui Eddie è sempre più emarginato in una band ormai estesa a oltre dieci elementi; la sua presenza sui crediti degli album successivi è puramente formale: il chitarrista, di fatto, è fuori dal gruppo.

Bisognerà aspettare il 1974 e “Standing on the Verge of Getting It On”  per ritrovare l’artista lucido e ispirato di qualche anno prima; l’album è una bomba, Hazel è co-autore di tutti i pezzi (sotto lo pseudonimo Grace Cook, nome della madre) e recupera l’ispirazione tanto nell’armonia quanto nell’assolo; in coppia con il nuovo collega Ron Brylowski, il doppio assalto chitarristico è da manuale (vedi “Alice in My Fantasies”). Il disco è una sorta di summa di 4 anni di Funkadelic e non manca un nuovo esteso soliloquio di Eddie: “Good Thoughts, Bad Thoughts” è una pioggia leggera sulle corde acute, una primavera in ritardo che introduce il meditabondo sermone di Clinton.
Purtroppo, sarà un fuoco di paglia: quello stesso anno Hazel è arrestato per possesso di droga e per avere aggredito un’hostess. C’è il carcere. Clinton non può aspettare ed entrano stabilmente in formazione Michael Hampton, Gary Shider e Ron Brylowski.
Eddie Hazel è di nuovo solo un nero, tossico, senza lavoro e, soprattutto, ancore sconosciuto al grande pubblico; surclassato dalla teatralità del live-act di Clinton & soci, rimane affogato nei meandri di un gruppo che può avere un solo leader. Passa qualche anno nell’anonimato a incidere per i Temptations. Come il protagonista del vecchio blues di Howlin’ Wolf, è solo un “povero ragazzo molto lontano da casa”, la musica, la sua bambina, sembra “morta e sepolta”.

Nel 1977 la nuova svolta: è il momento del primo ed unico album solista, prodotto da Clinton con l’aiuto della sterminata truppa dei redivivi Parliament, tra cui i vecchi amici Nelson e Worrel.  Hazel raccoglie materiale sufficiente per almeno 3 LP: quello che ne esce è “Game, Dames and Guitar Thangs” (Warner Brothers, 1977) un tour de force strumentale su è giù per il manico della Fender. Sulle solidissime basi funky dei vecchi colleghi, il chitarrista dispiega tutti gli sterminati colori e distorsioni della sua Stratocaster. Se il songwriting non è sempre a fuoco, gli estesi assoli sono fantasiosi, personali e soprattutto mai trite imitazioni di “Maggot Brain”. L’ispirazione è in parte ripulita dalla ruvidità dell’ hard e del funk; Hendrix è sempre il Nume, ma non più l’Hendrix di “Izabella” o della “Band of Gypsys”, piuttosto quello rilassato e morbido di “Little Wing” e “Waterfall”; da qui Hazel si avvicina anche ai territori quasi jazzati dell’ultimo Peter Green o del Jeff Beck di Blow by Blow.
Se non che, Eddie è rimasto un solista puro, un virtuoso dell’assolo che necessita di produzione “autoritaria” e di strutture armoniche scritte per supportare i suoi voli; nell’album si avverte che il solista si getta senza rete e i brani girano perpetui attorno a figure ultrafunky a volte mancanti di sviluppo coerente. Un senso di “precarietà” che però giova a dare ulteriore risalto alla straordinaria tecnica del protagonista. Dai ricami di “Frantic Moment” al funk-blues di “So Goes The Story”, “Game, Dames and Guitar Thangs” è uno dei grandi guitar-album dimenticati degli anni ’70, degno di stare alla pari dei lavori dei tanti discepoli di Hendrix sparsi per il mondo da Robin Trower a Ritchie Blackmore a Frank Marino.
Ma fu anche, ahimè, un unicum; emarginato di nuovo nei P-Funk, che ormai allineavano una line-up sterminata necessaria al loro circo live, Hazel non seppe riciclarsi come band leader, né tanto meno come artista solista. La copertina, in pieno stile P-Funk, indulgeva ancora in iconografie da pellicola di Gordon Parks, con il musicista in vesti sgargianti che imbraccia la chitarra come fosse un fucile; ma l’album era arrivato fuori tempo massimo. Il 1977 spaccò l’America in due: da una parte il boom commerciale della Disco, dall’altra il rock alternativo della Sire Record con Ramones, Dead Boys e Talking Heads: il poco spazio rimasto per i guitar-hero se lo prese tutto Eddie Van Halen.
Le collaborazioni di Hazel con Clinton divennero sempre più sporadiche anche perché il suo stato di salute andava peggiorando: dolori allo stomaco, problemi al fegato, anni di alcol, droghe e Falsi Dei che ritornano, tremendi, a chiedere il conto. E’ la strenua e scontata lotta della rockstar di turno contro una Morte prematura e già scritta, che ad Eddie Hazel non concede nemmeno la grazia di una glorificazione postuma, concessa a tanti altri sconosciuti spettri come lui. Non fu una carriera fulminante e la sua fiamma si spense lentamente, “goin’ down slow” come cantava Jimmy Oden.
Morì l’antivigilia di Natale del 1992, dopo anni di dolorosa malattia, per emorragia interna dovuta a complicazioni epatiche. Aveva 42 anni.

Dopo la sua morte apparvero sul mercato alcune compilation che raccoglievano inediti del periodo di “Game, Dames and Guitar Thangs”. Prima un EP, “Jams From the Heart”, poi un CD di stampa giapponese, “Rest in P” (P-Vine, 1994), difficile da reperire ma di valore veramente alto che aggiunge ai 4 brani dell’EP altri 6 pezzi; oltre un’ora di musica forse ancora migliore dell’album ufficiale. Il suono è etereo e atmosferico, a tratti uno smooth-funk di gran classe, a tratti uno space-rock coloratissimo e interstellare. I brani cardine sono tre sterminate jams: “Juicy Fingers”, “We Three”  e  “No, It's Not!”.
I 14 minuti di “Juicy Fingers” sono un’ emozionante, ininterrotta cascata di blues ipersonico, la sponda opposta di “Maggot Brain”: quanto quello era estemporaneo, meditativo e pieno di feeling, questo è estroverso, molto tecnico, pulito: Hazel è fluido, veloce, nitido; “We Three” è un esteso soul con una lunghissima coda strumentale in cui il chitarrista sfrutta tutto il suo arsenale elettronico per creare vortici di echo e delay che avvolgono lo spazio e risalgono altissimi la stratosfera. “No, It's Not!” si lancia fino a corazzarsi di metallo pesante nel lungo delirio finale.
Nel 2004 la Rhino ristampa “Game, Dames and Guitar Thangs” con 4 bonus track (cioè i 4 pezzi di “Jams From the Heart”); poi, a parte una trascurabile raccolta di demo (“At Home”, 2006) di nuovo il silenzio.

Progenitore della debordante scena funk-metal di Los Angeles, da Hillel Slovak (Red Hot Chili Peppers) a Tom Morello, dai Fishbone fino a Lenny Kravitz, Hazel non è riuscito a squarciare le ombre e ad imporsi veramente per quello che avrebbe meritato. Un fuoriclasse oscuro, misterioso; uno dei tanti portenti dimenticati di una musica con poca memoria e senza riconoscenza. Di lui non ci restano interviste, solo pochissime foto. Uno spettro; che lasciò sempre la parola al suo strumento. “Can You Get To That”, una canzone di Clinton datata 1971, dice più o meno: “Una volta ho avuto una vita, o meglio, la vita ha posseduto me”; questo accadde ad Eddie Hazel. Il suo talento fu a volte il posacenere per i mozziconi di droga e tabacco che gli divorarono il cervello proprio come larve d’insetto; ma da quelle larve spiegarono le ali meravigliose farfalle sonore, librate su cascate di note.
Fu il più grande. Almeno per un giorno. Accadde in un’ epoca lontana, in una sala d’incisione come tante. Da qualche parte, nella Detroit dei primi anni ’70. Neon tubolari; vapori urbani e pioggia leggera.










Monografia: Third World War


I Predicatori della Violenza Perduta



Con due album all’inizio degli anni ’70, i Third World War si dimostrarono i più violenti agitatori politici del rock e la prima conscia incarnazione degli ideali radicali di punk e hardcore. Fondendo la cruda satira sociale dei Fugs, la carica elettrica e sovversiva degli Stones e suonando un ruvidissimo garage, coniarono una poetica affascinate ma profonda, troppo presto 
sommersa dall’ottusità del Mainstream.


TERRENO FERTILE
La fine degli anni ’60 trova la scena londinese impegnata a rielaborare le tante suggestioni sociali e musicali piombate dalla West-Coast. Pur se gruppi di superstar come Beatles, Stones, Who si gettano nella mischia, le cose più interessanti spuntano da un underground ricco di personalità intriganti: Syd Barret, mentore cosmico dei primi Pink Floyd, John “Twink” Adler, freak da antologia, batterista di professione, e soprattutto Mick Farren, militante a capo della comune Social Deviants e futuro leader della band omonima che con Ptooff! (1967) inaugurò la contro-cultura britannica.
All’epoca Terry Stamp è uno che fatica ad arrivare alla fine del mese, fa il camionista ma ha un passato da bassista con i Mike Rabin and the Demons, un complesso beat di terza fascia con cui aveva battuto i locali dell’interland tra il 1963 e il 1967, fino alla chisura del Wimbledom Palais, il locale di riferimento del gruppo. Terry però non abbandona del tutto il “Sogno del Rock” e una sua canzone, Tobacco Ash Sunday, viene pubblicata come singolo nel 1968 dagli Harsh Reality: non fu un successo ma tanto bastò per attirare l’attenzione di John Fenton, menager e produttore di un gruppo di musicisti e cantautori noto come Writers Workshop. Sarà Fenton a presentare a Stamp il bassista Jim Avery, già in tour con i Thunderclaps Newman’s, un gruppo sponsorizzato da Pete Townsend e titolare della hit Something in the Air (su Hollywood Dream, 1969).
Nel frattempo però la scena rock è profondamente cambiata: al pop di Beatles, Herman’s Heremits, Manfred Mann si è sostituito il plotone psichedelico, poi i primi bagliori del progressive e del blues-rock, infine il 1969 fu l’anno del prepotente successo dei Led Zeppelin e dell’hard.



THIRD WORLD WAR

Too many people are hanging around with their heads to the ground, wasting themselves. We'll be hearing more of the Third World war. We'll hear, and then see.
Geoffrey Cannon, Guardian 16th October 1970

La Sinergia tra Avery e Stamp, ora passato alla chitarra ritmica, è eccezionale. I due riescono a scrivere musica, condensare idee e stendere testi con una facilità strabiliante. Il primo demo è un pezzo dal titolo Holy Roller. Tanto basta a Fenton per produrre le sessions del nuovo gruppo, battezzato dallo stesso produttore Third World War: nessun riferimento profetico, la terza guerra mondiale si sta già combattendo: è quella tra ricchi e poveri, tra le classi dell’alta-borghesia e le masse proletarie. Con queste premesse la band entra in studio per incidere il primo LP:  Terry Stamp è leader, cantante e chitarrista, Jim Avery la sua spalla al basso; poi Mick Liber alla chitarra solista e il batterista Fred Smith; Tony Ashton, già titolare del trio pop-rock Ashton, Gardner & Dyke, aggiunge il suo piano honky-tonk, mentre Bobby Keyes, sassofonista dei Rolling Stones, suona in Shepherds Bush Cowboy eWorking Class Man. Produce John Fenton agli Island Studios, e in effetti il mixing ricorda vagamente quanto stava facendo Guy Hamilton coi primi Free e Mott the Hoople, anch’essi artisti Island. Una produzione abbastanza curata che punta tutto sulla sfrontatezza e sulla abrasività del sound; i musicisti stanno al gioco: Stamp conduce le danze con una “chopper guitar” (così nelle note di copertina) percussiva e metallica, fatta di carta vetrata al pari della sua voce sabbiosa e impastata, qualcosa tra i Pink Fairies di What a Bunch of Sweeties, il primo Lemmy e Joe Strummer. Dal canto suo, il basso di Avery è sempre in primo piano e propelle riff su riff, profondi ed elementari come il miglior Mel Shaker coi Grand Funk. Mick Liber, colora, rifinisce e divaga in meraviglioso isolamento. E’ una musica che perde tutte le bizzarrie freak di Deviants e Hawkwind in favore di una linearità essenziale, addirittura spartana, tutta al servizio del Messaggio Sociale di Stamp. Perché sono i testi il vero motore dell’azione, ben più che la musica. Declamati con pensosa ribellione e una punta di pragmatica disillusione, riannodano il filo con l’agitazione urbana degli MC5. Stamp è però di gran lunga il più diretto movimentatore politico del rock, libero dai moralismi da Greenwich Village dei primi ’60, “politycally scorrect” e a suo modo fazioso ma appassionato. Nessuna utopia, solo la consapevolezza della lotta necessaria. Forse solo Roky Erickson avrebbe potuto essere così esplicito se la marijuana e i  13th Floor Elevators non gli avessero fritto il cervello.
Ascension Day, combattiva opener dell’album, garage rock di prima qualità, mette in chiaro le cose:

Waiting on the roof tops
Looking for a sign
Pull your hand-grenade pin
And i'll pull mine
And don't you know i feel proud
Just to shake your hand
Don't you know i feel proud
Just to make a stand when the old man dies
On ascension day when we rise
Now when we rise
Power to the people
When we rise
Power to the poor
When we rise
Power to the workers
When we rise
Power to us all

Aspettando sui tetti
In attesa del segnale
Togli la sicura alla tua granata
E io la toglierò alla mia
E sai che mi sento orgoglioso
Solo di stringerti la mano
E sai che mi sento orgoglioso
Solo per aver fatto resistenza alla morte del vecchio uomo
Nel giorno dell'Ascensione, quando ci alzeremo
Ora, quando ci alziamo
potere al popolo
Quando ci alziamo
Potere ai poveri
Quando ci alziamo
Potere per i lavoratori
Quando ci alziamo
Potere a tutti noi

In una miscela di Marxismo periferico, Lotta Continua e Democrazia Proletaria, Stamp lancia la sua intransigente proposta di epurazione sociale. La sua scrittura sarà l’equivalente in musica dei volantini di reclutamento delle Brigate Rosse, quindi a tratti fin troppo estrema per essere presa veramente sul serio dal pubblico. Discutibile, ma sempre sincera e appassionata al contrario di tante inutili crociate propagandistiche da superstar in Limousine.
L’inno del lato A sono gli otto minuti di M.I.5's Alive, pervasi da un riff alla Keith Richards e dai tormentati wha-wha di Liber; Stamp la butta direttamente in politica:



"Let's free the working class
We're tired of licking the government's arse
We're tired of kissing the Monarch's arse”

Lasciate libera la classe operaia
Siamo stanchi di leccare il culo del governo
Siamo stanchi di baciare il culo della monarchia


Il pezzo poi degenera in una jam blues scalcagnata, troppo in 4/4 per essere Captain Beefheart ma con lo stesso piglio anarchico.
Working class man, volente o no, strappa la maschera di dosso al baronetto John Lennon, il quale proprio nel 1970 se ne venne fuori con l’astratta e subdola Working Class Hero(senza darla a bere a nessuno, peraltro); è anche il momento più autobiografico del cantante, fortunatamente attento a non sfociare nell’autocommiserazione:

..the foreman’s big mouth
Said stop, you've been shirking
Get out of that truck
And the company clothes
I nut him in the face
And I broke his long nose
Got sacked for fighting, cards and money on the spot
You’d think five years’ service is something
But it's not

Quel gran chiacchierone del capo
Dice: Stop, hai fatto lo scansafatiche
Esci dal camion e togliti la divisa”
Io l’ho colpito in faccia
E gli ho rotto quel lungo naso
Sono stato licenziato per la rissa, ho mollato soldi e documenti
Potresti pensare che cinque anni di servizio sono qualcosa
Ma non è così

“If you want to be a hero well just follow me”, no grazie John, non c’è celebrità tra la povera gente.

Stardom Road Part 1 è l’unico momento semiacustico e quasi elegiaco dell’album, con tanto di arrangiamento di archi che nulla toglie alla ruvidezza dell’insieme, mettendo anzi in risalto la voce drammatica di Stamp.

'Well, I kicked on my mule, and he obeyed me,
Everyone else snuffed and delayed me.
They said you ain't got the voice,
And you ain’t got the chords,
And yer living in Bayswater, on floorboards.
And you won’t,
No you won’t, no you won’t,
Take that load
Up Stardom Road.'

Assieme alle avventure nel sottobosco di Shepherd's Bush Cowboy, con bell’arrangiamento per ottoni, potrebbe essere uscita dai taccuini di Tom Waits, o Bon Scott, alla ricerca della più varia umanità notturna.

I turned to a skinhead drinking pint race
He said 'Man, that queen's got a nice face'
Up came my fist, other queen got kissed
That adds one more to my list
The boozer closed its shutter
The barman said ‘Don’t leave him there
Roll him in the gutter

La Part 2 di Stardom Road si risolve al contrario in un attacco punk stile Detroint 1968.
Get out of Bed You Dirty Red si fa notare per un bel contrappunto di rutti; ma l’anthem definitivo è Preaching Violence, regolato dalla schitarrata più disturbante che si possa immaginare; il pezzo batte di nuovo sugli stessi temi “La rivoluzione è dietro l’angolo” canta Stamp; il comandamento è solo uno: “preaching violence”. Una violenza a tratti figurata a tratti anche molto concreta, a cui l’autore porta tutte quelle giustificazioni che una società tanto disparitaria non manca mai di presentargli. Finalmente una violenza in musica che non è rivolta solo ad innocue suite del George V di Parigi o del Chelsea Hotel a New York. Finalmente una violenza in musica che si pone degli obiettivi (giustizia, equità sociale) che, per quanto velleitaria e caricaturale, non è solo una posa, come quella contrabbandata da certo Metal e molto Punk. 


IL PRIMO DOPOGUERRA



I have a strong feeling that, along with Hawkwind, Pink Fairies and a few others, they could do a lot to move rock away from self-consciousness and artiness and bring it back to the street corner and parking lot.



Mick Farren



Ho proprio l’impressione che, assieme a Hawkwind, Pink Fairies e qualcun altro, loro potrebbero fare molto per spostare il rock lontano da e riportarlo agli angoli delle strade e nei parcheggi.
  


L’album uscì per la Fly Record nel 1971, preceduto dal singolo di Ascension Day, purtroppo mai suonato dalla BBC. Copertina spartana in bianco e nero, nome della band e tre lettere R rosse a simboleggiare Reading, W’riting and A’rithmetic: un libro di scuola per nuove leve. Passerà alquanto inosservato negli ambienti che contano, ricevendo qualche lode dalla stampa e dai musicisti dell’underground. Il gruppo comunque si imbarca in un breve tour in patria e all’estero. In Finlandia suoneranno anche in uno show televisivo; in Francia arrivano gli stessi giorni della morte di Jim Morrison. Parteciperanno anche all’ “Oz Police Ball”, il festival più alternativo di Londra promosso dalla rivista d’eccellenza della contro-cultura. La performance al fianco di Arthur Brown, Viv Stanshall, Pink Fairies, Egg e Roy Harper sancirà la loro affiliazione almeno teorica con gli ensemble della scena Ur-Punk.

Dopo lo scioglimento dei Deviants, e l’esperienza solista di Farren (Mona -The Carnivorous Circus, Transatlantic, 1970), il testimone del Comunismo-Freak-Velleitario era passato alla Edgar Broughton Band di singoli come Death of an Electric Citizen (Harvest, 1968) e Out demons out! (Harvest, 1970). Il 1971 vedrà poi l’esordio discografico dei Pink Fairies di Twink e Duncan Sanderson, gli unici che potranno tenere il passo dell’estremismo di Terry Stamp a cominciare da Do it e Teenage rebel (su Neverneverland, Polydor, 1970).
Perfettamente calati in quella realtà, i TWW riescono a costruirsi una discreta base di devoti ammiratori e a partecipare a pieno all’euforia di nicchia del periodo, il tutto rigorosamente all’insaputa della Massa… Ma per attivisti di cause perse e contestatori irriducibili, in America le cose andavano ancora peggio, visto che l’eccitante scena di Detroit si era sciolta come neve al sole alla scomparsa di MC5, Stooges e Frost. Per Stamp e Avery si profilò un tour negli USA addirittura come spalla degli Allman Brothers, ma la morte di Duane Allman mandò tutto a rotoli. Quando ci si mette la sfiga…
Terry Stamp ricorderà amaramente quei giorni da rocker come una bella parentesi nel suo più concreto lavoro di camionista: “I regarded that whole year (1971) as a vacation from “real work”, no more cold mornings trying to get a truck to start, nights spent sleeping in the truck cab at Newcastle because the delivery place was closed, breaking down in Preston with two bob in my pocket”



THIRD WORLD WAR 2

Nel loro successo del 1971, A space in time, i Ten Years After ammettevano: I'd love to change the world But I don't know what to do do (“mi piacerebbe cambiare il mondo, ma non so come fare”). I TWW non si aspettavano nulla di veramente utopistico, in compenso avevano tanto da proporre.
Dopo una serie di concerti a promozione dell’album e l’assestamento della line-up, Fenton persuade la band a pubblicare un nuovo singolo; Stamp e Avery mettono assieme una versione “edulcorata” di una traccia che comparirà sul secondo LP, Little Bit of Urban Rock. Third World War 2 viene registrato agli Olympic Studios di Barnes. Fenton produce e in studio vanno, oltre a Terry e Jim, Craig Collinge alla batteria, John Hawken al piano e la chitarra solista di John Knightsbridge; la formazione era ormai rodata dall’esperienza “on the road” e le registrazioni cominciano nel dicembre 1971. Non tutto fila liscio: i soldi scarseggiano e i discografici della Fly Records non vogliono in scaletta Coshing Old Lady Blues (a tema Hell’s Angel). Alla fine l’album uscirà per la Trak Record, la stessa etichetta degli Who. Commercialmente la Fly ebbe ragione: puntando su Mark Bolan e i T.Rex si ritroverà due hit n° 1…
Le coordinate musicali sono immutate, ma il gruppo affina l’affiatamento, il sound è appena più raffinato, un insistito piano boogie è spesso prominente nel mix, la chitarra solista è limpida, più hard e meno garage; l’atmosfera è scanzonata e sfrontata, ma il tono di fondo è sempre in chiaroscuro. Inquietante il disegno di copertina del cartoonist tedesco Tony Muzlinger: chitarre come mitra e cervelli ingabbiati in crani scheletrici.
Non mancano momenti riflessivi, grazie ai blues sfilacciati e sonnolenti di Coshing Old Lady Blues e Factory Canteen News. L’apertura invece è rigorosamente affidata al doppio attacco rock n’ roll di Yobo (letteralmente “teppista”) e Combat Rock.

I'd Rather Cut Cane For Castro è l’ennesima tirata contro il governo (your government sucks!), scandita dal passo belligerante del basso di Avery e dal voltaggio delle chitarre: meglio lavorare nelle piantagioni di canna di Fidel piuttosto che sottostare alla logora monarchia; non scandalizzatevi, è solo una provocazione… Factory Canteen News è un pezzo da autunno piovoso in tempo di crisi, ben arrangiato, molto blusey, che mette da parte per un po’ rabbia e violenza in favore di un disteso e malinconico assolo di Knightsbridge. Hammersmith Guerrilla è il testamento artistico del gruppo: procedendo a passo di marcia e bizzarramente arrangiata per sezione di fiati da Jim Price, ribadisce l’attacco alla Casta. Ci sono pochi compromessi nel grido di Stamp: “Get up and fight!! …



I’ve got just the thing for you, a real cop beater

A sawn-off twelve-gauge, five-shot repeater

Get your arse along down to Hammersmith town

Join the urban guerrillas, take up arms against the crown.

Ho quello che fa per voi, un vero manganello da poliziotto
Una calibro 12 strappata via, un’automatica a cinque colpi
Muovi il culo giù per la città Hammersmith
Unisciti alle guerriglie urbane, prendi le armi contro la corona.





LA FINE DELLE OSTILITA’

La pubblicazione dell’album, così come la sua produzione, incontra diverse difficoltà e mille ritardi, tanto che nel frattempo la band si disunisce e Stamp torna dietro al volante del suo camion. La Track distribuisce l’album in Inghilterra solo all’inizio del 1973 solo grazie all’interessamento diretto di Pete Townshend; bel gesto da parte del chitarrista che proprio in quel momento aveva in uscita un album, Who’s Next, assai “revisionista” sul considerare Rabbia e Violenza come “La Soluzione” (I don't need to fight To prove I'm right, Baba O’Riley); un’ammissione dolorosa considerati i trascorsi del gruppo.
Ma per i TWW, che non hanno ripensamenti e continuano fatalmente sulla loro strada, è tardi. Perché intanto anche Pink Fairies e Edgar Broughton hanno smesso l’attivismo in favore di un sound più levigato che strizza l’occhio alle radio, mentre gli Hawkwind, nonostante un bel singolo del 1973, Urban Guerrilla, sono definitivamente dispersi nel cosmo, impegnati a diventare i Grateful Dead d’Inghilterra; ci riusciranno. Il mainstream dell’epoca poi è imperforabile, conteso tra le bizzarrie intellettuali di Prog e Glam, il “machismo” Hard e i disperati tentativi dei grandi vecchi di non mollare il colpo. Dopo una timida prova di ripartenza, i TWW si sciolgono definitivamente, anche perché Terry Stamp vuole i soldi in anticipo, altrimenti tanto vale guidare camion, visto che lì almeno la paga è sicura. La sua diventerà una carriera musicale alquanto discontinua e disinteressata, tra America e Gran Bretagna.
Non mancheranno, in epoca punk e hardcore gli attestati di stima di Steve Albini, Joe Strummer e Henry Rollins. Jello Biafra dei Dead Kennedys dedicherà al gruppo una pagina di Incredibly Strange Music Volume II : “They were a ‘70s band from England who had much more of a raw garage-y tone than most bands of their day – as powerful as the Pink Fairies. What set them apart was their political angle: as left-wing, Communist working-class brawlers”.
Poca roba dopo tutto…specie se paragonata al rango di “Superstar Cult” che oggi sono MC5, Stooges e anche Pink Fairies. Può far piacere pensare che si tratti di una congiura capitalistica ai danni del camionista proletario… ma più probabilmente il fatto che i TWW non siano MAI riusciti a piazzare un album in classifica, nemmeno un misero singolo nella topo 200 di Billboard, spiega già tanto. In un modo o nell’altro Kick out the jams arrivò al n°30 in USA e Iggy Pop trovò la gloria come giullare preferito di Bowie; perfino i Pink Fairies centrarono le chart con What a Bunch of Sweeties e la provocatoria Portobello Shuffle.
Il fatto che ognuna delle canzoni di Stamp non avrebbe sfigurato su London Calling è consolazione da poco. Oggi, tanto Allmusic nel suo mastodontico database, quanto il prode indipendente Piero Scaruffi nella sua storia del rock, non dedicano una riga al gruppo.
I loro unici due LP sono stati ristampati dalla Repertoire a metà degli anni ’90.










Neil Young: Rust Never Sleep


Un tramonto colore della ruggine

Sul tramonto di un’epoca

Sono passati oltre 30 anni da quando, nel luglio 1979, usciva Rust Never Sleep, album a firma Neil Young & Crazy Horse. Live mascherato da incisione ufficiale, la scaletta propone canzoni che il cantautore canadese già da circa un anno portava in tour e che sarebbero state riconfermate sul doppio successivo: Live Rust. Erano quelli anni di vitalità intensa culturale e sociale, specialmente in Inghilterra, ma per motivi diversi anche in altre parti del mondo (Italia inclusa). In musica assistiamo al progressivo distacco del Rock da tutto quel pubblico che, nel bene o nel male, ne era stato il destinatario designato nei 20 anni precedenti, che ne aveva celebrato i fasti e spesso perdonato le miserie, a partire da Maybelline e Blue Suade Shoes, passando per il Mersybeat, la British invasion, le Summer of Love e mille altre tendenze anche solo d’un’estate. I mitici gruppi della prima generazione o erano già scomparsi, sepolti dal tempo o dalla terra (Beatles, Byrds, Hendrix …) o apparivano ormai troppo vecchi (non solo anagraficamente) per poter essere credibili (Stones, Kinks, Grateful Dead …): non è facile presentarsi sul palco quando per tanto tempo si è sentenziato che con il rock difficilmente si superano i 30 anni; dal canto loro artisti sorti successivamente, di seconda o terza generazione, erano a tutti gli effetti e da entrambe le parti dell’oceano, borghesi miliardari e pieni di paranoie, contenti della loro decadenza, insensibili al passare del tempo (Led Zeppelin, Genesis, Bowie …). Fu facile quindi per nuovi generi inserirsi negli spazi lasciati vuoti dal “vecchio” rock, intercettando quelle fasce di pubblico che difficilmente si riconoscevano negli eroi d’un tempo. Il punk, il più sbandierato, ma anche la musica disco, la New Wave, il nascente Heavy Metal (NWOBHM), addirittura le prime rime Hip Hop fanno la loro prepotente comparsa sul mercato discografico sempre pronto ad accettare inversioni radicali, in cambio di buone previsioni di profitto. Dal canto loro Roland, Sony e Philips giocano un ruolo di non minore impatto sul versante tecnologico con la commercializzazione dei “sequencer”, del Walkman e del Compact Disc, che segnano una virata decisa sia nel sound che nella produzione e distribuzione discografica.

Neil Young, voce critica (ove non polemica) e spesso fuori dal coro già dai primi anni ’70, non poteva esimersi dal gettarsi nella mischia di un simile ribaltamento sonoro, per analizzare, lanciare accuse o spiegare più semplicemente che è solo attraverso il cambiamento che possiamo migliorare. O sopravvivere. Rust Never Sleep, LP bifronte, una facciata puramente acustica, l’altra elettrica fino all’estremo, è impregnato del tempo in cui ha visto la luce: Young cita Presley, Johnny Rotten, i suoi vecchi compagni della West Coast, il mondo Indiano da Marlon Brando a Pocahontas, si ispira ai Devo per My My, Hey Hey; in una rete di riferimenti e suggestioni che traggono linfa direttamente dall’attualità, proprio nel tentativo di spiegarla o almeno di tracciarne il percorso o tentare previsioni. Senza dimenticare l’aspetto musicale che gli garantirà canzoni destinate a rimanere in scaletta e repertorio fino ad oggi. Lo accompagnano i Crazy Horse con cui Young ha sempre prodotto le opere migliori: Ralph Molina alla batteria, Billy Talbot ancorato al basso e Frank “Poncho” Sampedro alla chitarra ritmica, i cui intrecci con la solista grezza e voluminosa del leader definiranno un sound che dieci anni dopo verrà chiamato “grunge”. Un legame quello con la musica di Seattle molto più fisico, addirittura drammatico, di quanto potremmo pensare. Che aggiunge ad un disco già ottimo uno spessore e un’aura quasi profetica. Delle nove trecce, tutte molto belle, che esibiscono un suono senza compromessi tra il dolce folk west-coast e l’aggressività in stile Stooges, alcune aiutano a sviscerare le ragioni e gli effetti di un’epoca che cambia, di un’avventura che si trasforma; in cui c’è bisogno di piedi che camminino avanti, ma con lo sguardo a tratti rivolto indietro. Come alla fine di una meravigliosa era glaciale mesozoica, al tramonto della quale i non pochi che vissero un tempo restano immobili ma sfolgoranti "like the dinosaurs in shrines".



Trashers - Quel che resta delle illusioni



E’ raro che una sola canzone riesca a riassumere lo spirito di un’epoca, cogliendone in sintesi le immagini e le idee portanti, i fallimenti o le false profezie; rivolgendo allo stesso tempo uno sguardo disincantato ma sorridente e non retorico a chi si era smarrito cercando qualcosa che gli era stato promesso. Uno zeitgeist rievocato senza rancori, dopo avere smaltito la rabbia e assimilata la sbornia di eccessi, come succede l’autunno dopo l’esame di maturità, o quando si firma il primo contratto di lavoro, dopo una festa di laurea con i compagni di un tempo. Come la fine degli amori e delle passioni di una sola estate, prima del monsone che porta la pioggia.

Neil Young esplora questi territori in “Trashers”, epitaffio al decennio che si concludeva. Una canzone di nostalgie e rimpianti metabolizzati, che lasciano un sorriso triste sul volto di chi è rimasto, anzi di chi non si è fermato e ha deciso di continuare il viaggio. Si era partiti tutti assieme, alla fine dei ’60, “nascosti dietro ai covoni di fieno”, seminando alla luna e dando tutto per “qualcosa di nuovo” (They were hiding behind hay bales, They were planting in the full moon / They had given all they had for something new), in uno sfondo pastorale da percorrere a piedi scalzi, cercando di trovare la propria “ora di sole”. Eppure, a posteriori, appare facile scorgere che il “mostro” non è al di fuori (come cantavano gli Steppenwolf nel bellissimo Monster, 1969) ma era già dentro al “campo”: l’immagine delle trebbiatrici, che falciano gli uomini e i loro ideali è forte e concreta. La strada della droga, del sesso libero, della rivoluzione culturale si era arenata e inaridita, non era sopravvissuta alla fatua estate californiana; dopo il ’67 sarà piuttosto il momento della lotta, anche violenta; per provare con la forza a cambiare un mondo statico ma estremamente solido. I primi anni ’70, visti adesso, rappresentano la più scottante sconfitta di chi avrebbe voluto rimanere per sempre giovane, costruendo una società migliore. Fu indubbiamente un fantastico fallimento. In tanti rimasero sul campo, in tanti i dispersi (I searched out my companions, Who were lost in crystal canyons /When the aimless blade of science Slashed the pearly gates). Difficile azzardare un elenco dei personaggi in questione: sicuramente i vecchi amici Crosby, Nash, Stills, ma inevitabilmente anche  Danny Whitten, primo carismatico chitarrista dei Crazy Horse, morto nel novembre 1972 per overdose; e Bruce Berry, roadie di Young e deceduto anch’esso qualche mese più tardi a causa dell’eroina. A questi “lost” il cantautore aveva già dedicato il funereo Tonight's the Night, registrato nel 1973 e pubblicato due anni dopo; ma in Rust never sleep il tempo ha agito sedimentando la serena rassegnazione e la matura consapevolezza che sostengono “Trashers”. 
Ognuno ha una sua lista di dispersi nel canyon di cristallo, la musica rock ha allineato una lunga fila di bare dietro di sé: They were lost in rock formations / Or became park bench mutations /On the sidewalks and in the stations /They were waiting, waiting. Non tutti compresero che forse addirittura ad Altamont, nel lontano 1969, le cose cominciarono a precipitare: quando Meredith Hunter fu ucciso tra il pubblico del concerto, Woodstoock, il grande raduno che 4 mesi prima aveva promesso la redenzione per una nuova società, sembrava appartenere ad un’epoca antidiluviana. C’è del vero quando Lester Bangs nel film di Cameron Crowe “Almost Famous” sostiene che 1973 il rock è ormai morto e sepolto. L’età dell’innocenza, l’adolescenza di una generazione sono scomparse, lasciando il posto al marketing nascente e alla divinità del profitto. Il tempo non fa sconti, a tutti noi, come ai presunti miti della musica e dello spettacolo. Perfino i vecchi hippy di San Francisco sono nascosti nelle comuni di campagna, lontani dalla città e dalle sue luci; i Greatful Dead e i Byrds sono addirittura patrioti del Country stile Nashville.
Ma allora cosa fare? Non resta che continuare a camminare, “spendendo tutto in benzina” e lasciandosi dietro quello che ormai è un peso inutile. Dove c’era “l’ansa del fiume” ora c’è “una curva d’autostrada”, forse quella stessa che Jim Morrison percorreva come “cavalcando un serpente” (Ride the snake, ride the snake) : proprio lui, uno dei pochi che aveva ben capito dove terminava la strada. Ma è vietato fermarsi al “motel dei compagni perduti”: questa è forse l’immagine più vivida che il testo di Young ci propone, vissuta con nostalgia, forse anche con un po’ d’invidia di chi ha avuta follia o coerenza di vivere il sogno fino alla fine, di chi ha fissato le trebbiatrici in faccia fino all’ultimo momento. Possiamo visitarlo noi però, è ospitato nel bellissimo sito di Drive Magazine, all’indirizzo http://www.drivemagazine.net/hbho.html dove in modo assai elegante sono ricordati tutti i martiri all’altare del rock e della sua religione infantile.
Un altro “solco” è tirato nel campo del tempo; un altro anno passa. Un altro ancora. Chi non muore, cresce, chi cresce, matura, e prima o poi trova una ragione per darsi pace. Tutti noi abbiamo amici persi senza sapere perché; abbiamo un età, un giorno, un solo momento che volevamo infinito, che invece non tornerà più. Trashers, e per esteso tutto Rust Never sleep, sono un compendio ragionato su una civiltà e il suo prematuro tramonto. E nello stesso tempo la cronaca di una nuova nascita. Ancora una chitarra, ancora il suono di un’armonica; presto, bisogna ripartire!
Scrive Hunter S. Thompson in Fear and Loathing in Las Vegas<< C’era follia in ogni direzione, a ogni ora. Potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo... E quella credo era la nostra ragione d’essere, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso militare o violento: non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo cavalcando un’onda altissima e meravigliosa... Ora meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina di Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea, quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro.>>


Powderfinger - La perdita dell'innocenza


Gioco a carte scoperte. Non pretendo di fornire un’analisi letteraria del testo di una canzone; si correrebbe il rischio di trattare come alta poesia i pensieri confusi di qualche ventenne fumato. Però il bello dell’arte è che quando è illuminata, acquista una vita propria, che va anche molto oltre i meriti e le intenzioni del suo autore, specialmente quando il pubblico la raccoglie, la condivide e non ne perde la memoria. Con questa premessa voglio mettermi al riparo, perché il significato di questa canzone lo conosce forse solo il suo autore. Ma non vorrei limitarmi a considerazioni superficiali e quindi buttiamoci in una traccia d’analisi che sicuramente è apocrifa e non verificabile, ma mi ripeto: il bello di certa musica è che trascende le intenzioni e il valore dell’autore, vive una esistenza propria, e a lei solo bisogna rendere conto. Se poi sarà sorpassato qualche limite, i lettori più attenti, sono certo, me lo faranno notare. Per chi volesse approfondire ulteriormente la genesi e la contingenza del brano rimando al variegato mondo di internet, specialmente al sito http://www.thrasherswheat.org. In questa sede ammetto che interessa più l’opera che l’autore.
Nel “canzoniere” di Neil Young c’è sempre stato uno spazio speciale per il mondo delle Americhe precolombiane, dagli Incas a Toro Seduto. L’album Zuma fu addirittura un “concept” sull’argomento. Qualcosa che storicamente va anche molto più indietro rispetto all’idea di frontiera o di ”epopea americana” cara ad altri (cant)autori. Per Young, come in un film di Terrence Malick, questa fase storica coincide con una sorta di età dell’innocenza dell’uomo, una fase di comunione con le divinità e con la natura che, individualmente e trasversalmente lungo la linea del tempo, corrisponde anche alla giovinezza di ognuno di noi. In Rust Never Sleeps tre canzoni  del lato A ci descrivono questo mondo: Pocahontas, Ride my Lama, e Sail Away: bozzetti acustici e sfumati sospesi in un aura di meravigliato stupore per il Creato.
Poi arriva Powderfinger.
La musica diventa elettrica e tracima di una carica fisica ed emotiva straordinaria. Con un enorme bagaglio di drammaticità intrinseca, nel tono della voce, nel timbro degli strumenti a anche in certi espliciti passaggi del testo. Il titolo si riferisce ad un vecchio tipo di fucile da epopea western-coloniale; il resto della canzone parla di giovinezza e morte, della fine dell’amore disinteressato e dell’ingenuità di un’età che non conosce il peccato come atto premeditato. La scena si apre sulle sponde di un fiume, su cui arriva inaspettata eppure fatale “una barca bianca, con un grande faro rosso”;  il racconto è vissuto in prima persona dal giovane protagonista, i cui timori, le cui paure diventano anche le nostre (Cause it don't look like they're here to deliver the mail / And it's less than a mile away / I hope they didn't come to stay).  Padre e fratello sono lontani a caccia, questa volta bisogna cavarsela da soli, o almeno provarci, cercare una soluzione, fingersi adulti: uscire allo scoperto, fino a sporcarsi le mani col sangue, se necessario. Così è un fucile che ci rassicura, rispondiamo con la violenza anche se non ne siamo del tutto sicuri: ci chiediamo il perché, ci chiediamo se mai sarà giusto, se non ci siano altre soluzioni. Quest’intreccio di armi incerte, quasi una “Guerra di Piero” formato yankee, descrive lo stesso indugiare fatale di chi fa appello ad una coscienza che non può tacere. Raised my rifle to my eye / Never stopped to wonder why. /Then I saw black, / And my face splashed in the sky. Questa incertezza, questo chiedersi perchè; si insinua come un elemento di colpa: se avessimo sparato prima? Se non ci fossimo fermati a riflettere? Invecchiare, o meglio, lasciarci alle spalle quella giovinezza e quell’innocenza che non tornano, può allora anche essere una colpa, oltre che una inevitabile legge del tempo ? (another line in the field of time, per dirla con Trashers). Smettere di lottare per i sogni, smettere addirittura di sognare: non è solo una fase della vita, ma una autonoma decisione. La canzone arriva a questo punto dispiegando tutta la sua (ottima) retorica da ballata elettrica, allineando due assoli coi nervi a fior di pelle di Young che sono tanto sgrammaticati e tecnicamente poveri quanto strabordanti di un’energia “morale” e di feeling pazzeschi, esibendo il timbro bollente della Gibson del solista e il sound, altrettanto bollente, dei Crazy Horse che lo accompagnano.
Shelter me from the powder and the finger / Cover me with the thought that pulled the trigger / Think of me as one you'd never figured / Would fade away so young / With so much left undone: è il climax del brano, un’ invocazione a cui si aggiungono anche “Poncho” Sampedro e Molina, per un finale realmente emozionante. Tutti ci siamo lasciati dietro una scia di cose non fatte, di idee mai sviluppate; pensiamo di avere tempo ma una mattina arriva una barca bianca, carica di uomini armanti, che stroncano ogni proposito di libertà individuale; allora abbiamo bisogno di protezione, abbiamo bisogno di aiuto; shelter me, perché qualcosa è stato perso e non ritornerà. Tutti ci siamo lasciati dietro qualcosa; Neil Young è stato testimone, ma anche giudice e imputato, di una generazione sterminata sul far del giorno come gli Indiani all’arrivo dell’uomo bianco. E come tutti gli artisti conosce anche un’ altra perdita: quella che ogni musicista, che ogni scrittore o pittore sperimenta quando è costretto a inventarsi un giusto compromesso con il produttore, l’editore o il gallerista di turno: non si può fare altro che perdere un po’ di sé, un po’ della propria identità. Perché anche (soprattutto) la musica procede per mediazioni, trascritta e tradotta da tante mani, da cui a volte ne esce tradotta o tradita, se non trasfigurata. La musica che diventa solo prodotto di mercato perde la sua innocenza originaria, qualcosa che non torna. Come i sogni e gli sguardi e gli amori di un’adolescenza troppo breve. Rimane il ricordo: di un tempo lontano, di un sospiro interrotto; che sappiamo ci mancherà per sempre.


My my, Hey hey - Nuovi eroi, vecchia mitologia 

Quasi una filastrocca, una ninna nanna per cronici insonni o dormienti inconsapevoli; la canzone che apre il disco con il suo inconfondibile giro acustico per chitarra e armonica (Out of the Blue), lo chiude con una marcia elettrica e funebre da inno della IV 4th Panzer Division (Into the Black). Il disco ritorna là da dove era partito, ma lo fa con il timbro cupo e pessimista del basso di Talbot e delle chitarre di Young e Sampedro; ciò che inizialmente pareva un vento fresco diventa autunno profondo e premonitore. Young condensa l’essenza (o la vacuità?) di oltre un decennio di musica rock assumendone i punti temporalmente estremi come pietre miliari di una strada ancora non esaurita: Elvis Presley e Johhny Rotten sono LA partenza e UN arrivo (uno dei tanti possibili, in realtà) di un percorso che ha preteso e tuttora pretende i suoi sacrifici: il re è morto, evviva il re!  (The king is gone but he's not forgotten). Ma, ci mancherebbe, il rock non morirà mai, perché è meglio bruciare in fretta che consumarsi lentamente (it's better to burn out than to fade away). Su quanto lo stesso Young credesse a quest’assunto è lecito interrogarsi: del resto il cantautore canadese nel ’79 era in pista già da circa 25 anni … (per tacere del tanto che avrebbe prodotto tra il ’79 ed oggi). Sicuramente un suo futuro discepolo, in realtà apocrifo, Kurt Cobain, prese l’affermazione tanto sul serio da riportarla nel suo estremo messaggio d’addio: fu un commovente atto di devozione alla musica, forse, o una colossale travisazione; senza dubbio il nuovo martire di Seattle fu personaggio più sincero di tanti che lo circondarono. Eppure se la morte è cambiamento, sicuramente Young ha centrato il bersaglio con la sua altalenante cantilena: il rock non morirà mai, ma è destinato alla mutazione per salvarsi, proprio come un essere vivente che lotta contro la selezione darwiniana. Come sono lontani i tempi di Five to One, in cui Morrison poteva declamare They got the guns But we got the numbers; ormai anche il numero non è più dalla nostra parte. Così bisogna trovarsi nuovi habitat, Out of the blue and into the black, uscire dal blu per entrare nel nero: due colori che nella storia breve della musica popolare son ben più che tinte di vernice, da Kind of Blue a Paint it Black. Due concetti, prima che colori, due stati d’animo, forse due stagioni della vita di tutti: più metaforicamente, con ermetismo dichiarato, si preannuncia (o si ribadisce, visto che il brano apre e chiude il disco) ciò che in Powerfinger era allegoria: la perdita di un’innocenza, l’adolescenza che drammaticamente diviene maturità e dunque comprensione. Comprensione anche dei propri sbagli, delle proprie battaglie perse, che si riscattano e si perdonano solo se combattute con sincera inconsapevolezza giovanile. Ma non tutto si può salvare e sul campo di battaglia restano i morti (Elvis, Kobain) e i dispersi (lost in Crystal Canyons), così come nella vita ci restano i rimpianti o il rammarico per ciò che non è stato fatto o che non si è avuto il tempo di finire, and once you're gone, you can never come back; ormai è troppo tardi per un rimedio.

Dalla mutazione non si torna indietro; ma, hey hey, ne vale la pena, anzi è indispensabile. Non preoccupiamoci: un nuovo pubblico è pronto a celebrare nuovi fasti e dimenticare nuove miserie!


1 commento:

Unknown ha detto...

Monografie davvero ben fatte e curate! Ti lascio l'indirizzo del mio blog, spero ti piaccia: http://raisedonmelodies.blogspot.it/
Ciao!

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...