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lunedì 21 settembre 2015

Mostri in Paradiso (riletture)



Non hai visto in Mostri in Paradiso?”
Spread, default, debito, Tsipras, filo spinato, ISIS, presidenti non eletti.
Sono piombati dal nulla a distruggere le torri del potere. Ricacciandoci indietro nel tempo.
Questi mostri in Paradiso sono una delle immagini più forti e misconosciute emerse dal rock britannico. La copertina elaborata dallo studio Hipgnosis per il debutto dei Quatermass ha acquistato, oggi, un’aura mistica.
Quegli pterosauri plananti tra le torri di vetro sembrano un presagio sinistro del 11/09, quando la preistorica violenza terroristica planò tra i grattacieli di New York, ricacciando i governi nell’oscurantismo medioevale di crociate e jihad.
Ma i Mostri non se ne sono andati dal nostro vecchio e derelitto Paradiso, sbattono ancora le loro ali rettiliane tra l’avorio dei Palazzi.
Tsipras, filo spinato, ISIS, governi in bancarotta. E prima o poi, i sauri volanti si poseranno finalmente a terra.
Mostri in Paradiso.

La canzone “Monster in Paradise” (Gustafson, Gillian, Glover), già nel repertorio live dei Quatermass e risalente al periodo di fine anni '60 quando Gustafson, Glover e Gillian militavano negli Episode Six, comparirà solo nel 1971 nell’album Bulletproof degli Hard Stuff.

La foto originale della copertina di Quatermass fu scattata a Londra, ai palazzi governativi di Victoria St. La duplicazione dell’immagine restituisce una forte illusione ottica, quasi fosse un quadro Op-Art.

18 luglio 2011


venerdì 5 dicembre 2014

Parlando di Prog con... Stephen Takacsy



Se un blogger come il sottoscritto ha ancora materiale da spulciare, ascoltare e studiare lo deve anche ad una rete capillare costituita da piccole etichette specializzate nella ristampa di vecchi LP rari, magari snobbati dalle major. Le americane Gear Fab e Syn-Phonic, l'italiana Akarma, la vecchia e gloriosa Repertoire. E la ProgQuebec, label specializzatissima nelle riedizione di rock progressivo franco-canadese.
Quella di queste etichette di nicchia è una mission a suo modo anche "sociale", un aspetto a cui mai avevo pensato e che ha sottolineato Stephen Takacsy, fondatore della ProgQuebec - che ringrazio - a cui ho rivolto qualche domanda via mail.
Domande banali, lo ammetto, fatte per sondare il contesto geografico e musicale del Quebec negli anni '70 e pensate per ottenere qualche spunto di ascolto e riflessione.
Ecco cosa ho imparato...



Perchè questa passione di un tutta una generazione (o forse più…) di musicisti per il progressive rock?

La maggior parte dei musicisti del Quebec negli anni '70 ha frequentato ottime scuole di musica locali come la Vincent D'Indy e Le Conservatoire, e sono diventati artisti “classici” davvero abili.
Così, quando la "British Invasion" è arrivata sulle radio e sulla scena concertistica, ha dato l'ispirazione a scrivere musica rock che incorporasse anche la sfida di complessità della musica classica. I musicisti del Quebec sono in effetti molto talentuosi.


Il rock progressivo britannico ha certamente avuto un impatto importante sulla scena in Quebec. Quali sono stati i gruppi, gli album, le performances che più hanno influenzato lo sviluppo del Quebec prog?

I principali gruppi inglesi che hanno influenzato i musicisti in Quebec sono stati Yes, Genesis, Gentle Giant, ELP e King Crimson.
Questo stile, integrato con musica tradizionale "Quebecois", il folk, la musica classica e anche un po' di blues e jazz americani, ha contribuito a creare un melting pot di generi che, mescolati insieme, ha prodotto alcuni dei più singolari, complessi e bei sound mai incisi.
Dai più “rock-based” Morse Code, agli ornamenti classici dei Maneige, che in seguito si sono evoluti in uno stile maggiormente jazz, alla fusion Zappa-esque degli Sloche, al heavy-blues degli Offenbach o la “funky-ness” di Toubabou o Contraction e l'elettronica di Dionne-Bregent: la musica progressive in Quebec ha avuto davvero tutto.
La Ville Emard Blues Band, composta da circa 30 musicisti, incarna perfettamente questa realtà.


Il contesto politico e sociale, il sentimento diffuso di "nascita" e di fondazione di una nuova nazione che è seguito al periodo della "Quiet Revolution" ha influenzato in qualche modo l'esperienza musicale?

Probabilmente lo ha fatto, in una certa misura. Sicuramente ha dato un’ispirazione artistica a scrivere un certo tipo di canzoni e ha aggiunto emozione alla musica. Ed ha fatto sì che le canzoni fossero scritte e cantate in francese, cosa che era una rarità fino al 1970. Dionysos ed Offenbach sono stati tra i primi a farlo.
Inoltre, ci sono state molte più opportunità per questi gruppi di esibirsi dal vivo, specialmente all’ annuale festa di St-Jean Baptiste a Mount-Royal verso la metà degli anni '70.


La ProgQuebec ha come “mission” di fornire informazioni e soprattutto commercializzare la musica prodotta dai gruppi rock di lingua francese. Cosa rimane oggi dell'esperienza delle band degli anni '70 e quanto è importante mantenerne la memoria e la presenza sul mercato?

Questo rock è una parte importante del patrimonio musicale dell’ epoca del “baby-boomer” in Quebec. È stata la musica pop della mia generazione, è stata continuamente suonata dalle radio negli anni ‘70, ed era sul punto di scomparire per sempre, poichè molte etichette discografiche di quel periodo sono andate in bancarotta, mentre le major non erano interessate alla riedizione di questi album, in quanto prodotti non remunerativi.
Così la nostra missione è diventata, in primo luogo, di preservare questa musica, quindi di ripubblicarla in maniera legale, dando uno stop alla pirateria, in modo che le future generazioni possano ascoltarla.
Ad oggi abbiamo versato agli artisti oltre 100.000 dollari in royalties. Con il risultato che si è rivelata una missione anche sociale, avendo aiutando alcuni di questi musicisti finanziariamente. Sono tutti molto soddisfatti del nostro lavoro.



I dischi della ProgQuebec sono facilmente reperibili, su Amazon, su Discogs, E-Bay, su tutti i principali rivenditori online e in qualche caso anche su Spotify. Non costano nemmeno troppo... sicuramente meno delle nuove edizioni deluxe-remaster-expanse di album che avete già sentito 1000 volte e che conoscete a memoria.


Poi siamo chiaramente tutti liberi di scegliere se mettere sul piatto per la cinquecentotrentasettesima volta Aqualung oppure, per la prima, La Marche des Hommes...

lunedì 25 agosto 2014

Psycho-pills su Spotify (cercando altro)



Battendo il web alla specifica ricerca di “altro” - prog americano, nella fattispecie - è fin troppo facile imbattersi in rottamature del passato, nuovi nomi del mondo alternativo, vecchie glorie che non abdicano al tempo.
Sintetiche, sinteticissime prime impressioni di quanto potete incontrare setacciando, casualmente e senza meta, la rete.


Black Pistol Fire



Con tripletta di LP: Omonimo (2011) Big Beat ’59 (2012) e Hush or Howl (2014)
A prima vista scatenati blues-tamarri tex-mex alla corte di Eric Sardinas, ma più alternativisti e low-fi e quindi discepoli invasati degli ovvi Black Keys prima maniera (tra 20 anni forse si potrà ben valutare la reale portata di Auerbach, magari anche di fronte alla scomparsa dalla memoria dei White Stripes). Del resto coppia pure loro (canadese) e - del resto - quando una canzone si intitola Jezebel Stomp qualche motivo per sbattere in giro la testa ci deve poi essere... Sort me Out è addirittura sfacciata nella copia carbone del duo di Akron.
Big Beat '59, già un titolo che attinge al primordiale, spiana un beat veramente troglodita, riduce il numero di brani (bene), ne riduce pure il minutaggio (bene, se vi piace così),  inserisce qualche malsana tonalità da mariachi rock (Beelzebub) e qualche ronzio in più negli strati di accompagnamento desertico, con slide obbligatoria (Crows Feet). Roba da motociclisti debosciati in stile Sons Of Anarchy. Lamentatevi!
Il terzo LP finge di complicare un po' la rifferia, ma è poi sempre la stessa roba di contrabbando al mercato nerissimo del garage blues, più cinetico e cromato degli esordi, questo sì.


The Stone Foxes



Ancora tripletta: omonimo, Bears and Bulls e Small Fires. Americani di San Francisco, mica scherzi.
Iniziano in un juke joint indie, quasi agreste, anzi addirittura campagnolo, con certe rozze leccate di slide e armonica che neanche nella contea di Hazzard. Sul primo album ci sono titoli ingombrantissimi come Rollin’ and Tumblin e Spoonfull, risolte con amichevole menefreghismo, ma anche tortuosità acidule come Take a Breath e ballatone slow. Menzione per la jammona ustionante di Under the Gun, 7 minuti di Power Trio confederato e Larsen a valanga.
Bears and Bulls (2010), che si avventura in un naturale glam-stomp mica male, si arrischia perfino di un titolo come I Killed Robert Johnson, una murder ballad a 320 volt. Poi rollingstonismi assortiti, un po' di iperboogie cannedheattiani, il solito tributo alla tradizione (Little Red Rooster) compiti ben svolti ed un eloquio sempre educato e a volte troppo rispettoso (Mr. Hangman a parte, che potrebbe essere un Lester Butler in stato di grazia...). Restano, per fortuna, gli echi acidi della Frisco che fu (Reno, bella).
Su Small Fire (2013) solo 10 brani (ottimo), che lasciano le campagne per urbanizzarsi in un funk cittadino, costruito da un sound maturo, voluminoso nello spessore, a colonna sonora di un notturno poliziesco e revivalista. Vicini agli ultimi B.R.M.C, con qualche afflato sognante e una pericolosa tendenza melensa che pur salvano sempre in corner. Copertina pulp di straniamento hollywoodiano, tra Hipgnosis e Strange Days.


Grodeck Whipperjenny



Album omonimo, anno 1970.
Psycho-funky spaziale e distorto, dal sound fantasioso ed imprevedibile. Progressivo nelle intenzioni, funkadelico nei risultati, come dei Love furibondi per le strade più rissose di Detroit. Furono backing band di James Brown. Conclusions è un nero strumentale con intro per quartetto d'archi, ma occhio a Put Your Thing On Me: devastante assolo di chitarra ultra fuzz che smitraglia raffiche di black pulp nel midollo del più cool dei pusher. Fantastico! Evidence Of The Existance Of The Unconscious è inedito black prog strumentale e morboso, tra Hysaac Hayes e Quatermass.


Thee Image

Due album: omonimo (ma vè…) del ‘75 e Inside The Triangle, sempre ‘75.
Soft rock da west-coast di secondissima generazione, mescolato a sensuale slow funky da nightclub, rilassato sulla spiaggia di Venice e senza pretese di trionfi internazionali. Nel trio c’è pure il buon Mick Pinera, che dopo Blues Image e Iron Butterfly, sa il fatto suo in fatto di latineggianti colate di Fender (Temptation). Secondo album più robusto e rockettaro.
Prodotti dalla Manticore, label di proprietà di ELP, per cui negli stessi anni suonava pure la PFM; strani incroci.


Joe Henry

Invisible (2014) cioè l’ultimo album; solo questo perché il personaggio merita ben altro approfondimento.
Lo immagini nella penombra di una stanza d'albergo al crepuscolo di un Mardi Gras anni '20. Uno spleen dal sapore di sano eroismo piccolo borghese (bianco, indubbiamente), che affonda le radici nel cuore stesso della Grande Canzone Cantautorale Americana, dal Bob nazionale al primo Tom Waits fino ai Grandi Disillusi sulle soglie del millennio: i Kozelek, gli Eitzel.
Classe da vendere, Sign (in crescendo di epico abbandono), Alice e Swayed da ascoltare. La riscoperta di un “segno folk” arricchito da orchestrazioni minime ed eleganti, mai appariscenti, che meditano sulla profondità nascosta nelle cose semplici. Traccia di un blues dell'assenza riempito da un country jazzato da settimane astrali, di sincera nostalgia.
Tante penne non sospette ne scrivono; a ragione.


Mystic Braves

Due album tra il ‘12 e il '14 (fa impressione scritto così, eh?)
Il primo, omonimo, si apre con Mystic Rabbit, tanto per ribadire il concetto di rosicchiatori mistici a piede libero. Un juke-box distorto da estati anni '60 riparato da un vetro giallastro di revivalismo stile Barracuda; chitarre western piene di riverberi e miraggi di 13th Floor, Quicksilver e pigrizie doorsiane (Strange Lovers). Un pop pulsante come facevano Bryan MacLean e Arthur Lee privi di ispirazione, copertine di colorati mandala appesi alle porte chiuse del Fillmore. Esordio bello ma monocorde (Please Let Me Know, brit-pop risuonato da qualche sballato psicotico texano della International Artist) che fluisce senza salti come un unico eterno brano di 3 minuti, ciclico e riflesso da 1000 specchi.
Desert Island (2014) si scuote dal torpore ipnotico e non rinnega certo il passato, aggiungendo qualche logica (e timida) linea di Farfisa da Ventures spaziali. Personalità rinvigorita da qualche assolo azzeccato, songwriting più multiforme, dal vago sapore spagnolesco, vocalità rivedibile, produzione ancora un po’ piatta. Bello il surf di Valley Rat e la sarabanda virulenta di Born Without a Heart.

Un pomeriggio di stordimento fumoso su un morbido e oppressivo divano psichedelico. Poi correre all'aria aperta, spalancando finestre e sperando nella pioggia.

giovedì 19 giugno 2014

Sommersioni di U.S. Prog – Volume 1


Il prog sommerso statunitense è un curioso ponte incerto ed ondeggiante, gettato dagli ultimi spasimi acidi alle grandeur AOR, passando per mille tentazioni hard, folk, jazz. Più caotico e disorganizzato della controparte britannica, vanta però una carica, perfino una violenza, tutta americana e mascolina ignota alle prelibatezze europee. Non mancano i barocchismi esasperati, gli stucchi rococò, le inutili sperimentazioni e le pietose auto indulgenze, ma c’è sempre qualcosa di divertente e piacevole, pur nelle suite più esasperanti.

Un viaggio coloratissimo, da oceano ad oceano, lungo le solite traiettorie (da New York a Detroit, passando per l’Ohio) con l’apparente defezione della California e un buon contributo dalle province più remote.

giovedì 5 dicembre 2013

When the revolution comes


When the revolution comes
Jesus Christ is gonna be standing on the corner of Lennox Ave and 125th Street trying to catch the first gypsy cab out of Harlem, when the revolution comes

Poeti, musicisti, attivisti, rivoluzionari, “MC” senza microfoni, newyorchesi. Neri. Last Poets.
Abiodun Oyewole, Omar Ben Hassen, Jalal Mansur Nuriddin si incontrano spesso all’incrocio tra Lennox Avenue e la 125°. Mettono in ritmo, più che in musica, le loro rime.
Non si parla di sesso, né d’amori finiti o ragazze dei sogni. Si parla di società, di politica, di razza, razze e razzismi. Di diritti. Lo si fa in un modo che 20 anni dopo abbiamo chiamato hip-hop. Non ci sono chitarre, pianoforti, mellotron né sezioni d’archi. C’è il battito delle mani, la chiamata e risposta tra il solista e il coro.
Per un bianco ascoltare questa musica è sempre spiazzante. Inevitabilmente; ai limiti dell’imbarazzo.
Chi dice il contrario, mente.
Si potrà obbiettare che per chi ascolta, parla, ha ascoltato, scritto e trattato di Ornette Coleman, dell’Art Ensemble of Chicago e di tutta quell’ enorme mole di Great Black Music, potrebbe essere facile sparare qualche sentenza anche in questo caso. Non è così; però certamente anche questa è “Great Black Music” nella pura accezione che ne dava Joseph Jarman.
Ma resta spiazzante.
Come trovarsi nel mezzo di una scena tipo quella in cui Clint Eastwood/Henry Callaghan va ad interrogare  Albert Popwell/Mustapha in “Cielo di piombo ispettore Callaghan”:

-You got the wrong number, boy. We don't deal in violence.-
-What do you deal in?
-Waiting.-
-For what?-
-Waiting for all you honkies...to blow each other up so we can move on in.-

O come nel pranzo che Al Pacino/Tony D’amato offre a Willie Beamen/Jamie Foxx in “Ogni maledetta domenica”:

-Maybe it’s not racism, maybe it’s placism, but the black man still gotta know his place, right, coach?-

venerdì 29 novembre 2013

Vecchi appunti sul Viaggiatore delle stelle



Riemergono dal vecchio quadernetto, sempre rimandati al “giorno dopo” nel mio ultimo lungo periodo di silenzio. E allora tanto vale riscriverle ora, queste due paginette di appunti su uno dei dischi più idolatrati eppure inesplorati di cui sono in possesso.

mercoledì 13 novembre 2013

Danny just wasn't happy


Strana cosa la felicità.
Diresti che i soldi non possono comprarla, che alla fine si trova nelle piccole cose. Ma il mondo è sempre più banale e spietato di quanto ci piaccia credere.
No satisfaction uguale no happiness. E i soldi la soddisfazione te la comprano eccome. Che sia reale, fittizia, chimica o in carne ed ossa.
Forse è vero che “Danny, semplicemente, non era felice”. Altrimenti perché tutto quel valium, quell’alcol. L’eroina. Era il 18 novembre del 1972. Lui aveva 29 anni e in pochi sapevano realmente chi fosse quando qualche giornale riportò la notizia tra le “brevi” nelle pagine interne.
Danny Whitten era un rocker. Quello con i capelli chiari, gli occhi dolci, i folti baffi da cowboy della controcultura. Cresciuto a Columbus, in Georgia, si ritrovò presto in quel di L.A. con qualche embrione musicale per le mani… Con quei suoi amici freak, Billy Talbot e un oriundo portoricano, Ralph Molina, formò un gruppetto di doo-wop: Danny And The Memories. Ma a metà anni ’60 quello non era certo nome dal grande appeal, in più tutta la gente più cool era in viaggio su Maggioloni colorati verso San Francisco. Lì Danny e i suoi amici ebbero vita facile nel riconvertirsi a band dalle ondeggianti movenze psichedeliche. Imbarcati i fratelli Whitsel alle chitarre e il fiddle di Bobby Notkoff, ecco i Rockets, una sestetto tremendamente affiatato, anche se dal sound bastardo, schizofrenico, non sempre in linea con i comandamenti dell’epoca. Eppure andavano forte, tanto che fu Barry Goldberg a produrli per una piccola label indipendente, la White Whale Records.
Succede così che l’album omonimo di esordio diventa un piccolo classico, seppur ignoto, di un genere “indie” veramente ante-litteram. Indipendente, alternativo pure in quell’epoca. Sul gonfio basso di Talbot e il sicuro e robusto mestiere di Molina, Danny compone, canta, schitarra senza freni, accompagnato da violini folk e chitarre semiacustiche, con ritornelli orecchiabili da cantare attorno al fuoco mentre i cavalli si riposano. Avrebbero potuto essere una versione modernista degli Hot Tuna, ma anche una deriva folk del power-pop per antonomasia, quello dei Big Star. E l’avrebbero fatto per primi.

sabato 9 novembre 2013

L’Uomo Selvaggio tra le nebbie del Prog

  
Avete mai attraversato la campagna al tramonta d’autunno? Quando il vento si ferma e dai campi e dai canali sale una foschia galleggiante come il fumo blu di una sigaretta appena spenta? E i contorni degli alberi, delle torri e degli enormi tralicci dell’alta tensione si fanno confusi.
Questo piccolo album attraversa la vasta brughiera dei Baskerville, sempre sulle tracce della Bestia. Senza mai catturarla, intravedendola di sfuggita tra le pieghe di un rock che oggi diremmo dark. Che allora, anno 1970, era un progressive dalle tinte fosche, di quelli che stanno adagiati tra le pieghe della spirale Vertigo e certe rosee etichette Folk della Island. In realtà Volume One uscì addirittura per la Decca e il trio, un classico triangolo chitarra-basso-batteria, dal tetro nome The Human Beast, scendeva direttamente dalla lontana Edimburgo (ma vado a memoria…), tra questi solchi più decadente che mai: basti ascoltare il rumoristico intermezzo di clarinetto su Mystic Man. E se è evidente che il wha-wha esasperato di Buchan insegue certe fluidità funk-hendrixiane, i brani sono più trasfigurati che psichedelici; più sognanti (Naked Breakfast) che lisergici. Addirittura parafilosofici nei loro elaboratissimi titoli, tra cui spicca il fantastico Reality Presented As An Alternative. Ed è pur vero che il pezzo migliore, Maybe Someday, è la cover di un conterraneo fuoriclasse come Mike Heron della Incredible String Band, ma le distorsioni su danza tribale di Appearance Is Everything, Style Is A Way Of Living e le onde d’urto elettrico di Reality Presented As An Alternative testimoniano di uno sciamanismo rock veramente crepuscolare che attraversa tutte le tonalità della cenere per viaggiare senza meta tra un’apparente folk elettrico che non ha paura di virare su sponde più robuste, addirittura hard con Brush With The Midnight Butterfly, fino ad intravedere quel che resta di tante estati dell’amore che sembrano passate da decenni, pur se ancora fisse nelle memorie dei musicisti più come il rimpianto di occasioni perdute che come il piacevole ricordo di felicità sperimentate.
Notevole la copertina, che potrebbe essere uno schizzo di Goya completato da un Bacon calato nello spazio metafisico di qualche De Chirico di passaggio.
Inutile dire che il gruppo non avrà seconde occasioni…
Certo, questo unicum non sarà sempre facile da reperire in giro. Io ho un vecchio CD usato… direi di stampa giapponese a giudicare dall’interesante booklet. Va comunque peggio a chi pretende il 33 giri originale della Decca: non sperate di spendere, oggi come oggi, meno di 300 euro…



The Human Beast - Volume One (LP) – Decca - SKL 5053 – UK – 1970

A1 Mystic Man 6:47       
A2 Appearance Is Everything, Style Is A Way Of Living 4:31        
A3 Brush With The Midnight Butterfly 5:19        
B1 Maybe Someday 6:19            
B2 Reality Presented As An Alternative 4:57     
B3 Naked Breakfast 3:06             
B4 Circle Of The Night 3:09

lunedì 2 settembre 2013

Il Bollettino di Capitan Vinile – Settembre 2013 – Dirigibili oltre cortina

...pensavate di esservene liberati?




Rientrare in patria dopo un paio di mesi da fuggiasco, e trovarsi bello e impacchettato niente po’ po’ di meno che "The Grand Illusion"; con tanto di poster!
Ci sarebbe da preferire l'esilio.
Per fortuna che abbinato in spedizione combinata c'era pure Bat Out of Hell.
Bè? Cosa c'è da sogghignare?
Verrà il giorno in cui quest'album sarà riconosciuto come uno dei capolavori degli anni '70. Di quegli anni '70 ormai al crepuscolo.
Ma…Stop right there boy...Before we go any further, sia chiaro: le utopie

SONO FINITE!
FINITE, OK?

lunedì 26 agosto 2013

Riff Raff – US Hard Rock Underground Compilation #3


Respira profondo, trattieni il fiato 3 secondi; mira bene, appena sopra al naso, in mezzo agli occhi.
E spara!
Booom!!
E’ bello colpire gli zombie perché, se li prendi bene, la testa esplode come un palloncino pieno di sangue. Fantastico.
Poi riprendiamo la 35 verso il Minnesota; zone poco battute. Radio a tutta manetta.




giovedì 23 maggio 2013

US Hard Rock Underground - US Hard Rock Overground

Un altro tassello della tortuosa introduzione a US Hard Rock Underground... Troverete sempre tutto "ordinato" in questa pagina...



A differenza di quanto era successo appena cinque anni prima, al tempo della British Invasion, alla fine degli anni 60 il rock americano si fece trovare pronto alla nuova accelerazione imposta dal Regno Unito. Anzi, forte di precursori di successo, poteva pure rivendicare la paternità dei suoni pesanti, e non senza ragioni.
In California, area Los Angeles, operava un gruppo di esuli canadesi, gli Steppenwolf, che avevano fatto un centro clamoroso con Born To Be Wild, brano che a cui pare si debba addirittura la paternità dell’espressione “Heavy Metal”.

I like smoke and lightnin'
Heavy metal thunder
Racing in the wind
And the feeling that I'm under

Sempre a L.A. risiedevano da tempo gli Iron Butterfly, che smerciavano psichedelica pesante a buon mercato e riff monocordi e pulsanti: In-A Gadda Da Vida, n° 30 tra i singoli del 1968, fu il prototipo del “brano monstrum”.
Sulla costa est le star tra il ‘67 e il ‘68 furono i Vanilla Fudge: un indecifrabile guazzabuglio di pop, acido e musica classica, la cui specialità era produrre cover ipertrofiche e metalliche di canzonette da classifica. Nel mezzo, o meglio nel mid-west, Detroit, con la sua scena pazzoide capitanata dagli MC5 protetti del guru John Sinclair, in cui power-chord, assoli ipetrofici e volumi esasperati erano l’unica risposta musicale possibile ai moti di violenta contestazione che agitavano il Michigan.

sabato 13 aprile 2013

Black Widow - Sacrifice



Ecco le radici di un quintetto che incarna il classico prototipo progressivo, ma che all’epoca fu contrabbandato come un gruppo di guerrieri metallici al soldo di Satana, controparte colta ai plebei vaneggiamenti dei bigotti Black Sabbath. 
In realtà la band dell’ occultista Jim Gannon non rinuncia all’ampia tavolozza timbrica offerta dalle tastiere di Zoot Taylor e dai fiati di Clive Jones; con In Ancient Days va a pescare riferimenti dalla religione egizia ed è in grado di trasformare un saltarello acustico medievaleggiante come Come To The Sabbath in un inno satanico da Spinal Tap. I ragazzi si divertono nella misterica Conjuration, marcia per fanfara da esercito sotterraneo e, dopo Seduction e Attack Of The Demon, penseresti di star di fronte ad una versione esoterica dei Colosseum.
Ma alla fine arriva il monolite roccioso di Sacrifice, undici minuti sostenuti da un riff circolare e sintetico; e le armate notturne si scatenano in tutta la loro potenza.


Sacrifice CBS S 63948, 63948 UK - 1970

In Ancient Days
Way To Power
Come To The Sabbat
Conjuration
Seduction
Attack Of The Demon
Sacrifice

lunedì 18 marzo 2013

Bambole, terminali e cieli stellati


Nel Vecchio Mondo, la scena rock tedesca degli anni '70 fu, per popolarità, seconda solo a quella britannica. Per volume di vendite, distribuzione e bacino d'utenza fu probabilmente dietro unicamente al mercato USA.
A posteriori facilita molto l'analisi "storica" del movimento collocare nel Festival di Essen del 1968 - Internationale Essener Songtage 1968 - quello snodo indispensabile attraverso cui band sperimentali, moderniste, originali ma tutto sommato semi-amatoriali, ebbero quel riconoscimento pubblico da parte della comunità intellettuale necessario a tenere a battesimo un vero e proprio genere oggi etichettato come Kraut-Rock. Una Woodstock europea di spessore artistico ben maggiore rispetto a quella più celebre su suolo americano.
E se in quella scena, che si sarebbe protratta come “in volo” per almeno un lustro, i musicisti non mancarono, anche il contorno grafico, ispirato in parte alle auto-produzione del Fillmore e di tutta la scena di San Francisco, dovette presto adattarsi ad un genere fantasioso e robotico allo stesso tempo, ma anche sintetico, digitale, spaziale, macchinista e industriale.
Alcuni sono i nomi che spiccano: Reinhard Hippen, Gunther Kieser e Peter Geitner.

mercoledì 27 febbraio 2013

US Hard Rock Underground - Una nuova British Invasion?


The roads are larger now, it’s a grey afternoon in the stars' back yard. Now I have to write quickly as the altimeter is beating me. The city looks dusty — L.A. is supposed to be 60 miles across. Sixty miles of freaks, stars, pretenders, and dollar worshippers — here we come! Toy palm trees, a baseball stadium. The dinkies become real cars. We’re low and still no airport. You get that ‘Will we hit the runway' feeling about now. Some American airports are frightening. Down, down, down - we’ve landed — our American tour begins!
Oil containers, radar towers, Delta, Shell, Castrol, ‘Fly TWA - L.A'. Captain welcomes us to the USA.
 Ian Hunter – Diary of a Rock n’ Roll Star

Se la prima, più celebre, British Invasion portò oltreoceano il merseybeat dei Beatles, il primo brit-pop di Kinks e Manfred Mann, il blues bianco di Stones e Animals, vi fu un altro, minore, arrembaggio inglese alle classifiche americane tra la fine degli anni ’60 e i primissimi ‘70. E questa volta il volume era decisamente più elevato.

martedì 19 febbraio 2013

A Mess of Riff - US Hard Rock Compilation #2



Abbiamo battuto il nord ed il midwest; abbiamo conosciuto Jim Gustafson, il cacciatore di licantropi, e il solitario Drew Abbot, uno che non ha tanti amici. Altri dieci album sono andati ed è ora di riposarsi una notte nel motel più squallido della 64.
Qui NON troverete necessariamente buona musica; troverete birra, clamorose ingenuità e qualche bella scazzottata tra bikers in parcheggi dimenticati e stracolmi di pick-up.

US Hard Rock Underground è di casa in questa pagina, dove, pezzo dopo pezzo, si sta cucendo assieme una corposa introduzione alle recensioni: qualcosa tra la creatura di Frankenstein ed una deviante accozzaglia di monografie.
La prima compilation di US Hard Rock Underground è sempre disponibile qui:


Per i curiosi, gli irriducibili, per coloro che non ne hanno mai abbastanza, ci sono le sconfinate compliation che il buon Vlad di Isle full of noises sta costruendo con somma pazienza e competenza. Correte subito a curiosare tra la serie Fools, villains and guitar heroes!!


E adesso alzate il volume e fatevi l’ultima birra, si parte…


A Mess of Riff - US Hard Rock Compilation #2


domenica 6 gennaio 2013

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