mercoledì 21 gennaio 2015

Seconda introduzione al Rock Invisibile


Nel 1972 Italo Clavino, scrivendo Le Città Invisibili, immaginava “una serie di relazioni di viaggio che Marco polo fa a Kublai Kan imperatore dei tartari”. Un imperatore melanconico, avendo compreso che il suo vastissimo impero ed il suo sterminato potere contano poco in un mondo in rovina; un imperatore a cui l’ardito viaggiatore espone con minuzia e precisione racconti incredibili di città impossibili, ciò non di meno plausibili e piene di significati.
Allo stesso modo mi immagino la grande redazione di un vecchio e stanco giornale musicale cartaceo; quasi la sala di un museo nell’epoca del dominio di Internet. Qui, un ultimo redattore cerca materiale per un articolo che presenti il Rock in maniera nuova, descrivendo album sconosciuti ed illuminanti, rivedendo categorie e graduatorie, scoprendo nuovi nomi e titoli diversi.
Missione impossibile nei tempi di Google, in cui ogni appassionato conosce già la musica prima di ascoltare il disco, o di accendere lo smartphone visto che ormai i dischi non esistono nemmeno più.
Per svolgere tale incarico, dà mandato al suo migliore recensore di andare in giro per negozi e concerti e riportagli indietro una lista di novità e riscoperte che avrebbero composto l’ennesimo nuovo numero della rivista.
Se il giornalista non fosse riuscito nell’intento, avrebbe perso il posto di lavoro e, con tutta probabilità, la redazione avrebbe chiuso i battenti.
Dopo settimane di indagini e di ascolti, l’impavido recensore si rende conto che nulla di nuovo c’è da aggiungere, che tutti i grandi dischi sono già stati sezionati, ascoltati, giudicati ed archiviati; che la musica Rock (ed i suoi agiografi…) non fa che ripetere sé stessa all’infinto, nella fondata speranza di estorcere qualche saldo ai gonzi appassionati.
Rientra in redazione, pronto a subire le conseguenze del suo fallimento.
Ma in un estremo moto di orgoglio ed inventiva, presenta al redattore una dottissima serie di resoconti di meravigliosi e sconosciuti album, prodotti da band altrettanto ignote.
Tutto frutto della sua fantasia.
Originato da un collage di ascolti noti, smontati e rimontati un pezzo alla volta a formare ibridi improbabili come nel Bestiario di Borges.
Sarà sufficiente a salvare il posto di lavoro?
Ecco allora i 25 dischi fondamentali del Rock invisibile.
Ordinati non cronologicamente, né tanto meno per tipologia, non tenendo minimamente conto dei “generi tradizionali” (punk, progressive, grunge…), ma piuttosto organizzati per categorie che cercano una mediazione tra musica e orecchio. Tra musicista ed ascoltatore. Una nuova classificazione (album e orecchie, album e memoria) che mette al centro l’esperienza di ascolto e non pretende di essere descrizione dell’esteriorità, quanto introspezione soggettiva e relativissima.
Kublai Khan non salvò il suo impero, né forse il redattore la sua rivista.

Ma riuscire ad abbandonarsi alla fantasia rende la fine molto più dolce.

venerdì 16 gennaio 2015

QuebecRockSampler - Note d'ascolto - 3

   

Ville Emard Blues Band
Live À Montréal (1974)

Quello che si consumò al Teathre St. Denis di Montreal, nel Gennaio 1974, fu uno degli happening zenithali del Quebec Rock, quando la cooperativa musicale della Ville Emard Blues Band, dispiegò il suo imponente serbatoio di talenti in uno show che diventa, ascoltato oggi, uno dei doppi live più interessanti che ancora manca alla vostra collezione.
Copertina scarna da bootleg, coi colori bianco e blu della bandiera "nazionale". Una quindicina i musicisti che si alternano sul palco, eclettismo spinto, che si muove con nonchalance tra il R'nB più raffinato, libertà prettamente jazz, malinconie progressive (con menzione per la sonata per pianoforte e mellotron di Ode À Une Belle Inconnue), fusion e rock delle tribù acide (Ville Emard Blues, deliquio latineggiante in foreste senegalesi), senza artifici o lambiccamenti, ma con tutta la classe dei grandi entertainer di confine: Chicago, Zappa, Blood Sweet and Tears, Santana, Weather Report. Riferimenti trattati con la bella estemporaneità tipica di una jam band della Baia, in più, a fare da legante, le voci suadenti da odissea mediterranea di Christianne Robichaud e Lise Cousineau. Se poi vi sentite più spigolosi, preferirete i 10 minuti strumentali per pattuglia free funk alla Captain Black di Konky Donky, quelli altrettanto liberi di Poivrots Névrosés o il pieno d'orchestra nell'iperfunk terminale di Strangle.
Ma in verità, ciò che più resta, è il tangibile spirito comunitario di coloro che con modestia si sono fatti piccoli ma sinceri testimoni d'un epoca.



Morse Code
La Marche Des Hommes (1975)

Lenta assolvenza elettrica, silenzio, poi il dinosauro compare e spiana un tremendo riff d'apertura, terremoto che squassa i Deep Purple giapponesi con tutta la mistica degli Uriah Heep d'annata, per spalancarsi su orizzonti violacei di sospensione barocca, che ripiombano nel miglior hard rock prodotto sull'altra sponda atlantica.
Così si apre una delle più spettacolari trilogie del prog pesante, non solo canadese.
Passata la tormenta di un popolo in marcia, la sciarada continua su forme canzoni impeccabili, devote al rigore degli Octobre, arrangiate con gusto e incarnate in una foga strettamente rock, attraversate da una narrazione certo romantica, all'occasione malinconica, riflessiva (la ragnatela nella grotta degli specchi de La Ceremonie De Minuit), ma sempre capace di scatenarsi nel disco-funk per mellotron e flauto di Cocktail e nella scossa metal di umanesimo combattente (così dannatamente "quebecois") di Qu'est-ce Que T'as Compris? una nuova Maudite Machine ad amplificatore zeppeliniano.

Sound strabordante, sull'esempio degli Offenbach, e potenza inusitata nel contesto del Quebec per uno degli LP che dovete ascoltare per comprendere il valore del movimento.


Seguin
Récolte De Rêves (1975)

Nel 1975 (les) Seguin(s) approdano alla Kot'ai, di casa Infonie. E subito ecco lo zampino di Raöul Duguay nella lunga Les Saisons.
Ma se un album si apre con una versione gregoriana di una chanson di Gilles Vigneault, voilà la sponda lunare del folk progressivo degli Harmonium, che scende delicato come una foglia che si posa sull'acqua del lago.
In un ciclo stagionale in cui è importante solo la Terra, si incontrano una Joni Mitchell floreale danzante nelle tele di un rinato Tim Buckley, come nella liquida ed azzurra Et C'Est L'Hiver o in Les Enfant D'un Siècle Fou, in un alternarsi di tramonti ancorato alla melodia della canzone d'autore più raffinata, rinnegando l'elettricità del rock ma devoto a certe rinascimentali sonate progressive come Hé Noe o la dolente serenata barocca di Fugue En Do Mineur, ouverture alla notturna evocazione di silfidi di À La Pleine Lune, rifinita da una mistica coda per flauto elettrico modulato.

Un incantesimo che recita a memoria l'hippy-prog della Incredible String Band, trapiantata nell'antica terra dei totem dei Nativi.



Pollen
Pollen (1976)

Una storia che parte indietro nel 1972, ma il gruppo dei polistrumentisti Claude Lemay e Jaques Rivest arrivò tardi all'esordio discografico con la Kébec-Disc, appena in tempo per cogliere gli ultimi fuochi del Movimento, dopo un triennio passato ad elaborare un elettrico live act con tanto di laser.
Certo la loro vena è progressive in senso strettissimo, un flash rock alla Yes, magari un po' impersonale, delegando tanto feeling all'algida voce dei synth.
Disco diviso in due parti, una solare una lunare, che non si fanno in effetti mancare belle albe spaziali ad ampio respiro (Vieux Corps De Vie d’Ange) e la sicura padronanza del complicato gioco di incastri ritmici.
Un lavoro più affine al grande pomp rock di stampo statunitense (L’Étoile sarebbe un gran pezzo su ogni album degli Starcastle) piuttosto che allo stile dei colleghi francofoni, e comunque un LP oggi assai riverito, sarà anche per la futuristica cover da manga galattico. Nessun dubbio sul fascino saturniano della lunga La Femme Aillée.
Ma l’avventura del quartetto era già terminata.



Dionne - Brègent
...et le troisième jour (1976)

Musica permeata da un profondo senso religioso pan-confessionale, come derivata da una cerimonia pasquale eterodossa, celebrata sotto la volta modernista di una cattedrale di Alvar Aalto.
Bregeant non lesina sul voice synth che si mischia al coro in carne ed ossa generando uno strumento androide; intanto il collega dà fondo ad una fornita batteria di idiofoni che vibrano non distanti dai minimalisti rituali di un giardino zen, srotolando preghiere buddiste nel Temple du Silence, l'unica oasi di quiete in un lato B che è una sarabanda di evocazioni mefistofeliche e trionfanti.
Straniante l'eterna assolvenza dal fondo nero che conduce all'orrore post industriale di Possession / Destination , una cacofonia da Faust maligni a campane spigate in cieli rossi e tumultuosi.
Kraut-Quebec dello Schönberg maturo, un oratorio per mura sconsacrate.
Da ascoltare.


Conventum
L'Affût D'Un Complot (1977)

Ecco il tardivissimo esordio di uno dei simposi musicali e culturali più interessanti del Quebec.
Progressive più per habitat che per contenuti, la musica dei Conventum rilegge in tremenda profondità la chanson francese, guarnita di arrangiamenti costruttivisti quanto minimi, un artrock da cafè post moderno, di una attualità impressionante e traboccante di sana ironia. Mix di violini, elettronica spicciola, contrappunti vocali, ensamble da camera come i migliori Harmonium, teatro canzone (La Bataille, uno per tutti), balli tzigani (Les Réels Du Conventum), ed un zigzagante substrato di nevrosi cittadina.
Le titletrack, minisuite di 6 minuti, dove un elaboratissima apertura in dissonanza di archi introduce una recita per antagonista solista che puzza di disagio e polemica, intrappolato nella tela finissima di chitarre acustiche. E poi i due complessi strumentali che chiudono il lato B: avanguardia da salottino per intellettuali scaltri.
È il folk trascolorato di una Montmartre polare, frequentata da Zappa, Waits, i controversi Amon Duul della Tanz, premonitore di Magnetic Fields come di altra mezza dozzina di indiani acustici. LP tra i più spiccatamente “quebecois” del Movimento.


lunedì 12 gennaio 2015

Gli album e la Città



Il rock è urbano, per definizione.
Il suono della città.
Prima di lui lo furono anche jazz e R'n'b.
Oggi sono tante le capitali del rock. New York, Los Angeles, Londra, San Francisco, Monaco...
E ognuna ha un'identità urbana inconfondibile, edificata dagli uomini, legittimata dalla storia. Scritta nel reticolo stradale, nella disposizione delle piazze, dei luoghi di aggregazione, di culto, scritta nel profilo verticale, nelle singole architetture d'abitazione, nelle fontane dei giardini.
Allo stesso modo ogni città possiede anche il proprio sound, la propria identità sonora.
Scritta nelle radio locali, nel reticolo di club, pub, concert hall; nelle band che le frequentano, nel gusto del pubblico, nella chimica delle sale di incisione dove la metropoli registra i suoi album.
Ogni grande città ha il suo umore sonoro.
Come l'urbanistica cambia negli anni, viene riscritta, restaurata, riprogettata, ma lascia sempre traccia dietro di sè, così quel suono, che affonda la radice indietro anche di secoli, è arrivato a noi come la somma delle generazioni di musicisti che lo hanno prodotto. Ed ognuna di quelle capitali ha scritto in faccia il suo umore.
New York, la nevrosi new wave.
Los Angeles, la Babilonia decadente.
San Francisco, lo (psico)attivismo.
Monaco, la teocrazia elettronica.
Saint Louis, il ritmo del sud.
Londra, il crocevia degli stili.
Detroit, combat rock.


Ogni rock ha la sua città.

martedì 6 gennaio 2015

Ripartire da uno scarabocchio



Nei giorni scorsi si sono sentiti, letti, visti tanti proclami, tanti giudizi, tanti consuntivi.
Moniti e auspici. Come sempre.
Lessico forbito, sintassi curata, giacche eleganti.
Il mio auspicio è ripartire da uno scarabocchio.
Veloce, su un foglietto di riciclo, un appunto, una parola, due note, un volto.

Scarabocchi Ubriachi, progetto aperto per la costruzione di un nuovo libro di racconti di Bartolo Federico, è uno dei miei rammarichi dell'anno passato. Ora, sono certo che il progetto non sarà, alla fine, esattamente come lo volevamo, non sarà completo, forse non sarà perfetto, certamente non arriverà in tempo.
No satisfaction; ma chi può mai dirsi realmente soddisfatto, in questo mondo?
So per certo però che questo anno appena iniziato, sarà l'anno degli scarabocchi (ubriachi, possibilmente).
Forse non sono riuscito a dare un volto al volume, ma di certo ho lavorato sui volti.
Ho letto (e riletto) i pezzi di Bart, ne ho isolato i protagonisti; ne ho studiato foto e biografie, ho selezionato le immagini che mi sembravano più adatte e le ho date in pasto al colpo d'occhio di Mr. Hyde (mai visto Cassetti Confusi?) affinchè le scarabocchiasse di colore, appunto.
Un po' punk, un po' Joker, un po' pagliacci metropolitani.
Lavoro pregevole, il suo. Esattamente quello che avevamo in mente per illustrare la prosa guerrigliera di Bart.
Riguardo quelle foto, e cerco di leggere negli sguardi di Patty Smith, di Jeffrey Lee Pierce, di Roy Orbison e di tutti gli altri.
Ci vedo dentro sempre quella punta di insoddisfazione, di precarietà, di dubbio, di rimorso. È ciò che li rende artisti e non marionette del jet set.
No satisfaction.
Mi piace leggerci dentro una cosa: urgenza
Il rock è la musica dell'urgenza.
Del qui, ora, subito.
We want the world and we want it now!
Ricordate, lo diceva anche Morrison, no?
Urgenza di utopia.
Vogliamo il mondo (utopia), lo vogliamo adesso (urgenza).
Nessuna lunga mediazione, nessun compromesso, nessuna verbosa diplomazia, niente patti subdoli. Niente politica, solo la massima posta in gioco.
Urgenza, quindi. Di esprimersi, di comunicare, di suonare, di acchiappare quell'idea, la parola giusta, il pubblico caldo. Di arrivare in sala d'incisione prima degli altri, di registrare quel refrain per primi. Urgenza di fare soldi, di diventare celebri.
Quell'urgenza sta dentro agli Scarabocchi. E anche quel briciolo di utopia, perchè no.
Le due note che diventano un riff, la parola che diventa un titolo, la frase che sarà un inno.
Scarabocchi veloci su foglietti di riciclo.
Rileggo un lungo commento lasciato su G+ da Blakswan, il "Killer" di comeunkillersottoilsole, a corollario di un post di Detriti di Passaggio; ne isolo un frammento: partigiani della bellezza. Bart è un agguerrito partigiano della sua bellezza; una bellezza che a tanti altri può apparire rugginosa, trasandata, popolana, grossolana. Ciò non di meno è vitale, scalcia, tira pugni; ha quell'espressione vissuta di costante, mascherata insoddisfazione. Di chi non ha ancora acciuffato la sua personale utopia.
Questo ci auguriamo che sia del libro di Bart.
Che si porti appresso tutta l'urgenza di parlare, magari senza tanta cura alla sintassi, senza lessici forbiti o giacche blu, ma con la sincerità di dire tutto ciò che va detto.
È questo che ci piace del Rock.
E che ci piace di Bart.



Il messaggio agli "addetti ai lavori", ma non solo, è semplice: siamo qui, siamo vivi; ricominciamo. Disposti ad investire un po' del nostro tempo; ed in futuro forse non solo quello.
Sapendo bene due cose:
1) Che la vita, con tutti i suoi casini, viene comunque prima. Lavoreremo nei suoi interstizi.
2) Non ci sono crocicchi o juke joint; ce la giochiamo in un terreno digitale, virtuale, che non ci piace, e non è il nostro.
Giocheremo in trasferta, allora.

venerdì 2 gennaio 2015

Appunti di metodo, nuove introduzioni, vecchie idee


Je vous entends demain Parler de liberté
Gilles Vigneault


Non interpretate questo post troppo alla lettera.
Nasce certo come una nuova introduzione all' indagine sul rock canadese, ma contiene anche qualche concetto, qualche linea guida trasversale con i quali mi piaceva inaugurare questo 2015.
Un anno da cui, non lo nascondo, ed anzi lo dico sin d'ora, mi aspetto molto.

***

Non sono mai stato un fan del "Progressive" in senso stretto.
Yes, King Crimson, Genesis ed altri li ho ascoltati più per senso del dovere che per passione. Ed anche il folto sottobosco Vertigo o Harvest l'ho frequentato più per completistica curiosità che per vero interesse.
Ho spesso avuto riserve su un certo messaggio che ho letto sotteso a tanto prog. Un messaggio che, probabilmente sbagliando, ho sempre associato al disimpegno, al conservatorismo opposto alle fatue libertà del 1967, legato addirittura al collaborazionismo, fino a certe istanze superomistiche care alla destra.
Ebbene non sono qui per redirmi o smentirmi. Non del tutto.
Perchè, sotto sotto, nell'eterogeneo mondo del prog, c'è anche un trasversale filo rosso che mi ha sempre affascinato più di quanto io stesso non sia disposto ad ammettere, un filo rosso fatto di devozione per la musica colta, per la storia, per il romanticismo e il fantasy nelle sue più svariate forme.
Ciò di cui avevo bisogno era un territorio vergine, uno spazio ampio da considerare nel suo insieme e nella sua unitarietà, molto più notevole della mera somma di tanti singoli.
Con la scena di Canterbury già ampiamente sviscerata e la vera passione che negli ultimi hanno ha investito il kraut rock e il prog italiano, mi sono rivolto a quello che è oggi - perchè presto ne scopriremo un altro, vi garantisco - l'ultimo baluardo vergine tra i variopinti mondi del prog: il Quèbec.
Ed ecco già in partenza la prima semplificazione.
Perchè in effetti era solo un mio pregiudizio l'immaginare la scena del Quebèc come devota unicamente al "genere prog".
In realtà, addentrandomi nell'argomento, ho scoperto una proposta assai più composita e variegata, nella quale il prog era solo un semplice denominatore, più o meno comune, adottato più per comodità che per reale corrispondenza musicale.
Dall' originale "QuebecProgSampler" che avevo pensato come titolo di prima battuta, ho quindi dovuto cambiare, pensando a "JoualRockSampler", assumendo come carattere peculiare l'adozione dello slang anglofrancese, joual appunto. Ma anche questa sarebbe stata una semplificazione eccessiva, nonchè una notazione assai poco comprensibile. "MonrealRockSampler", con pronuncia alla francese? O qualche altra tipicità locale?
No, allora meglio il semplice, immediatamente comprensibile Quèbec, inteso come unità sociale ancor prima che geografica; rock, nell'accezione più variegata di musica per le "nuove generazioni".
L'interesse per questo argomento infatti è nato, oltre che dalla musica, dalle peculiarità culturali e storiche di questo paese. Un'enclave europea, potremmo addirittura dire latina, cattolica, in un continente anglosassone, protestante, sottoposto alla pesante egemonia statunitense. Una regione che ha percorso una strada tortuosa ma sempre di grande dignità verso l'indipendenza, o almeno verso il pieno riconoscimento di sè, in una stagione segnata anche da scontri, da lotte, fiere opposizioni, nonchè dalla musica, oggi grande testimonianza di quell'epoca.
Un percorso che rientra probabilmente nella trasversalità delle rivendicazioni degli ultimi anni '60, in un primo esempio di globalizzazione di sentimenti, aspirazioni e mode che oggi ha ampiamente dimostrato tutta la sua futilità, ma che all'epoca non mancò di segnare, in occidente, il proprio slancio utopistico.
Utopia, che fossero le canzoni di protesta di Joan Baez, di Woodstock, di Gilles Vigneault o dei menestrelli proletari europei che cantavano il '68 studentesco.
E forse, alla fine dei sogni, ognuno fa i conti con l'alba di una nuova giornata; ogni comunità, ogni libero associazionismo, ogni fazione politica ha il proprio risveglio. E se la nemesi dell'utopia sta spesso nella realtà, anche in musica ciò che seguì ai mega raduni acidi, alle "protest song", al rock politicizzato, va ricercato nei fatti e nelle persone, analizzando quel controverso periodo di simulazione, disimpegno e restaurazione - apparenti o reali - che furono i primi anni '70.
Ecco, in Quèbec, l'avventura musicale del rock francofono e degli chansonnier che lo hanno preceduto, fu colonna sonora ed oggi è in qualche modo l'eredità di una stagione che ha davvero visto "uomini in marcia" - parafrasando un titolo dei Morse Code - non per capriccio di qualche studente fuoricorso o per la posa artatamente alternativa di discutibili leaders politici, ma per un desiderio di libertà e di indipendenza che qui - da osservatore distante nel tempo e nello spazio - mi azzardo a definire sincero.
Un'avventura che copre quella dozzina di anni immediatamente successivi alla Rèvolution Tranquille (la Quite Revolution della cronaca anglofona) idealmente compresi tra l'Expo universale del 1967 a Montreal ed il referendum indipendentista del 1980; riferimenti non musicali ma dall'impatto emotivamente dirompente su tutta una comunità, sui suoi sogni, le sue lotte, le aspirazioni ed i bruschi risvegli.
In questo periodo, l'avventura più strettamente progressiva si consuma tra il 1971 e il 1977, preceduta da una breve ma gloriosa parentesi di estremismi psichedelici d'importazione e sperimentalismi dimenticati, e degenerata, negli ultimi anni 70, in ritmi dance e (ottima) fusion.

Nella scrittura di questi testi, sparsi per ora tra blog e social, mi sono presto scontrato con difficoltà operative, previste di sicuro, ciò non di meno limitanti.
La prima, quella determinante: la difficile reperibilità di molti dischi; l'accesso alle informazioni, che sono frammentarie, inattendibili, a volte perfino fuorvianti.
La seconda: immergermi in un tempo ed in una latitudine che non mi appartengono, non studiati a scuola, mai incontrati in precedenza.
Perchè l'intento di QuèbecRockSampler è quello di proporre non solo una carrellata di nomi, cognomi e titoli, ma di collocarli in un contesto il più dettagliato possibile e magari anche in una prospettiva, se non storica, almeno cronologica.
Per fare ciò ho scelto di operare su due binari ben distinti.
Il primo: l'ascolto.
Ascolto spesso nudo. Digitale, impersonale, freddo, senza introduzioni nè avvertimenti. Ma proprio per questo neutrale, al riparo da facili preconcetti e giudizi. Piacevole per il gusto della scoperta.
Il secondo: l'indagine storica. Indagine, per quanto possibile, verificabile, approfondita, basata sui dati e sulla ricerca attenta delle fonti e delle bibliografie, senza paura di intraprendere contatti e relazio con chi più di me ha vissuto e conosciuto quegli anni.
Il collante tra questi due binari lo fanno le storie degli uomini che hanno prodotto musica e si sono esibiti in quegli anni; le storie di personaggi cui nomi non sono quasi mai citati dalle top ten e che ancor meno sono approdate sull'altra sponda dell'Atlantico.

Il risultato è un viaggio personalissimo e certo incompleto attraverso i nomi e i titoli di artisti ed opere che sarebbe bello riascoltare, se non per reale passione verso il loro stile, per imboccare la strada che porta al riconoscimento pieno della globalità e della multiformità d'aspetto della musica rock.

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...