lunedì 5 ottobre 2015

To all our listeners...


<<To all our listeners, this is what I have to say - God bless you all. And as for you bastards in charge, don't dream it's over. Years will come, years will go, and politicians will do fuck all to make the world a better place. But all over the world, young men and young women will always dream dreams and put those dreams into song. Nothing important dies tonight, just a few ugly guys on a crappy ship. The only sadness tonight is that, in future years, there'll be so many fantastic songs that it will not be our privilege to play. But, believe you me, they will still be written, they will still be sung and they will be the wonder of the world.>>

“Nulla di importante finisce questa sera... l'unico rammarico è che nei prossimi anni ci saranno nuove bellissime canzoni, che non sarà mio privilegio diffondere...”

Mi associo alle parole di un grande Philip Seymour Hoffman in “I Love Radio Rock”. Non voglio tenere dei sospesi a tempo indeterminato. Gli ultimi post sono stati programmati fin da Agosto.
Ora mi sembra più sincero salutarvi tutti.
Il blog chiude.
Magari non per sempre... e cosa mai “è per sempre”...
Ma è ora di fare chiarezza.
Ho ancora una discreta mole di materiale scritto, che NON pubblicherò. Se qualcuno lo desidera in eredità... ben venga.
Qui accanto c'è la mail: se altri desiderassero fare due chiacchiere di musica e altro, la usino pure. Risponderò di certo. Sui social... non so, non credo sarò presente più di tanto.
Credo, con rammarico, che non sarò troppo presente nemmeno sui blog degli amici. Perdonate l'assenza.
Nel (poco, pochissimo) tempo che risparmierò vorrei continuare a lavorare su Scarabocchi Ubriachi di Bart. Non so...
Ci vedremo, in un altro tempo, in un altro posto.... magari con un'altra faccia; lo diceva anche Van Morrison.

Grazie per la vostra attenzione, per i commenti, per le visite.

Un saluto!


E.M.

lunedì 28 settembre 2015

Consigli per ascolti trascorsi (riletture)


Free - Tons of Sobs (1968)
Il blues sepolcrale

Assieme a Spooky Two ecco forse il disco definitivo della Via Bianca al Blues, e siamo solo ad inizio ’68! Un approccio alla Cream, talmente diretto da essere addirittura sfacciato. La produzione trasandata e grezza di Hamilton, la debordante e felina chitarra di Kossof che singhiozza tonnellate di dolore, la barba incolta di Rodgers, catapultano l’album verso l’era finale del rock britannico: paradossale che sia il prodotto di un gruppo di teenagers.
Ma questi ragazzi si divertono a giocare nella tenebra, camminando nell’ombra; e questo esordio è una continua ode sepolcrale sparsa tra le lapidi di un cimitero di campagna in cui il vento sibila messaggi di morte. Fin dall’arcana copertina, dalle prime 3 canzoni, che sono una perenne variazione di un unico riff culminante nell’ipnosi totale, dall’enfasi dello standard di Going Down Slow; fino alla notte fonda della litania di Moonshine. Considerando che del lotto avrebbe potuto far parte anche Visions of Hell, Tons of Sobs si candida ad essere il primo vero “Black Album” della scena rock inglese.

9 agosto 2011


The Marshall Tucker Band - The Marshall Tucker Band (1973)

Esponenti di riguardo di una “2° generazione della jam” che rimpiazzò I fasti delle band della Baia nei primi ’70, la M.T.B. fu un gruppo “Southern” solo geograficamente. Scegliendo la strada della fusion di vecchio country, pattern blues e pop in versione yankee, ispirati ad una filosofia cristianeggiante, il gruppo sembra più l’evoluzione dei Grateful Dead ripuliti dall’acido piuttosto che l’apripista per gli assalti boogie di Lynyrd Skynyrd o Black Oak Arkansas.
Lunghe canzoni rilassate, che sanno di vecchio mito di frontiera ma senza pellerossa cattivi o sparatorie da “straniero senza nome”. Come una pigra ma devota carovana di pellegrini che procede lungo il fiume. Can't You See è una piccola gemma, così come l’acquerello di copertina di James Flournoy Holmes.

3 luglio 2011


Emerson, Lake & Palmer - Pictures at an Exhibition (1971)
Questo NON è Rock

Ascoltandolo oggi, pare impossibile che questo pachidermico LP fu all'epoca un successo. Tutto il prog più deteriore, eccessivo, barocco, falsamente rock è qui dentro.
Ridondante come ogni finto intellettuale parvenu che gioca con la musica colta, avendo addirittura la presunzione di migliorarla, riuscendo invece a rendersi quasi ridicolo, ricopiando pedissequamente qualche linea melodica e lasciandosi costantemente sfuggire il quadro totale della suite di Mussorgsky. Silenzi imbarazzanti e indecisi, improvvisazioni senza meta che ondeggiano come una piuma in preda al tornado. La differenza con la sinfonia vera, magari anche moderna, per esempio quella di Klaus Shulze, è abissale e incolmabile.
Non paghi, i tre moschettieri dell’ovvio si lanciano in un allucinante “bis” dallo Schiaccianoci di Ciajkovskij; senza bisogno di considerare l’originale, basti dire che riescono a prenderle addirittura dai Ventures la cui ben più spigliata versione risaliva addirittura a 5 anni prima!
Non sarà questa la vera, originale “Great Rock 'n' Roll Swindle”?

30 settembre 2011


Sweet - Desolation Boulevard (1974)
Rock in Polyester

Tra i fuochi artificiali del glam britannico, quello degli Sweet è oggi ingiustamente dimenticato. Eppure il quartetto aveva ogni cosa al suo posto: un tasso di lustrini non indifferente, zeppe del 12, una naturale cafonaggine da borgatari londinesi, nonché un look da macho-omosessuale-spaziale tra i P-Funk e le drag-queen a noleggio per un addio al celibato. Colpa dei New York Dolls che crearono disastri facendo credere che qualunque teenager sessualmente incerto con una Gibson e un po’ di rossetto potesse inventarsi il punk.
E nonostante tutto, Desolation Boulevard è un fantastico LP di bubblegum alla Ramones (ma un paio d'anni prima...) con coretti contagiosi, chitarre plastificate elementari e incalzanti, brani indimenticabili (Ballroom Blitz ma anche AC/DC, Fox on the Run, Six Teens) tenuto assieme da una specie di concept sulla vita di strada tra Ray David e i Dictators. Un mix niente male…

5 settembre 2011


lunedì 21 settembre 2015

Mostri in Paradiso (riletture)



Non hai visto in Mostri in Paradiso?”
Spread, default, debito, Tsipras, filo spinato, ISIS, presidenti non eletti.
Sono piombati dal nulla a distruggere le torri del potere. Ricacciandoci indietro nel tempo.
Questi mostri in Paradiso sono una delle immagini più forti e misconosciute emerse dal rock britannico. La copertina elaborata dallo studio Hipgnosis per il debutto dei Quatermass ha acquistato, oggi, un’aura mistica.
Quegli pterosauri plananti tra le torri di vetro sembrano un presagio sinistro del 11/09, quando la preistorica violenza terroristica planò tra i grattacieli di New York, ricacciando i governi nell’oscurantismo medioevale di crociate e jihad.
Ma i Mostri non se ne sono andati dal nostro vecchio e derelitto Paradiso, sbattono ancora le loro ali rettiliane tra l’avorio dei Palazzi.
Tsipras, filo spinato, ISIS, governi in bancarotta. E prima o poi, i sauri volanti si poseranno finalmente a terra.
Mostri in Paradiso.

La canzone “Monster in Paradise” (Gustafson, Gillian, Glover), già nel repertorio live dei Quatermass e risalente al periodo di fine anni '60 quando Gustafson, Glover e Gillian militavano negli Episode Six, comparirà solo nel 1971 nell’album Bulletproof degli Hard Stuff.

La foto originale della copertina di Quatermass fu scattata a Londra, ai palazzi governativi di Victoria St. La duplicazione dell’immagine restituisce una forte illusione ottica, quasi fosse un quadro Op-Art.

18 luglio 2011


lunedì 14 settembre 2015

Riletture


Riletture.
Avrei potuto intitolare questo post con un sacco di parole fighe che iniziano con “re”: remaster, rewind, reloaded.
Tutti pessimi inglesismi snob
“Riletture” mi è sembrato più composto e perfino elegante.
In realtà, le riletture saranno eventualmente le vostre. Le mie potrebbero essere tutt'al più riscritture.
Mi sono guardato un po' indietro nell'ultimo periodo. Ho pubblicato 565 post; un'enormità. La metà è emerita spazzatura, soprattutto quelli sui bootleg audio e/o video (sono sempre i più cliccati...). Un buon quarto non sono né carne né pesce: carucci, ma ce ne sono altri mille in giro così. Quelli che restano...insomma, vi dirò che non sono male.
Per questo me li sono riletti, e ve li riproporrò ogni tanto, da adesso in poi.
Eccole, le riletture.
Non sarà solo un copia-incolla, mi piacerebbe rimaneggiarli un pochino, correggerli, sistemarli, approfondirli, magari accorparli se ce ne dovesse essere bisogno. E tornare a dare loro un po' di visibilità, perchè a suo tempo, non se li è filati nessuno, poverini...
E poi, lo ammetto: è un buon modo per fare sopravvivere il blog in periodi difficili.
Buone riletture, quindi... e grazie per la pazienza!


E.M

giovedì 3 settembre 2015

Disraeli Gears & Safe as Milk (recensioni doppie)




Cream - Disraeli Gears 


Captain Beefheart & His Magic Band - Safe as Milk

Appena otto settimane separano la pubblicazione di questi due album, da settembre a novembre 1967. Entrambi furono registrati pochi mesi prima in America (a New York Disraeli Gears, a Los Angeles Safe as Milk).
Sono album divergenti, che si incrociano lungo la strada e poi continuano il loro viaggio in direzioni opposte, senza guardarsi indietro.
Entrambi sono di dichiarata ed esplicita matrice blues. Blues bianco, suonato da giovanotti borghesi, benestanti e mediamente istruiti, cresciuti sui dischi della Chess, di Otis Rush, di Howlin' Wolf, Albert King, Muddy Waters e Little Walter.
Un approccio al blues di “seconda generazione” mediato dal revival di metà anni '60 e appunto dai 33 giri dei grandi maestri, piuttosto che dal contatto diretto.
Da una parte, i Cream sullo scheletro blues si fanno costruttivi, variopinti, risentono del polline della stagione dei fiori (a partire dalla copertina fino allo psycho rock di SWLABR) costruiscono abbellimenti sovraincisi e ricami d'oriente (Dance the Night Away); si dimostrano il primo vero supergruppo; di virtuosi più che di autori.
Dall'altra parte, la Magic Band scava ulteriormente quello scheletro, lo lascia sbiancare al sole, ne fa macerie e fossili, cerca di riallacciare il filo non tanto con il “revival”, ma direttamente con la sorgente della musica del Delta (Plastic Factory in tutto il suo primitivismo), un'involuzione che guarda almeno 30 anni indietro (tale Son House, non so se avete presente). Sure 'Nuff 'n Yes I Do, e tutto ciò che segue, è del resto un blues del deserto, laddove quella dei Cream è musica urbana, uscita dai club di una “Swinging London” che stava dettando la moda. Safe As Milk, volutamente, non segue per nulla la moda e nulla ha a che spartire con la stagione dei fiori e dei loro figli.
Lo spettacolo dei Cream è pirotecnico, tutto proteso a liberarsi nell'assolo spaziale, morbido e modulato dagli effetti; sono giocolieri di scale e ritmi supersonici, virtuosi avvenenti, con capelli lunghi, caffettani retrò, camice preraffaellite.
La Magic Band a confronto è piuttosto una galleria di curiose bizzarre bestie licantrope, pur in giacca e capello curato, deformate dalla laringe horror di Beefheart e dalla furia animalesca del gruppo che si sublimano nella temibile tirata per slide di Electricity. Questo è il blues dell' hobo errante che mendica un whisky e nulla ha da dimostrare, l'altro è quello raffinato degli allievi di Mayall che usano una strabiliante perizia strumentale per divagare un po' paternalisticamente grazie alle possibilità di improvvisazione offerte dalle 12 battute. Van Vliet è fuori dal tempo, suona blues per un'esigenza spirituale, artistica e forse biografica; i Cream, e Clapton per il resto della carriera, sono certo “in time” e utilizzano il blues come veicolo mondano per la propria maestria. Il che non significa che lo suonino peggio né che la loro musica sia svalutata (vedi Outside Woman blues...); però è così, mettiamoci l'animo in pace. Ecco che il riff memorabile di Sunshine of Your Love marchia di diritto le classifiche di quell'annata magica, mentre quello altrettanto memorabile di Drop Out Boogie echeggia oggi come un protopunk d'antologia, senza nessuna eco commerciale. Eppure riemergerà più volte in anni recentissimi, anzi sta riemergendo ancora adesso; chiedere ai Black Keys se abbiano mai ascoltato quest' album.
A dimostrazione di quanto la musica blues sia sfuggente ed elastica, di quante soluzioni offra e di quante suggestioni si nutra.
All'epoca i Cream divennero superstar proprio grazie a Sunshine, mentre Van Vliet faticava a trovare contratti e litigava continuamente con i discografici. Disraeli Gears fu in top 5 tanto in USA che in Inghilterra; Safe As Milk non entrò nemmeno in classifica.
Oggi chi si sognerebbe di fare una cover di Tales of Brave Ulysses piuttosto che di Zig Zag Wanderer?
Per una volta, vince la sincerità.

sabato 29 agosto 2015

Un album e il suo doppio


Dichiariamolo subito: alla base dell'idea c'è quel germe di supponenza che mi porto spesso appresso.
Perchè recensire un album alla volta, quando posso recensirne due contemporaneamente?
Dev'essere più o meno lo stesso pensiero che fece Keith Emerson a cavallo del 1971: perchè suonare una sola tastiera (che sarebbe stata ampiamente sufficiente) quando posso tenerne almeno sette tutt'attorno?
E così è degenerato il prog...
La mia speranza è che da questa idea parta quella crepa che sancisca finalmente la degenerazione del dilettantesco “giornalismo musicale da blog”, genere di cui mi ritengo esimio esponente (vedi la supponenza di cui sopra).
Allora, svisceriamo questa idea.
La musica Rock, e sopratutto le “Storie del Rock”, privilegiano sempre l'aspetto consequenziale ed evolutivo dei generi, degli stili, degli artisti stessi. Pongono l'accento su rapporti di causalità, sulle relazioni maestri – discepoli, modelli originali – copie derivate e così via. Prima e dopo.
Credo sia anche tale approccio ad avere favorito l'ipervalutazione di pochi e la relegazione nel limbo di tanti, troppi, consegnando alla storia solo un manipolo di oligarchici “album seminali” (brrrr...).
Raramente si indaga la contemporaneità rispetto alla consequenzialità. La compresenza nello scaffale delle nuove uscite. Raramente si tracciano brevi linee orizzontali piuttosto che lunghe rette verticali, tanto nelle discografie dei singoli (va da sé, la tirannia dell'Ordine Cronologico...) che negli studi “di genere”, sempre trattati con una deviata ottica darwiniana di maturazione ed evoluzione progressiva.

Con queste recensioni parallele, il proposito è quindi semplice: dare voce alla contemporaneità. Indagare album magari distanti per contenuti e risultati finali, ma affini per presupposti o per caratteri nascosti. Album, qui sta il nocciolo della questione, “accaduti” in un medesimo “quanto temporale”, nello stesso momento perfino; anche negli stessi luoghi magari. Indagarli per contrasto, per giustapposizione e per confronto, con risultati resi ben più interessanti dalla sincronia che sta alla base delle coppie.
Mentre questi pubblicavano x, quelli pubblicavano y.
Dove sta il bello e dove il brutto? Chi ha ragione? Quale strada ha preso l'uno, quale l'altro?
In tutto questo, tentazione assai forte è quella di formare accoppiate squilibrate: il vecchio rocker in declino con la nuova band emergente; gli idoli per teenager con l'introverso cantautore scostante. Insomma, l'Arte con la Merda. Ma sarebbe troppo facile, ed allora occorre setacciare e scegliere con oculatezza. Anche perchè questi non vogliono mica essere l'ennesimo scontato Deathmatch tra celebrità, ma solo un'indagine di “vite parallele”. O meglio “musiche parallele”, rispolverando una vecchia pagina di questo stesso blog (pagina che i curiosi, o i fan sfegatati, possono ancora trovare qui)...
E allora, in meravigliosa anteprima ed in ordine, come consueto, assolutamente casuale, ecco qualche accoppiata accuratamente selezionata:


Crosby, Stills & Nash – The Stooges
(Alla fine fu il 1969 il vero anno “spartiacque”?)

Let There Be Rock (AC/DC) - The Clash
(è il 1977... potrebbero essercene altre 134 di coppie, ma questa la trovo originale e molto più “intima” di quanto si possa pensare)

Wasa Wasa (Edgar Broughton Band) - In the Court of the Crimson King
(Questa la trovo intrigante, perchè Broughton, anni prima dei Clash e dei Sex Pistols, ha rischiato di mettere alla berlina una parte ampia ed importante di un rock allora rivoluzionario)

The Fugs First Album - The Beach Boys Today!
(Amerika e America; questa è certo la contrapposizione più violenta e spietata)

Radio Ethiopia (Patty Smith) – Leftoverture (Kansas)
(Come sopra, dieci anni dopo, pur con verdetti meno scontati dal mio punto di vista)

Disraeli Gears (Cream) – Safe as Milk (Captain Beefheart)
(Qui siamo ai due spettri opposti ed inconciliabili del miglior Blues bianco; gli Stones fanno razza per conto loro...)

Valentyne Suite (Colosseum) - Black Sabbath
(Questa sarà interessante. Insomma, chi potrebbe fare una nuova recensione del debutto dei B.S. nel 2015? Eppure in coppia con un suo album gemello (di etichetta, di epoca ma non solo) potrebbe fare tutta una nuova figura e gettare luce nuova tanto sul prog che sul metal...)

Wretch (Kyuss) – Nevermind (Nirvana)
(23 settembre 1991 l'uno, 24 settembre l'altro; perfetti...In un anno, il '91, che allinea anche i debutti di Pearl Jam e Sleep, Weld di Neil Young, le registrazioni di The End of Silence di Rollins uscito l'anno seguente e Use Your Illuson dei Guns... qualcosa bolliva in pentola...e non era solo il grunge...)

Zeit (Tangerine Dream) – Close To The Edge (Yes)
(Ridestatevi “JulianCopiani”; e poi è chiaro che il prog inglese appare mastodontico finchè lo si confronta sempre solo con il Merseybeat...)

Il gioco potrebbe espandersi a recensioni triangolari o addirittura quadrangolari, ma la mia supponenza per ora si ferma qui.
Chiaramente sono aperto ai suggerimenti e soprattutto alle critiche.
A proposito... avete già pensato alle vostre coppie?
Bravi!
Allora segnalatemele... però poi scriveteci su voi, che io non avrò tempo nemmeno di completare le mie!

Stay Tuned!!


lunedì 24 agosto 2015

Letters from The End – Nuovi inizi?




Sono convinto che il vecchio, bistrattato, sepolto “rapporto epistolare” abbia in realtà ancora molto da dire pur in questi tempi di comunicazione generalizzata, massificata e superficiale. Il piacere di rivolgersi ad una persona e ad una soltanto; di richiedere ed ottenere la sua attenzione. Di richiedere ed ottenere una risposta.
Negli ultimi giorni ho discusso “attorno alla Fine” con alcuni amici; un tema proposto da un piccolo post e rilanciato da un giro di mail qualche tempo addietro.
Di seguito, un collage di alcune conversazioni; un collage che è saltato fuori in maniera talmente fluente e naturale da stupirmi, quasi non fosse frutto di sei mani e tre teste, ma di un unica creatura (non) pensante.
Per chi non li conoscesse, i miei preziosi interlocutori sono Massi di Detriti di Passaggio ed Ant di AntBlog.
Grazie a loro per primi, e anche a tutti i nostri lettori.

***

ANT: Accade che il "lavoro" arretrato assume dimensioni mastodontiche, senza che io me ne renda conto; le recensioni in stand-by, gli artisti ancora nel limbo e le cartelle "work in progress" si moltiplicano come conigli infoiati. Gli album da ascoltare sono troppi, le cose da scrivere pure, ma poi perché farlo? Ha senso tutto questo? C'è veramente qualcuno dall'altra parte del monitor?

MASSI: Non riesco più a organizzare le idee, anche le più semplici; scrivere – quella “cosa” che un tempo fluiva con tale naturalezza da costringermi a frenare la spontaneità – è diventato una affanno ingrato, un atto di molestia perpetrato ai danni del me stesso che vorrei essere, e che forse non sono.
È questo il sapore della fine? Da quando hai lanciato quest’idea della fine, non penso ad altro. Che suono ha la fine? Ce l’ha, un suono? Mentre scrivo queste righe, nel lettore sta girando “Brothers In Arms”, e la cosa terribile è che sono costretto ad ammettere che mi piace. I Dire Straits. Il genere di gruppo che ho sempre deriso con acida (immatura?) supponenza da becero intellettuale. Sono a un passo da Jovanotti, cioè a un passo dalla fine?


EVIL: Nell'ultimo periodo, correndo come sul ciglio di un burrone, mi sono appoggiato ai Grandi, perchè in certi momenti c'è necessità di buttarsi ad occhi chiusi su chi sai non può tradirti: Rolling Stones, soprattutto. Ma i Dire Straits non mi meravigliano: ultimamente ascolto compulsivamente Eminem, Robbie Williams, Mia Martini... ed altro. Credo sia uno sfogo di rigetto, la necessità di trovare altri ambienti, altri spazi che fino a qualche giorno prima sembravano non esistere neppure.
Aria nuova. Che sia poi già viziata... pazienza.

MASSI: Io non so se questa è la fine, Evil, o una possibile fine. Anche perché siamo abituati a parlare di fine solo al singolare; ma chi ha detto che la fine è una sola, di un solo tipo e genere? Chi ha detto che la fine debba per forza essere totale, assoluta? Potrebbe essere anche lieve, indolore, silenziosa, nascosta; potrebbe arrivare senza squilli di trombe o fragorose catastrofi. Potrebbe non esistere nemmeno, la fine, ovvero potrebbe essere una condizione costante in cui siamo incondizionatamente immersi. Oppure potrebbe essere già arrivata: e noi non ce ne siamo ancora accorti. In questo momento ha il suono di “Brothers In Arms”, fra poco potrebbe avere il suono di “Decades” (sì, negli anni della giovinezza fui uno di quelli che “knocked on the doors of hell’s darker chamber”) e domattina quello “Art Official Age”.

EVIL: La "Fine" ha sempre contorni incerti, sfumati. A guardarla con distacco la fine di un avventura di blogging, di scrittura, di relazione, di comunicazione - chiamiamola come ci pare - è piccola cosa. E facilmente rimediabile. La realtà è che in queste avventure, seppur piccole, mettiamo in gioco tante cose di noi, ci esponiamo, togliamo maschere e armature e siamo totalmente vulnerabili. Condividiamo gli amori e le passioni profonde (per la musica, per l'arte...) e rischiamo costantemente di scottarci. Scottarci con l'insensibilità e l'indifferenza che ci circondano. Ce ne stiamo lì, nudi, fragili, con le parole sulla punta della lingua... e nessuno se ne accorge.

The hatred you project
Does nothing to protect you
You leave yourself so exposed
You want to open up
When someone says
Lighten up
You find all your doors closed
Get yourself a break from self rejection

End Of Silence, di Henry Rollins, è un album che negli ultimi mesi ho messo a memoria. Credo che sia uno dei corpus di testi più spietati, masochisti e reali che sia mai stato scritto.
Ma la mia "fine" ha due colonne opposte ed antitetiche: The End (va da sè...) e We Will Fall degli Stooges. L'una certamente trendy, "hip", magari un po' modaiola ma innegabilmente affascinante e dolorosamente suadente; l'altra tetra, buia, senza scampo. Queste opposte facce di una uguale moneta tengono già su tutto... Il resto nel mio gusto, è speculazione intellettualistica e puro decoro.
Nel commento al post di Ant parlavo di deserto. E' un altro aspetto che mi ossessiona: deserto di fatto, ma deserto di silenzio, deserto di voci e relazioni, deserto delle persone attorno. "Deserto sulla Terra", così entra il tenore nel primo atto del Trovatore. cantando di guerra.
Quella sabbia rossa, calda, arida, secca, piena di crepe di siccità, è il terreno su cui immagino di muovermi. In lontananza, figure tremolanti, ombre, fantasmi o solo miraggi. Miraggi di colore che ci stanno attorno ma che alla fine svaniscono in un commento mancato, in una parola non detta.

ANT: Certo che il “deserto” intorno, il declino di questa nazione e di tutto l’ammasso di pietra e fuoco che abbiamo sotto i piedi, non lasciano intravvedere niente di buono per il futuro.
Mai come adesso la FINE mi è sembrata così vicina.
In questi giorni ho pensato più volte alla colonna sonora che dovrebbe accompagnare il sipario sul mondo (o sui nostri blog) ma poi non ho avuto tempo di metterla nero su bianco.
In questo periodo gli arretrati mi si stanno accumulando a dismisura e non riesco a stare dietro a loro e alle bislacche idee che ogni tanto mi balzano in mente.
Però, devo dire che End of Silence di Rollins non è male in questa veste, come anche la classica The End e gli Stooges ci stanno. Però con Decades (la sa bene Massi) ci vado a nozze. Borthers In Arms perché no, pensandoci bene non è fuori luogo.
Se vi può interessare in questo momento io sto ascoltando Battiato, anche se qui siamo sicuramente fuori tema.
Intanto per la mia colonna sonora per la fine (l’ennesima) parziale del mio blog in questi giorni stavo pensando ai Zoar di In The Bloodlit Dark trattasi di dark ambient pesante e oppressivo. Buio. Ma anche No Fun di Iggy Pop.
Anche se il modo in cui si sta riducendo il pianeta, distrutto e intossicato da violenza, inquinamento, schifezze e ingiustizie di ogni genere mi fa ritenere più adatti i Discharge. O in alternativa qualche band d-beat crust hardcore più recente come gli Halshug o i Nightfall, ma forse è solo l’incazzo dilagante di questi giorni che mi fa optare per questa scelta.


MASSI: Come sarà la fine, Evil?
Ho la sensazione che non lo sapremo mai perché ci nasconderanno anche quella. Forse ce l’hanno già nascosta in mezzo a milioni di nuovi falsi inizi.

EVIL: ...scivolare lentamente e placidamente verso il basso. Goin' Down Slow, diceva quel vecchio blues.
E magari trovare un perverso piacere nel farlo.


***

A margine, una considerazione personalissima (ed una non richiesta “difesa” di questo post).
Credo fermamente che quelli che a prima vista possono sembrare piccoli sfoghi e frustrazioni private, nascondano invece una disillusione ed una mortificazione generalizzate molto più profonde di quanto si possa credere.
Sono sogni infranti, promesse non mantenute, appuntamenti mancati.
Dalla “rete”, che promettendo libertà e democrazia diretta ha invece ottenuto superficialità e populismo gretto.
Dalla Musica, che NON salverà il mondo (per chi non se ne fosse ancora accorto...) e dovrebbe già essere felice di risollevare il morale a qualche (vecchio) ragazzo depresso: un grande merito, a mio avviso, ma sempre trascurato rispetto alla necessità di propagandare il “bello” ed allo sbandierare propositi umanitari superomistici.
Dalla politica e dai contesti “allargati” (economia, religione...), certo va da sé: e chi non se la prende con la politica di questi tempi?
Inoltre ci sono le promesse che abbiamo fatto a noi stessi e che noi non siamo riusciti a mantenere. Piccole cose, certo: lo scrivere un post a settimana; essere recensiti da qualche rivista; ottenere un buon seguito di lettori. Pubblicare un libro, vendere un disco, spuntare un contratto di lavoro.
Piccole cose ma ciò non di meno determinanti per il NOSTRO di morale, che perdonerete, è la cosa ora più importante.

Di nuovo grazie ai miei amici interlocutori; ed ai lettori tutti.

Di seguito una prima, scarna playlist che stiamo costruendo (con l'aiuto di Massi e Ant, si intende)




Killing Joke – Requiem (1980)

Iggy Pop - Funtime (1977)

Slayer - Hell awaits (1985)

Discharge - The End (1982)

St. Louis Jimmy Oden - Going Down Slow (1941)
Uno standard che piaceva ai Free (dirompente Kossof su Tons of Sobs) e ai Led Zeppelin che spesso la inserivano nel medley a chiusura dei concerti.

Rollins Band - Low Self Opinion (1992)
Così si alza il sipario su End Of Silence; morsi hard rock che affondano nella propria carne

Edgar Broughton Band - Evening over Rooftops (1971)
Esistenzialismo in cima ai tetti; una panoramica che starebbe bene sui diari di Palomar; stanchi di tutte le ultime rivoluzioni.

Stooges – We Will Fall (1969)
La pietra tombale sulla stagione dell'amore la mettono Iggy e John Cale con un tetro rituale in penombra.

mercoledì 19 agosto 2015

Una missione per Capitan Vinile


Cool, it’s a fairly self-explanatory plot. Each week we let the hounds of hell lose and we chase that jar-head, no talent, cracker asshole all over the globe … 'till I finally catch that fruity little pony tail of his in the back, pull him to his knees, put a shot-gun in his mouth like a big black cock of death and we’ll be back in '95 with 'Lets Hunt and Kill Michael Bolton’
Bill Hicks

La mia prossima missione sarà trovare ed uccidere Alvaro Soler.
Non lo conosco, non lo seguo; magari è pure una persona a modo, ma non mi interessa.
Tanto meno mi interessa ascoltare la sua musica: voglio ucciderlo.

Oh, ma quanto sei deficiente!? Giudichi le persone senza conoscerle; giudichi la musica senza ascoltarla! Bravo!! Fai come quei cazzoni che sparano giudizi sul metal e sul punk senza nemmeno sapere cosa sono! Spargi merda su Sanremo solo perchè sei uno chic del cazzo che preferisce Frank Zappa?!
Vai a vedere in quanti lo conoscono! Vai a sentire se lo passano per radio!
La musica va ascoltata!”

Bene, bel discorso.

Adesso possiamo possiamo tornare a parlare seriamente.
Ovvero, seriamente: la vita è breve.
Non avrete il tempo di ascoltare tutto quello che vi piacerebbe.
Quindi, bisogna sfrondare.
Uccidendo Soler impedirò che si aggiungano altri dischi a quella marea di plasticaccia che già invade il mercato ogni mese. E per plasticaccia intendo anche tutte le millemila ristampe di Frank Zappa, miei cari bacchettoni pop.
L'altra linea di azione, se mai non dovessi scovare Soler, è comprare tutti i CD che posso, ammassarli in uno stanzino e chiuderli dentro.
Bruciarli no. Quella è roba da nazisti.
Io non sono un nazista.
Mi ritengo più un equo stalinista illuminato.

Ascolti roba che mi fa schifo?

Niet problema tovarish! Gulag!”
Come?”
Si, no problema! Tu va bel villeggiatura fresca, in posto nome “gulag”, su a Solovki. Ci sono campi, e reti; tu sistema, ripara, lavora e non ascolta più Soler.
Anche perchè Soler morto scorsa settimana, sai? Picozza in testa sai... O forse quello era altro...”

Illuminato perchè poi, per contro, investirei un sacco di soldi per diffondere ininterrottamente e gratuitamente nel mondo, non so, Gimme Shelter, Statesboro Blues degli Allman, Roll Over Beethoven, tutto il lato A di Rain Dogs... Così, a gratis, per tutti, in giro per le città, per le autostrade. Tiri giù il finestrino e arriva la musica; libera nell'aria.

certo, la Musica la DECIDO IO.

Ad ogni modo nelle ultime torride settimane mi sono divertito con qualche acquisto a scatola chiusa, così tanto per spendere una decina di euro acquistando orrendi CD usati di Indie primi anni 2000 o giù di lì.
Devo ancora ascoltarli, ma so già che per la maggior parte saranno canzoni educate di civile alternativismo chitarristico, con quel substrato punk che non manca mai; poi magari c'è qualche sorpresa.
Altrimenti se non ci piacciono le sorprese che ascoltiamo musica a fare?
Questa la breve lista della spesa:

- Let's Bottle Bohemia dei Thrills

- Datsuns... dei Datsuns
Sono anni che lo voglio... ma sapete, torniamo al discorso del surplus di plasticaccia...

- Wilderness Is Paradise Now dei Morning Runner
(bel titolo...)

Vi terrò informati. Anzi, se già li conoscete tenetemi informato voi.


Musica parlata, ora.
Ho finito la ponderosa autobiografia di Keith Richards,Life.
Sì, non è mica male. Soprattutto le pagine in cui ci sono preziosi consigli su come consumare droga. Di ogni tipo.
Circa metà del libro.
Nell'altra metà sono tutte cose che più o meno già sapete (certo se siete tossici incalliti, anche la metà sulle droghe, nulla di nuovo eh?)

Musica suonata. O meglio, ascoltata di recente.
Poca roba. Golden Earring e Humble Pie. Potete immaginare quanto sia stato noioso il mio Agosto.
Però c'è una considerazione.
Per chi non li conoscesse, i Golden Earring sono un gruppo di megalomani olandesi con una versione di 18 minuti di Eight Miles Hight come cavallo di battaglia. Non malaccio, dai. In linea con il periodo (1969).
Per il resto suonano un possente hard prog.
Gli Humble Pie... degli Humble Pie ho sempre pensato che da un lato Frampton sia stato clamorosamente ipervalutato, più dal pubblico (che ha comprato 11 milioni di copie di Comes Alive!...) che dalla critica; dall'altro che gli stessi Humble Pie siano sempre rimasti quel maledetto “scalino sotto“ rispetto ai loro reali meriti (che non sono certo clamorosi, ma insomma, si difendono bene).
Per il resto suonano un possente hard soul; più yankee che british.
Entrambi questi gruppi hanno avuto come proprio punto forte il sound.
Il sound
Decine di altri gruppi dell'epoca hanno avuto come punto forte il sound.
Cioè quell'impasto sonoro pieno ma diretto, senza trucchi, senza patinature, senza troppi fronzoli. Eppure caldo, intenso, zeppo di naturale riverbero e vibrazioni profonde. Una pasta che conosciamo bene, fatta di Hammond, Gibson, Marshall, Ludwig, volume al massimo, roba analogica, valvolare...
Spesso sottovalutiamo l'importanza del “puro suono”.
Al di là del songwriting, della melodia, dei ritornelli, delle parole (e chi se ne frega di quelle...).
Perchè poi diciamocelo: mica sempre si ascolta una canzone nota-per-nota, beat-per-beat, secondo per secondo. Spesso si è un pochino distratti, a volte un po' sovrappensiero...
Dove avrò messo le chiavi?”
Quanto era gnocca la cassiera...”
E allora ecco che un bel sound fa il suo dovere.
Cazzo! Bella questa! Questo è Rock!”
E in realtà ve la dimenticate subito; anzi nemmeno l' ascoltate.
Ma “quel” suono... ehi!
Ecco, potrei stare qui o re a disquisire di quanto ogni decennio, o meglio ogni generazione abbia un suo sound, oltre che una sua melodia, un suo atteggiamento... un suono che a volte esce direttamente dalle piccole/grandi innovazioni comprese in quell'angusto spazio tra l'uscita del jack dallo strumento e il banco mixer.
E lì... chi ci capisce...
E quindi tra il '63 e il '68 cambia... era una certa cosa, poi fino a metà '70 un po' diverso... poi ti arrivano gli '80, la Roland e tutto di nuovo va a catafascio...
E' un lungo lungo affare...

Per ora basta; vado a caccia.
A presto, e non piantate picozze nei posti sbagliati...


Capitan Vinile

venerdì 14 agosto 2015

Sun Ra – Appunti per una discografia (parte 2) – Ra su Spotify


In attesa che accada la stessa cosa per altri bulimici estremisti della registrazione come Haino, Jim O'Rourke o K.K. Null - personaggi dalle discografie non facilmente circoscrivibili - Spotify regala numerose soddisfazioni con il beneamato Herman Poole Blount in arte Sun Ra. Occorre ringraziare la Enterplanetary Koncepts, etichetta che sta pubblicando parte del catalogo di Ra in versione digitale rimasterizzata (http://soundcolourvibration.com/2014/05/20/sun-ra-remasters).
Thanks!
Di seguito una prima ricognizione minimamente ragionata di ascolti liberi, tra riconosciuti capisaldi ed oscure uscite tutte da indagare, in ordine meravigliosamente casuale.

***


domenica 2 agosto 2015

Una serata sui tetti


Può sembrare curioso cominciare una discussione sulla fine, partendo da un inizio. Quell'inizio in cui Martin Sheen si risveglia dal suo torpore in un' umida stanza d'albergo a Saigon.
Attorno, un mondo in fiamme. Mentre gli elicotteri volteggiano tra il fumo. Jim Morrison declina il suo personale Edipo, brano che potrebbe anche fare da cardine per tutto il dialogo, non fosse una scelta troppo ovvia.
Brano su cui vorrei comunque ritornassimo, quando la discussione prenderà quota.
Intanto è un'altra la canzone che chiamo a testimone: una crepuscolare meditazione dalla cima di un tetto al tramonto. Evening Over Rooftops (1971), classico assai minore e ultimo fuoco di un grande gruppo dell'undergound britannico: la Edgar Broughton Band. Arrangiato per viole e cori femminei, Evening dimentica le ruvidezze di un Wasa Wasa per un suono magari ruffiano eppure ammaliante nella piattezza catatonica della voce e nello spurio spirito da glam trapiantato in west-coast, di puro stampo esistenzialista.

Somewhere in the distance
On the road so far away
I heard the sound of life
Though the people left for home

Three birds flew off a building
Standing proud against the sky
Many more flew with them
Spiralled up like laughter

Faster, harder
They rose up in a column
Hundreds upon hundreds
And twice that many wingspeed

Four miles across
Stretched a million miles high
The living pulsing column
In the lady of the sky

Feathers thrashed together
Locked in that huge swarm
I knew no-one could see it
And now that it was gone

I rubbed my eyes and tried to find
A reason for the flight
Exodus, escape
Or was it just for me to see?

Dentro ci stanno queste immagini di spettacolare portata: l'ultimo fotogramma degli Uccelli di Hitchcock (una grande Apocalisse cinematografica); la nebbia giallastra sulla città industriale. Così almeno me la immagino. Quella città di cui siamo siamo ancora tutti cittadini; perchè ancora lì stiamo. E se abbiamo creduto di combattere per estendere diritti, abbiamo invece traghettato privilegi.
Non esiste l'uomo “post industriale”. Stiamo ancora guidando appena oltre la macchina a vapore.
E poi quella domanda, ripetuta più e più volte, tanto alla fine da tramutarsi in pura angoscia di vivere:

How far are we from dying
Is it nearly at an end?
How far are we from dying
Is it nearly at an end?...

Scartabellando tra memoria e archivi, ecco l'altro pezzo forte di Broughton: Death Of An Electric Citizen.
In morte di un cittadino elettrico.
Una piccola fine privata, questa, dell'ennesimo dei senza nome che riempie le periferie estese delle immutabili città industriali.
Dove comanda l'economia e latra la politica.

Appena oltre la macchina a vapore.

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