Visualizzazione post con etichetta 1971. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 1971. Mostra tutti i post

lunedì 28 settembre 2015

Consigli per ascolti trascorsi (riletture)


Free - Tons of Sobs (1968)
Il blues sepolcrale

Assieme a Spooky Two ecco forse il disco definitivo della Via Bianca al Blues, e siamo solo ad inizio ’68! Un approccio alla Cream, talmente diretto da essere addirittura sfacciato. La produzione trasandata e grezza di Hamilton, la debordante e felina chitarra di Kossof che singhiozza tonnellate di dolore, la barba incolta di Rodgers, catapultano l’album verso l’era finale del rock britannico: paradossale che sia il prodotto di un gruppo di teenagers.
Ma questi ragazzi si divertono a giocare nella tenebra, camminando nell’ombra; e questo esordio è una continua ode sepolcrale sparsa tra le lapidi di un cimitero di campagna in cui il vento sibila messaggi di morte. Fin dall’arcana copertina, dalle prime 3 canzoni, che sono una perenne variazione di un unico riff culminante nell’ipnosi totale, dall’enfasi dello standard di Going Down Slow; fino alla notte fonda della litania di Moonshine. Considerando che del lotto avrebbe potuto far parte anche Visions of Hell, Tons of Sobs si candida ad essere il primo vero “Black Album” della scena rock inglese.

9 agosto 2011


The Marshall Tucker Band - The Marshall Tucker Band (1973)

Esponenti di riguardo di una “2° generazione della jam” che rimpiazzò I fasti delle band della Baia nei primi ’70, la M.T.B. fu un gruppo “Southern” solo geograficamente. Scegliendo la strada della fusion di vecchio country, pattern blues e pop in versione yankee, ispirati ad una filosofia cristianeggiante, il gruppo sembra più l’evoluzione dei Grateful Dead ripuliti dall’acido piuttosto che l’apripista per gli assalti boogie di Lynyrd Skynyrd o Black Oak Arkansas.
Lunghe canzoni rilassate, che sanno di vecchio mito di frontiera ma senza pellerossa cattivi o sparatorie da “straniero senza nome”. Come una pigra ma devota carovana di pellegrini che procede lungo il fiume. Can't You See è una piccola gemma, così come l’acquerello di copertina di James Flournoy Holmes.

3 luglio 2011


Emerson, Lake & Palmer - Pictures at an Exhibition (1971)
Questo NON è Rock

Ascoltandolo oggi, pare impossibile che questo pachidermico LP fu all'epoca un successo. Tutto il prog più deteriore, eccessivo, barocco, falsamente rock è qui dentro.
Ridondante come ogni finto intellettuale parvenu che gioca con la musica colta, avendo addirittura la presunzione di migliorarla, riuscendo invece a rendersi quasi ridicolo, ricopiando pedissequamente qualche linea melodica e lasciandosi costantemente sfuggire il quadro totale della suite di Mussorgsky. Silenzi imbarazzanti e indecisi, improvvisazioni senza meta che ondeggiano come una piuma in preda al tornado. La differenza con la sinfonia vera, magari anche moderna, per esempio quella di Klaus Shulze, è abissale e incolmabile.
Non paghi, i tre moschettieri dell’ovvio si lanciano in un allucinante “bis” dallo Schiaccianoci di Ciajkovskij; senza bisogno di considerare l’originale, basti dire che riescono a prenderle addirittura dai Ventures la cui ben più spigliata versione risaliva addirittura a 5 anni prima!
Non sarà questa la vera, originale “Great Rock 'n' Roll Swindle”?

30 settembre 2011


Sweet - Desolation Boulevard (1974)
Rock in Polyester

Tra i fuochi artificiali del glam britannico, quello degli Sweet è oggi ingiustamente dimenticato. Eppure il quartetto aveva ogni cosa al suo posto: un tasso di lustrini non indifferente, zeppe del 12, una naturale cafonaggine da borgatari londinesi, nonché un look da macho-omosessuale-spaziale tra i P-Funk e le drag-queen a noleggio per un addio al celibato. Colpa dei New York Dolls che crearono disastri facendo credere che qualunque teenager sessualmente incerto con una Gibson e un po’ di rossetto potesse inventarsi il punk.
E nonostante tutto, Desolation Boulevard è un fantastico LP di bubblegum alla Ramones (ma un paio d'anni prima...) con coretti contagiosi, chitarre plastificate elementari e incalzanti, brani indimenticabili (Ballroom Blitz ma anche AC/DC, Fox on the Run, Six Teens) tenuto assieme da una specie di concept sulla vita di strada tra Ray David e i Dictators. Un mix niente male…

5 settembre 2011


lunedì 21 settembre 2015

Mostri in Paradiso (riletture)



Non hai visto in Mostri in Paradiso?”
Spread, default, debito, Tsipras, filo spinato, ISIS, presidenti non eletti.
Sono piombati dal nulla a distruggere le torri del potere. Ricacciandoci indietro nel tempo.
Questi mostri in Paradiso sono una delle immagini più forti e misconosciute emerse dal rock britannico. La copertina elaborata dallo studio Hipgnosis per il debutto dei Quatermass ha acquistato, oggi, un’aura mistica.
Quegli pterosauri plananti tra le torri di vetro sembrano un presagio sinistro del 11/09, quando la preistorica violenza terroristica planò tra i grattacieli di New York, ricacciando i governi nell’oscurantismo medioevale di crociate e jihad.
Ma i Mostri non se ne sono andati dal nostro vecchio e derelitto Paradiso, sbattono ancora le loro ali rettiliane tra l’avorio dei Palazzi.
Tsipras, filo spinato, ISIS, governi in bancarotta. E prima o poi, i sauri volanti si poseranno finalmente a terra.
Mostri in Paradiso.

La canzone “Monster in Paradise” (Gustafson, Gillian, Glover), già nel repertorio live dei Quatermass e risalente al periodo di fine anni '60 quando Gustafson, Glover e Gillian militavano negli Episode Six, comparirà solo nel 1971 nell’album Bulletproof degli Hard Stuff.

La foto originale della copertina di Quatermass fu scattata a Londra, ai palazzi governativi di Victoria St. La duplicazione dell’immagine restituisce una forte illusione ottica, quasi fosse un quadro Op-Art.

18 luglio 2011


domenica 2 agosto 2015

Una serata sui tetti


Può sembrare curioso cominciare una discussione sulla fine, partendo da un inizio. Quell'inizio in cui Martin Sheen si risveglia dal suo torpore in un' umida stanza d'albergo a Saigon.
Attorno, un mondo in fiamme. Mentre gli elicotteri volteggiano tra il fumo. Jim Morrison declina il suo personale Edipo, brano che potrebbe anche fare da cardine per tutto il dialogo, non fosse una scelta troppo ovvia.
Brano su cui vorrei comunque ritornassimo, quando la discussione prenderà quota.
Intanto è un'altra la canzone che chiamo a testimone: una crepuscolare meditazione dalla cima di un tetto al tramonto. Evening Over Rooftops (1971), classico assai minore e ultimo fuoco di un grande gruppo dell'undergound britannico: la Edgar Broughton Band. Arrangiato per viole e cori femminei, Evening dimentica le ruvidezze di un Wasa Wasa per un suono magari ruffiano eppure ammaliante nella piattezza catatonica della voce e nello spurio spirito da glam trapiantato in west-coast, di puro stampo esistenzialista.

Somewhere in the distance
On the road so far away
I heard the sound of life
Though the people left for home

Three birds flew off a building
Standing proud against the sky
Many more flew with them
Spiralled up like laughter

Faster, harder
They rose up in a column
Hundreds upon hundreds
And twice that many wingspeed

Four miles across
Stretched a million miles high
The living pulsing column
In the lady of the sky

Feathers thrashed together
Locked in that huge swarm
I knew no-one could see it
And now that it was gone

I rubbed my eyes and tried to find
A reason for the flight
Exodus, escape
Or was it just for me to see?

Dentro ci stanno queste immagini di spettacolare portata: l'ultimo fotogramma degli Uccelli di Hitchcock (una grande Apocalisse cinematografica); la nebbia giallastra sulla città industriale. Così almeno me la immagino. Quella città di cui siamo siamo ancora tutti cittadini; perchè ancora lì stiamo. E se abbiamo creduto di combattere per estendere diritti, abbiamo invece traghettato privilegi.
Non esiste l'uomo “post industriale”. Stiamo ancora guidando appena oltre la macchina a vapore.
E poi quella domanda, ripetuta più e più volte, tanto alla fine da tramutarsi in pura angoscia di vivere:

How far are we from dying
Is it nearly at an end?
How far are we from dying
Is it nearly at an end?...

Scartabellando tra memoria e archivi, ecco l'altro pezzo forte di Broughton: Death Of An Electric Citizen.
In morte di un cittadino elettrico.
Una piccola fine privata, questa, dell'ennesimo dei senza nome che riempie le periferie estese delle immutabili città industriali.
Dove comanda l'economia e latra la politica.

Appena oltre la macchina a vapore.

giovedì 14 maggio 2015

Vos Voisins - Holocauste A Montreal - 1971

 

Attenzione ai vicini.
Una copertina bianca e nera, monocroma, strafottente (e subito censurata) e pure un titolo che era un mirabile artefatto archeopunk. Una proposta rock lontanissima dalle raffinatezze neoclassiche di Harmonium o Maneige, "progressiva" come potevano considerarsi certe elucubrazioni degli ultimi Yardbirds o dei Cream. Nel concreto, uno scatenato grezzo boogie per manipolo di sciroccati tra lo shock di Alice Cooper e i timbri agli albori dei BOC, costola precoce dello stesso scontroso "joual rock" di Offenbach e Dyonisos, con la dirompente muscolarità Grand Funk di L’ instrumental e it beat eversivo di Voisins (Mon Chum), virale brano d'apertura. Eppure il meglio sta nelle magniloquenti decadenze da sobborgo Mott the Hoople di Tania e Le 3/4 De L'Archeveque, nonchè nella spassosa teatralità da horror seriale di Le Monstre De La Main: Jack the Ripper in formato heavy rock d'antologia, e attenzione, perchè e solo il 1971...
Album di spessore e sostanza, oggi pezzo da sfrenata collezione, purtroppo I'unico della band.
Serge Vallieres presterà una formidabile ed eclettica chitarra rock a Ville Emard e Toubabou.


Holocauste À Montréal - Polydor - 2424 048 - Canada - 1971

Voisins (Mon Chum)            3:10
Sous La Lune            4:46
L'Instrumental            4:27
Tania  5:05
Le Monstre De La Main Ou The Main Monster            6:05
Y'a Juste De T'ça     3:49
Le 3/4 De L'Archevêque            6:07

mercoledì 12 novembre 2014

(7 volte) Led Zeppelin 4 - Remaster



Da poco ripubblicato in versione remaster, Led Zeppelin IV è questa settimana alla posizione numero 7 di Billboard.
Colgo allora l'occasione per ripubblicare anch'io una vecchia e gloriosa serie di post che hanno composto il libello "7 volte Led ZeppelinIV". E ne approfitto anche per aggiungere, alle tante recensioni redatte ad arte, il mio personale, sincero e chiaramente non richiesto, parere sull'album.
Un album cocciuto, prodotto da una band che con testardaggine e poca naturalezza si è sforzata di comporre Il Capolavoro. Senza riuscirci.
Un album che oggi suona più datato del Secondo, per esempio, senza quella giovanile freschezza e strafottenza, ma con su una patina grigiolina e un po' polverosa.
Detto questo, ci sono comunque grandi pezzi, perché va riconosciuto a 'sto gruppo di avere scritto enormi pagine della loro epoca. Una di questa è, a mio parere, When The Levee Breaks, brano sommo e paradigmatico di una nuova epoca per il Blues.
Altra postilla: non è colpa di Page & Plant se Stairway to Heaven è stata eletta da una generazione un po' miope (forse più di pubblico che non di critica ma è un giudizio, riconosco, azzardato per chi di quella generazione non ha fatto parte) come uno dei brani - se non proprio “il brano” - più rappresentativi nella storia del Rock.
Sarà merito anche nostro dimostrare che certe verità storiche si possono rivedere.
Ma ora basta!
Eccovi 7 volte Led Zeppelin 4 Remaster

Cosa cambia dall'originale?
Niente.
Proprio come nel remaster degli Zeppelin.
Buona lettura!



SETTE VOLTE LED ZEPPELIN QUATTRO
(scarica il PDF)

giovedì 25 settembre 2014

Head Over Heels - Head Over Heels (US Hard Rock)


Artista: Head Over Heels
Album: Head Over Heels
Anno: 1971
Label: Capitol Records – ST-797

John Bredeau   Drums
Paul Frank          Guitar, Vocals  
Michael Urso     Bass, Vocals      

A1          Road Runner     3:21
A2          Right Away         3:04
A3          Red Rooster      7:32
A4          Children Of The Mist     3:30
B1           Question             3:00
B2           Tired And Blue / Land, Land       5:00
B3           (That's What I Like ) In My Woman         2:45
B4           Circles

Ulteriore incompetentissimo power trio detroitiano che azzecca un titolo grandioso e assembla mezz'ora di hard garage a presa diretta dalle sfacciate tinte blues. Come degli ancor più scalcagnati Pretty Things.
Abrasioni a sei corde, momenti di strafottente epicità per un bell'album di scassatissime Chevrolet color carbone che filano giù per le strade di Dazed and Confused, scippano il riff che gli AC/DC faranno grande in Go Down, visitano piacevolezze soft (poche!) prendendo per il culo gli Youngbloods di turno. E fanno ben leva su quella certa malefica proposta vocale di Paul Frank.
Fino a sprofondare nel sartiame black prog di Circles sette minuti di intrugli zeppi di riff e ripartenze, così poi come una Little Red Rooster che finirà per atterrare sul dorso di una jam metallica rivestita di testosterone, sulla falsariga di degni compari di label quali i Grand Funk.
Bello.
Arriveranno a suonare fino sulla costa pacifica, presenziando addirittura alle ultime serate del Fillmore.

Puro Michigan rock di marca Capitol, il vinile originale USA (ST-797) è un pezzo noto e tutto sommato abbordabile (una cinquantina di euro). Ne è nota una stampa venezuelana!.
Svariate le possibilità per acquistare il CD dell’ Aurora Records ‎ (AUCD5013) con al massimo una quindicina di euro. Ci sono pure gratis sulle principali piattaforme di streaming.

Banner

giovedì 19 giugno 2014

Sommersioni di U.S. Prog – Volume 1


Il prog sommerso statunitense è un curioso ponte incerto ed ondeggiante, gettato dagli ultimi spasimi acidi alle grandeur AOR, passando per mille tentazioni hard, folk, jazz. Più caotico e disorganizzato della controparte britannica, vanta però una carica, perfino una violenza, tutta americana e mascolina ignota alle prelibatezze europee. Non mancano i barocchismi esasperati, gli stucchi rococò, le inutili sperimentazioni e le pietose auto indulgenze, ma c’è sempre qualcosa di divertente e piacevole, pur nelle suite più esasperanti.

Un viaggio coloratissimo, da oceano ad oceano, lungo le solite traiettorie (da New York a Detroit, passando per l’Ohio) con l’apparente defezione della California e un buon contributo dalle province più remote.

mercoledì 13 novembre 2013

Danny just wasn't happy


Strana cosa la felicità.
Diresti che i soldi non possono comprarla, che alla fine si trova nelle piccole cose. Ma il mondo è sempre più banale e spietato di quanto ci piaccia credere.
No satisfaction uguale no happiness. E i soldi la soddisfazione te la comprano eccome. Che sia reale, fittizia, chimica o in carne ed ossa.
Forse è vero che “Danny, semplicemente, non era felice”. Altrimenti perché tutto quel valium, quell’alcol. L’eroina. Era il 18 novembre del 1972. Lui aveva 29 anni e in pochi sapevano realmente chi fosse quando qualche giornale riportò la notizia tra le “brevi” nelle pagine interne.
Danny Whitten era un rocker. Quello con i capelli chiari, gli occhi dolci, i folti baffi da cowboy della controcultura. Cresciuto a Columbus, in Georgia, si ritrovò presto in quel di L.A. con qualche embrione musicale per le mani… Con quei suoi amici freak, Billy Talbot e un oriundo portoricano, Ralph Molina, formò un gruppetto di doo-wop: Danny And The Memories. Ma a metà anni ’60 quello non era certo nome dal grande appeal, in più tutta la gente più cool era in viaggio su Maggioloni colorati verso San Francisco. Lì Danny e i suoi amici ebbero vita facile nel riconvertirsi a band dalle ondeggianti movenze psichedeliche. Imbarcati i fratelli Whitsel alle chitarre e il fiddle di Bobby Notkoff, ecco i Rockets, una sestetto tremendamente affiatato, anche se dal sound bastardo, schizofrenico, non sempre in linea con i comandamenti dell’epoca. Eppure andavano forte, tanto che fu Barry Goldberg a produrli per una piccola label indipendente, la White Whale Records.
Succede così che l’album omonimo di esordio diventa un piccolo classico, seppur ignoto, di un genere “indie” veramente ante-litteram. Indipendente, alternativo pure in quell’epoca. Sul gonfio basso di Talbot e il sicuro e robusto mestiere di Molina, Danny compone, canta, schitarra senza freni, accompagnato da violini folk e chitarre semiacustiche, con ritornelli orecchiabili da cantare attorno al fuoco mentre i cavalli si riposano. Avrebbero potuto essere una versione modernista degli Hot Tuna, ma anche una deriva folk del power-pop per antonomasia, quello dei Big Star. E l’avrebbero fatto per primi.

mercoledì 11 settembre 2013

Dust - Dust (US Hard Rock)


Artista: Dust
Album: Dust
Anno: 1971
Label: Kamasutra  KSBS 2041

Kenny Aaronson: bass, guitar, dobro
Marc Bell: drums, vocals
Richie Wise: guitar, vocals

A1 Stone Woman              4:02      
A2 Chasin' Ladies             3:34      
A3 Goin' Easy                    4:28      
A4 Love Me Hard              5:25      
B1 From A Dry Camel      9:49      
B2 Often Shadows Felt     5:10      
B3 Loose Goose               3:48

Grandissimi tra i minimi, i Dust ebbero per lo meno il merito storico di offrire la prima batteria importante a Marc Bell, futuro fratellino Ramones.
E mentre voi state a rimuginare sul reale valore di tale merito, ecco che questo trio vi riversa già addosso tutta la carica del doppio uppercut chitarristico di Aaronson & Wise, fautori di un rock duro ma lineare, in piena scia di Highway Robbery o Poobah, senza derive troppo acide ma con ampie concessioni alla velocità ed alla professionalità, adeguatamente nascosta sotto zazzere improponibili e giubbotti in pelle nera, che pure dovettero andare a genio a quelli della Kamasutra che, dopo questo esordio, concessero loro pure il bis.
E si capisce anche il perché, magari ascoltando roba come Love Me Hard, che il trio esegue con la foga di chi sta facendo tardi all’appuntamento con la sgualdrina preferita. Cosa che per altro accade anche in chiusura, con lo scatenato rock n’ roll di Loose Goose, degno dei Ten Years After più selvatici.
Troppo facile scegliere i 10 minuti di From Dry Camel come manifesto dell’album? Bè, e allora concediamoci questa banalità, anche considerando tutte quelle vibrazioni profonde e veramente dark che il brano si porta appresso, sviluppando galoppate rombanti su di un riff ipnotico e rallentato, tra Iommi e Dazed and Confused. Metteteci poi la decadenza malinconica di Often Shadows Felt e l’orrorifica copertina che ritrae tre scheletri in polvere ed ossa, ed il culto è presto servito.
Non meraviglia poi tanto che questi ragazzini si fecero presto un nome nel giro di Brooklyn.

Album piuttosto maturo, ben prodotto, ben suonato e ben confezionato, non stupisce che sia un pezzo noto e sempre ricercato. Molte le possibilità di trovare una stampa americana (su label fucsia) tra i 50 e i 70$; esistono anche stampe inglesi e tedesche. Akarma e Kama Sutra stessa hanno ristampato l’album in vinile in anni recenti e la Repertoire in CD. Da non sottovalutare la recente uscita Kama Sutra nel formato 2 album 1 CD: prezzi sotto i 10$ anche per un pezzo nuovo.

Ampia scelta pure in digitale: sia su Amazon che su I-Tunes e Google Play. Li trovate pure su Spotify.

Banner

giovedì 23 maggio 2013

US Hard Rock Underground - US Hard Rock Overground

Un altro tassello della tortuosa introduzione a US Hard Rock Underground... Troverete sempre tutto "ordinato" in questa pagina...



A differenza di quanto era successo appena cinque anni prima, al tempo della British Invasion, alla fine degli anni 60 il rock americano si fece trovare pronto alla nuova accelerazione imposta dal Regno Unito. Anzi, forte di precursori di successo, poteva pure rivendicare la paternità dei suoni pesanti, e non senza ragioni.
In California, area Los Angeles, operava un gruppo di esuli canadesi, gli Steppenwolf, che avevano fatto un centro clamoroso con Born To Be Wild, brano che a cui pare si debba addirittura la paternità dell’espressione “Heavy Metal”.

I like smoke and lightnin'
Heavy metal thunder
Racing in the wind
And the feeling that I'm under

Sempre a L.A. risiedevano da tempo gli Iron Butterfly, che smerciavano psichedelica pesante a buon mercato e riff monocordi e pulsanti: In-A Gadda Da Vida, n° 30 tra i singoli del 1968, fu il prototipo del “brano monstrum”.
Sulla costa est le star tra il ‘67 e il ‘68 furono i Vanilla Fudge: un indecifrabile guazzabuglio di pop, acido e musica classica, la cui specialità era produrre cover ipertrofiche e metalliche di canzonette da classifica. Nel mezzo, o meglio nel mid-west, Detroit, con la sua scena pazzoide capitanata dagli MC5 protetti del guru John Sinclair, in cui power-chord, assoli ipetrofici e volumi esasperati erano l’unica risposta musicale possibile ai moti di violenta contestazione che agitavano il Michigan.

mercoledì 8 maggio 2013

Virgin Forest - The Thoughts of Men



Accasati con la piccola misterica etichetta Threshold dei Moody Blues, i Virgin Forest condvidono con Mike Pinder e Ray Thomas una visione deteriore della psichedelia, che sfocia in un progressive ampio, talora sinfonico, nel loro specifico caso addirittura “darwiniano”.
Del resto, cosa non potevano fare quattro polistrumentisti nell’Inghilterra del 1971?
L’ispirazione arriva direttamente da 2001 Odissea Nello Spazio, e quell’osso gettato in alto diventa una sarabanda di percussioni come in certi concerti dell’Art Ensemble of Chicago. Timpani, piatti, oggetti casuali, magari qualche osso vero… Poi il rito si placa e nell’etereo tappeto di mellotron di The Family And The Village Of The Noble Savage si inseriscono le chitarre liquidissime di Paul Lorre, un Robert Fripp dall’accento folk che esplora villaggi di paglia e religioni dimenticate. Ma l’apice del disco sta nel lato B, dopo l’introduzione per elettronica varia di Winds In Savannah, con l’epica di oltre diciotto minuti di The Way Through The Mists Of Time. Un po’ Gentle Giant, qualche abbozzo di quartetto d’archi e flauti diseguali, in un prodromo di Fauni-Gena dei Tangerine Dream. Qualcuno ha detto Ian Anderson?
Peccato che tali timbri agresti trasudino di una certa compiaciuta autoindulgenza, proprio come l’esploratore che osserva il fanciullesco rito iniziatico degli ultimi neolitici. Per fortuna  si trova un pertugio anche per una chitarrona quasi hard, prima che il finale si accontenti di uno smooth jazz da piano bar con tanto di sax e gran piano.
Ambizioso, imponente, ma ben prodotto. Per gli amanti delle Grandi Opere…

Virgin Forest - The Thoughts of Men  - Threshold Records (THC 09) UK - 1971

A1 Bone In The Sky  7:23
A2  The Family And The Village Of The Noble Savage  9:05
B1 Winds In Savannah  1:45
B2 The Way Through The Mists Of Time  18:23

mercoledì 27 febbraio 2013

US Hard Rock Underground - Una nuova British Invasion?


The roads are larger now, it’s a grey afternoon in the stars' back yard. Now I have to write quickly as the altimeter is beating me. The city looks dusty — L.A. is supposed to be 60 miles across. Sixty miles of freaks, stars, pretenders, and dollar worshippers — here we come! Toy palm trees, a baseball stadium. The dinkies become real cars. We’re low and still no airport. You get that ‘Will we hit the runway' feeling about now. Some American airports are frightening. Down, down, down - we’ve landed — our American tour begins!
Oil containers, radar towers, Delta, Shell, Castrol, ‘Fly TWA - L.A'. Captain welcomes us to the USA.
 Ian Hunter – Diary of a Rock n’ Roll Star

Se la prima, più celebre, British Invasion portò oltreoceano il merseybeat dei Beatles, il primo brit-pop di Kinks e Manfred Mann, il blues bianco di Stones e Animals, vi fu un altro, minore, arrembaggio inglese alle classifiche americane tra la fine degli anni ’60 e i primissimi ‘70. E questa volta il volume era decisamente più elevato.

venerdì 2 novembre 2012

Le brutte recensioni - Esercizi di Stile



Per il futuro mi impongo degli esercizi di stile. Sono intriganti, utili e insegnano a non ricadere nei soliti errori.
Ma soprattutto… sono divertenti.

sabato 29 settembre 2012

Riff for the Mass - US Hard Rock Compilation #1



Due giorni con lo sguardo fisso sulla strada e le mani sul volante; il sole è in perenne tramonto come nella notte artica.
Duemila miglia, da Madison a Baltimora e ritorno, in un paese popolato da zombie antropofagi che sbranano ciò che resta degli uomini al suono ininterrotto di jingle pubblicitari di qualche compagnia telefonica. A Columbus c’è quella vecchia Roadhouse all’ Oaks Park. E’ come entrare in un saloon elettrico al neon giallo. Una moneta cade nel jukeboxe.

E’ tempo di fermarsi, e sulla Ghost Highway di U.S. Hard Rock Underground diamo spazio alla prima compilation che ripassa i dieci dischi presentati dall’inizio del viaggio.
Riff for the Mass è un concentrato di energia brutale, una tempesta elettrica erogata via Youtube, da ascoltare a volume alto, molto alto!

Keep on Rockin’!!

lunedì 2 luglio 2012

Quatermass - A Phantom Pteranodon - 3-4-1971


Quatermass
Live at Deutsclland Halle, Berlin, Germany 3-4-1971

A Phantom Pteranodon
Highland – HL312

1.  Monster Paradise (Unreleased Track) 6:19      
2.  Up On The Ground 20:55        
3.  Monster Paradise (Reprised) 1:27      
4.  One Blind Mice (Unreleased Track) 3:31          
5.  Make Up Your Mind 14:24      
6.  Laughin' Tackle (Incl. "Keyboards Solo") 15:03              

Rare bootleg, fantastic performance for a legendary group of British Prog. A must!

Check the "visual bootlegs" page here
Check also the entire bootlegs collection here  


mercoledì 27 giugno 2012

Black Widow e Horse - Discography & Playlist


BLACK WIDOW - DISCOGRAFIA


Lp:
Sacrifice (CBS 63948) 1970
Black Widow (CBS 64133) 1970
Black Widow Three (CBS 64562) 1971

45s:
Come To The Sabbat/Way To Power (CBS 5031) 1970
Wish You Would/Accident (CBS 7596) 1971

HORSE - DISCOGRAFIA

Horse (RCA SF 8109) 1970

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...