giovedì 29 agosto 2013

Fireplug - Fireplug



Una cover di bel gusto pop, un nome che evocherebbe scenari estivi da Harlem sotto la canicola, traditi da quella che doveva essere un’attitudine al jazz bianco da campus.
“Allievi della lezione di Brubeck” dovettero pensare alla Verve quando crederono di mettere sotto contratto un educato ed edulcorato quartetto di jazzisti borghesi che suonavano in giacca senza stillare una goccia di sudore e che sembravano avere messo a memoria dischi come Time Out o Jazz Goes to College.
Ma magari fu l’improvvida - o la benedetta, dipende da che parte state della barricata - decisione di spedirli a farsi le ossa al mitico Red Dog Saloon di Virginia City, di spalla a novizi quali Charlatans o Wildflower a tramutare la natura stessa di questo gruppo. Che evidentemente già radicato al suo interno possedeva il germe della genuina trasgressività sottaciuta a genitori inconsapevoli.
Succede allora che quello che doveva essere un revival della canzone leggera anni ’50 (Old Man River) diviene una “mess” psicotica con un flauto impazzito che va subito alla deriva su una ritmica impassibile e tribale allo stesso tempo. Che la chitarrina in punta di dita di Ted Winston, a volume manipolato, demolisca ciò che rimane di Basin Street Blues facendone una trance acida degna di coloro che aspettano “l’ uomo” appoggiati al lampione spento sul marciapiede. E quando quello arriva, si scatena la sarabanda settecentesca di Joint Blues Time con tanto di clavicembalo elettrico, deriva a 12 battute d’obbligo e voci dal falsetto irritante che nulla ne sanno di armonia ma che si divertono un mondo a sbattersi tamburelli sulla testa come dovessero inaugurare l’ultima parata dell’ Art Ensemble Of Chicago. Tra tanto frastuono mirabilmente elettrificato, spicca come il solitario fiore nel campo già arato la favola alla Donovan di Lucinda con campanellini fatati e addirittura traumi di corno tibetano in chiusura. Un barrito che conduce direttamente al classicone di Gershwin, veicolo per quattro scalcagnati assoli in cui i musicisti si scambiano, letteralmente, gli strumenti, immettendo vibrazioni di beefheartiana aleatorietà su una performance che alla fine deraglia verso il pazzoide più convinto. Fugs e Godz avrebbero applaudito eccitati…
Una bella fantasia. Quello che sulla carta fu l’educato ed edulcorato prodotto della meglio gioventù bianca è diventato un happening avanti sui tempi di quel paio d’anni che bastano a farne la prima perla dispersa e subito dimenticata della corona psichedelica.
Affascinante, ma tremendamente fuorviante.

Fireplug – Fireplug 1966 Verve (10-514), USA

Old Man River 5:23
Basin Street Blues 4:13
4 Pieces 3:25
Joint Blues Time 6:47
Lucinda 3:21

Summertime 7:53

lunedì 26 agosto 2013

Riff Raff – US Hard Rock Underground Compilation #3


Respira profondo, trattieni il fiato 3 secondi; mira bene, appena sopra al naso, in mezzo agli occhi.
E spara!
Booom!!
E’ bello colpire gli zombie perché, se li prendi bene, la testa esplode come un palloncino pieno di sangue. Fantastico.
Poi riprendiamo la 35 verso il Minnesota; zone poco battute. Radio a tutta manetta.




venerdì 23 agosto 2013

Maggot Funkagraphix Inc.



Per dare forma e colore alle strampalate visioni extra-terrene del guru dei P-Funk, George Clinton, serviva un apparato grafico altrettanto fantasioso e strampalato.
Pedro "Capt'n Draw" Bell a fornirlo, un designer autodidatta, che diventò negli anni ’70 l’illustratore ufficiale dei Parliament e l’autore delle copertine di alcuni dei grandi album della comune all-black che ridisegnò il funky secondo dettami spaziali e pazzoidi.
Dischi che raramente comprendevano la sola misera copertina 30x30, ma erano cartonati gatefold multiapribili, con buste interne, booklet, retrocopertine tutte da gustare.
E Pedro non era uno a cui piaceva lasciare spazi bianchi.
Le sue sono composizioni in cui tutto è intrecciato, interconnesso e incastrato: ritratti dei musicisti, illustrazioni, lettering, titoli delle canzoni e note di copertina formano un flusso continuo e coloratissimo in cui testo e immagini si fondono come in un fumetto rupestre dell’era spaziale. Un'esperienza tutta da fruire ed esplorare, fatta anche di manga, di avventure estemporanee, di deliri mistici, di tribalismi africani alla perenne ricerca di radici e simboli, di una blaxploitation perfino porno, ma sempre tinta di un umorismo coloratissimo, da graffito urbano strafatto di qualche acido pesante.
Si potrebbe dire che le copertine dei P-Funk richiedono un'attenzione perfino maggiore a quella necessaria all'ascolto dell’album! E diventano oggetti artistici autonomi e riconoscibili ben più delle pure complesse confezioni di altri grandi cosmici come gli Hawkwind.
Ma per tenere testa a canzoni come Promentalshitbackwashpsychosis Enema Squad (The Doodoo Chasers) o Lunchmeataphobia ('Think, It Ain't Illegal Yet!) questo antenato della “Black Age of Comics” dovette dare fondo a tutta la sua fantasia.
Ma forse il contributo di Pedro Bell andò addirittura oltre. Come scrive Clinton sul suo sito, nella pagina dedicata al designer, fu lui che definì il collettivo P-Funk come una banda di supereroi spaziali, creando tutta la mitologia che univa il gruppo al suo pubblico.
Mica poco…

sabato 17 agosto 2013

Gli album e i segni



Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di lpazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’ acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d'alghe. Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra. Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l'ordine alfabetico d'alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d'oppio.
— Dov’è il sapiente? — Il fumatore indicò fuori della finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva   prato. Disse: — l segni formano una lingua, ma non è quella che credi di conoscere —.
Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m'avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di lpazia. Ora basta che senta nitrire i cavalli e schioccare le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a lpazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli. E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondono trilli di flauti, accordi d'arpe.
Certo anche a lpazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scendere al porto ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.

Italo Calvino – Le Città Invisibili – Le città e i segni, 4

mercoledì 14 agosto 2013

Inacquistabile! Devil’s Anvil, bouzouki e la guerra dei sei giorni


Dio benedica gli anni ’60!
Vi ricordate? Quelli dell’amore universale; in cui le persone scendevano in strada dandosi la mano, e dandosi quella mano formavano grandi girotondi vorticosi con cui proclamavano la pace nel mondo e l’inizio di una nuova era di fraternità e propizie congiunture cosmiche.
Quelli del solo-unico-vero-rock-che-conta. Morrison, Hendrix, Lennon…
Bè, magari poi le cose non stanno proprio così…
Però all’epoca ti poteva pure capitare di trovare un bellimbusto arabo, con baffoni e scarpe a punta da sultano, fronteggiare una complessino beat nel giro del Village.
E il bello dei bassifondi del rock è che ti riservano sempre qualche sorpresa, qualche colpo di coda che ti costringe a rivedere continuamente la tua personale classifica di bizzarrie musicali. Pensi di averle sperimentate tutte con qualche Big Boy Pete, con i Randy Holden, con il prog giapponese, con la JPT Scare Band.
Poi spuntano fuori questi Devil’s Anvil.
Fioriti tra quei girotondi di pacificazione cosmica, vagabondavano per le stesse coffe house di Dave Van Ronk con nomi che oggi sarebbero sulla lista nera di qualsiasi controspionaggio: Kareem Issaq, Mike Mohel, Eliezer Adoram. Strumenti che sanno di deserto, bouzouki, oud, tamboura, timbri salmastri di Mediterraneo, costa meridionale: un happening scalzo alla prima moschea a destra.
Ma pur immerso fino al collo nello stordimento di quegli anni alla marijuana. Se fossero fioriti sulla costa ovest avrebbero strappato ai Caleidoscope lo scettro di Contaminatori Definitivi.
Ma a New York fecero la conoscenza di tale Felix Pappalardi, uno sdolcinato produttore/bassista che smerciava sogni colorati a tutto volume per le masse indistinte che avrebbero presto osannato Cream e addirittura Mountain. Ma era pure un personaggio con gli agganci giusti, tanto da riuscire ad accasare quell’accozzaglia di oriundi medio orientali con la Columbia.
Dio benedica gli anni ’60!
Così anche i nostri prodi clandestini mettono assieme 11 pezzi per un lp: Hard Rock From The Middle East. Piuttosto chiaro, no?
Roba da fare andare di traverso fior di biscottini al mitico George W. Bush. Ma ve lo immaginate l’americano medio a comperare un lp con in copertina un truce volto scuro avvolto in un turbante candido con tanto di deshdasheh a righe alla Ahmad al-Shuqayri?
Inacquistabile!
Quei pochi che lo acquistarono saranno forse rimasti interdetti. O forse no, tanto all’epoca qualunque orientaleggiamento di maniera era fin troppo ben accetto. Pappalardi, ahimè, riduce la carica arabica del gruppo ad un sound indecisissimo tra bordoni psichedelici e pruriti garage, tra unplugged folk da menestrelli della Grande Depressione, canzonette da juke-box, ed abbozzati tentativi di world music che più imperialista non si può.
Neocolonialismo rock, ma dagli Amerikani ci si poteva aspettare qualcosa di meglio? Electric Prunes del Sahara.
Per fortuna la totale follia di testi cantati in arabo, turco, greco e ovunque incomprensibili pur quando in inglese rende divertente tutto quanto il disco. Con l’aggiunta di un paio di pezzi di bello spessore e trance assicurata: Wala Dai, BesahaSelim Alai  in particolare.
Ma la ciliegina sulla torta fu che nel giorno esatto in cui il disco comparve nei negozi, il conflitto israelo-palestinese deragliò nella Guerra dei 6 giorni. Era il giugno 1967.
Chi si sarebbe azzardato, per le strade di New York, a girare con sottobraccio un lp 30x30 dominato da un sinistro simil-kamikaze e la parola “diavolo” a caratteri cubitali nel titolo?
Inacquistabile…
Allora, ma forse anche adesso.

PS: non ne sono assolutamente sicuro… ma metà del ’67 credo ci siano ottime possibilità che questo sia il disco in cui per la prima volta compare esplicitamente l’espressione “Hard Rock”…

lunedì 12 agosto 2013

Magic Bus


Quasi un mese lontano dal blog. Anzi, lontano pure da internet.
Chissà che novità, al ritorno - uno potrebbe pensare...
Ebbene, nulla.
121 e-mail di cui 118 cestinate senza passare dal via.
Mica male!
Ci si può fare l'abitudine. A stare senza il blog, intendo; passando mesi viaggiando qua e là sarebbe ancora meglio.
A casa però ogni tanto si riportano anche cosine graziose.
Magari ne parleremo, più avanti.
Con calma...

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...