mercoledì 31 agosto 2011

LIVE DESK - Cream - Detroit 1967

Cream
October 15th, 1967

Live at ‘Grande Ballroom’
Detroit, Michigan
CRM101/102

Cream played 2 shows each of the three nights.
Unsubstantiated rumors attribute this recording to Jimmy McCarty, guitarist for the Detroit Wheels, Cactus and the Rockets. McCarty is said to have negotiated permission to record by offering Ginger Baker some "pharmaceuticals" in a little plastic bag ..






Full Album mp3:

martedì 30 agosto 2011

Third World War - I Predicatori della Violenza Perduta - MONOGRAFIA pt.2


MONOGRAFIE: Third World War

I Predicatori della Violenza Perduta
Terry Stamp & Jim Avery, guerriglieri proletari contro il Sistema





Con due album all’inizio degli anni ’70, i Third World War si dimostrarono i più violenti agitatori politici del rock e la prima conscia incarnazione degli ideali radicali di punk e hardcore. Fondendo la cruda satira sociale dei Fugs, la carica elettrica e sovversiva degli Stones e suonando un ruvidissimo garage, coniarono una poetica affascinate ma profonda, troppo presto sommersa dall'ottusità del mainstream. 

Questa monografia in più capitoli verrà pubblicata a puntate sul blog e sumusiche parallele 





THIRD WORLD WAR

Too many people are hanging around with their heads to the ground, wasting themselves. We'll be hearing more of the Third World war. We'll hear, and then see.
Geoffrey Cannon, Guardian 16th October 1970

La Sinergia tra Avery e Stamp, ora passato alla chitarra ritmica, è eccezionale. I due riescono a scrivere musica, condensare idee e stendere testi con una facilità strabiliante. Il primo demo è un pezzo dal titolo Holy Roller. Tanto basta a Fenton per produrre le sessions del nuovo gruppo, battezzato dallo stesso produttore Third World War: nessun riferimento profetico, la terza guerra mondiale si sta già combattendo: è quella tra ricchi e poveri, tra le classi dell’alta-borghesia e le masse proletarie. Con queste premesse la band entra in studio per incidere il primo LP:  Terry Stamp è leader, cantante e chitarrista, Jim Avery la sua spalla al basso; poi Mick Liber alla chitarra solista e il batterista Fred Smith; Tony Ashton, già titolare del trio pop-rock Ashton, Gardner & Dyke, aggiunge il suo piano honky-tonk, mentre Bobby Keyes, sassofonista dei Rolling Stones, suona in Shepherds Bush Cowboy e Working Class Man. Produce John Fenton agli Island Studios, e in effetti il mixing ricorda vagamente quanto stava facendo Guy Hamilton coi primi Free e Mott the Hoople, anch’essi artisti Island. Una produzione abbastanza curata che punta tutto sulla sfrontatezza e sulla abrasività del sound; i musicisti stanno al gioco: Stamp conduce le danze con una “chopper guitar” (così nelle note di copertina) percussiva e metallica, fatta di carta vetrata al pari della sua voce sabbiosa e impastata, qualcosa tra i Pink Fairies di What a Bunch of Sweeties, il primo Lemmy e Joe Strummer. Dal canto suo, il basso di Avery è sempre in primo piano e propelle riff su riff, profondi ed elementari come il miglior Mel Shaker coi Grand Funk. Mick Liber, colora, rifinisce e divaga in meraviglioso isolamento. E’ una musica che perde tutte le bizzarrie freak di Deviants e Hawkwind in favore di una linearità essenziale, addirittura spartana, tutta al servizio del Messaggio Sociale di Stamp. Perché sono i testi il vero motore dell’azione, ben più che la musica. Declamati con pensosa ribellione e una punta di pragmatica disillusione, riannodano il filo con l’agitazione urbana degli MC5. Stamp è però di gran lunga il più diretto movimentatore politico del rock, libero dai moralismi da Greenwich Village dei primi ’60, “politycally scorrect” e a suo modo fazioso ma appassionato. Nessuna utopia, solo la consapevolezza della lotta necessaria. Forse solo Roky Erickson avrebbe potuto essere così esplicito se la marijuana e i  13th Floor Elevators non gli avessero fritto il cervello.
Ascension Day, combattiva opener dell’album, garage rock di prima qualità, mette in chiaro le cose:

Waiting on the roof tops
Looking for a sign
Pull your hand-grenade pin
And i'll pull mine
And don't you know i feel proud
Just to shake your hand
Don't you know i feel proud
Just to make a stand when the old man dies
On ascension day when we rise
Now when we rise
Power to the people
When we rise
Power to the poor
When we rise
Power to the workers
When we rise
Power to us all

Aspettando sui tetti
In attesa del segnale
Togli la sicura alla tua granata
E io la toglierò alla mia
E sai che mi sento orgoglioso
Solo di stringerti la mano
E sai che mi sento orgoglioso
Solo per aver fatto resistenza alla morte del vecchio uomo
Nel giorno dell'Ascensione, quando ci alzeremo
Ora, quando ci alziamo
potere al popolo
Quando ci alziamo
Potere ai poveri
Quando ci alziamo
Potere per i lavoratori
Quando ci alziamo
Potere a tutti noi

In una miscela di Marxismo periferico, Lotta Continua e Democrazia Proletaria, Stamp lancia la sua intransigente proposta di epurazione sociale. La sua scrittura sarà l’equivalente in musica dei volantini di reclutamento delle Brigate Rosse, quindi a tratti fin troppo estrema per essere presa veramente sul serio dal pubblico. Discutibile, ma sempre sincera e appassionata al contrario di tante inutili crociate propagandistiche da superstar in Limousine.
L’inno del lato A sono gli otto minuti di M.I.5's Alive, pervasi da un riff alla Keith Richards e dai tormentati wha-wha di Liber; Stamp la butta direttamente in politica:

domenica 28 agosto 2011

Song to (re)discover: Comus – The Herald


As a single star glides swiftly down the night
A soft wetting note issues from the time-worn flute
Frowning slightly the herald listens wistful across the night
And from way back behind the day comes the echoed answer
The day advances oh so softly his shadow lengthens and his voice is mute
But clear his flute and sadly walks forward followed by the day
Herald of morning walks across the earth eternally
And somewhere in the black distance
Another herald puts down his flute
And the dewy dawn creeps on
And the night withdraws
The day advances oh so softly his shadow lengthens and his voice is mute
But clear his flute and sadly walks forward followed by the day
Herald of morning walks across the earth eternally



sabato 27 agosto 2011

LIVE DESK - Rush - Return to Cleveland


Rush

1974-8-26

Return to Cleveland
Agora Ballroom, Cleveland
Gypsy Eye


MORE AT: 





Nice audio for a really early-Rush set. Interesting tracklist, a band still with very Zeppelin-like sound.


giovedì 25 agosto 2011

PAGANESIMI ELETTRICI - La Maschera della Divinità Danzante Pt. 1


Si dice che la croce cristiana avesse lasciato la Britannia a bordo delle galee del sedicente Imperatore Costantino III, poi detto l’Usurpatore, che sguarnì il Vallo di Adriano caricando uomini, donne e animali sulle navi per approdare sul continente dove il rivale, Onorio, asceso al massimo soglio d’Occidente, cercava di amministrare quel che rimaneva di un Impero.
Dopo alterne vicende che videro i due Imperatori prima acerrimi rivali, poi addirittura alleati per far fronte alla pressione dei Barbari, Costantino si ritrovò assediato ad Arles da orde nemiche di cui nemmeno conosceva la stirpe; con le guarnigioni di Onorio disperse per i boschi della Gallia, l’Usurpatore si vide rinnegato anche dagli ultimi fedelissimi. Cercò di sfuggire alla cattura prendendo i voti e spaccandosi per sacerdote cristiano. Non bastò. Solo la sua testa fu recapitata a Ravenna nella tarda estate del 411 d.C.
Nel frattempo, mentre già fiorivano le leggende sull’Ultimo Sovrano Cristiano d’Oltremanica, la Britannia, totalmente sguarnita e indifesa, si abbandonò alla decadenza più sfrenata.
Il Principe Viaggiatore aveva assistito alla partenza della flotta dall’alto delle scogliere chiare del sud; osservò le navi levarsi sulle onde come un enorme stormo di laridi migratori. Quando si volse verso l’entroterra vide folle a cui ancora non sembrava vero il poter di nuovo erigere altari nei boschi e venerare divinità antiche e dimenticate, poter festeggiare solstizi ed equinozi al posto di Natali ed Epifanie. Spronò il suo cavallo verso una grande tenuta di campagna che possedeva nel Sussex del sud, mentre attorno a lui gli Dei della Festa e del Vino, dell’Amore Carnale e del Banchetto scendevano dagli affreschi delle ville romane e camminavano già tra il popolo euforico.

martedì 23 agosto 2011

Song to (re)discover: Do you remember Ian Hunter?

“Ha smesso da un pezzo di cercare di essere i Nazz. E poi, chi diavolo vorrebbe essere i Nazz?”
(Lester Bangs - Deliri, desideri e distorsioni  p. 86)

Dimenticatevi Robert Plant, dimenticatevi Jagger o Lennon, dimenticate Bowie e i suoi costumi; dimenticate anche di Syd Barret o Daevid Allen. Perché la rockstar definitiva degli anni ’70 fu Ian Hunter. Proprio lui, il più anziano di tutta quella generazione, con una cascata di boccoli biondi, foulards variopinti e svolazzanti, eterni occhiali neri addosso. Questo Dylan metropolitano e logorroico, prestato al metal, che scriveva canzoni di incerto simbolismo raccontando addirittura più di quanto l’ascoltatore volesse realmente sentire. Tanto che a volte viene voglia di dirglielo “Ehi, ok! Ho capito, basta adesso, rilassati!”. Ma lui non si rilassava mai eppure fu tra i pochissimi attori del carrozzone sgangherato di metà ’70 ad avere la lucidità di capire che razza di vita fosse quella, e quanto di marcio ci si portava dietro ogni giorno.
Jagger, Gilmour, Waters, Page magari ci guadagnavano, Marc Bolan ci credeva, i Roxy Music erano troppo intellettualmente distanti per porsi problemi. Hunter ci guadagnò poco e smise di crederci dopo il 19° esaurimento nervoso. Lo mise anche per iscritto, una roba assurda per un rocker in tour: solitamente si era troppo occupati a sfasciare alberghi, fottere le fidanzate degli amici o infilare pesci un po’ ovunque.
Fu un frontman perennemente sull’orlo della crisi, tra schizofrenia e decadenza che nessuno cantò come lui.

Tanta tetraggine è esilarante, o stiamo ridacchiando per reazione nervosa alla paura? No, ridiamo nonostante la reazione nervosa alla paura
(Lester Bangs - Deliri, desideri e distorsioni  p. 86)

The Journey – Mott the Hoople
Da: Brain Capers (Island) – 1971






Boy – Ian Hunter
Da: Ian Hunter (CBS) - 1975





lunedì 22 agosto 2011

Third World War - I Predicatori della Violenza Perduta - MONOGRAFIA pt.1

MONOGRAFIE: Third World War

I Predicatori della Violenza Perduta
Terry Stamp & Jim Avery, guerriglieri proletari contro il Sistema





Con due album all’inizio degli anni ’70, i Third World War si dimostrarono i più violenti agitatori politici del rock e la prima conscia incarnazione degli ideali radicali di punk e hardcore. Fondendo la cruda satira sociale dei Fugs, la carica elettrica e sovversiva degli Stones e suonando un ruvidissimo garage, coniarono una poetica affascinate ma profonda, troppo presto 
sommersa dall’ottusità del Mainstream.

Questa monografia in più capitoli verrà pubblicata a puntate sul blog e su musiche parallele 


TERRENO FERTILE

La fine degli anni ’60 trova la scena londinese impegnata a rielaborare le tante suggestioni sociali e musicali piombate dalla West-Coast. Pur se gruppi di superstar come Beatles, Stones, Who si gettano nella mischia, le cose più interessanti spuntano da un underground ricco di personalità intriganti: Syd Barret, mentore cosmico dei primi Pink Floyd, John “Twink” Adler, freak da antologia, batterista di professione, e soprattutto Mick Farren, militante a capo della comune Social Deviants e futuro leader della band omonima che con Ptooff! (1967) inaugurò la contro-cultura britannica.
All’epoca Terry Stamp è uno che fatica ad arrivare alla fine del mese, fa il camionista ma ha un passato da bassista con i Mike Rabin and the Demons, un complesso beat di terza fascia con cui aveva battuto i locali dell’interland tra il 1963 e il 1967, fino alla chisura del Wimbledom Palais, il locale di riferimento del gruppo. Terry però non abbandona del tutto il “Sogno del Rock” e una sua canzone, Tobacco Ash Sunday, viene pubblicata come singolo nel 1968 dagli Harsh Reality: non fu un successo ma tanto bastò per attirare l’attenzione di John Fenton, menager e produttore di un gruppo di musicisti e cantautori noto come Writers Workshop. Sarà Fenton a presentare a Stamp il bassista Jim Avery, già in tour con i Thunderclaps Newman’s, un gruppo sponsorizzato da Pete Townsend e titolare della hit Something in the Air (su Hollywood Dream, 1969).
Nel frattempo però la scena rock è profondamente cambiata: al pop di Beatles, Herman’s Heremits, Manfred Mann si è sostituito il plotone psichedelico, poi i primi bagliori del progressive e del blues-rock, infine il 1969 fu l’anno del prepotente successo dei Led Zeppelin e dell’hard.



domenica 21 agosto 2011

LIVE DESK - Led Zeppelin - Live in Auckland

Led Zeppelin

1972-02-25


Live in Auckland
Western Springs Stadium, Auckland, New Zealand
Genuine Masters


Rolling Stone reported: "The arrival of Zeppelin brought a near-catatonic reaction from the country’s rock freaks, who descended on Auckland from as far away as Dunedin (the other end of the country: about 900 miles) for the open-air concert. Seats sold at $3.10 and $4.10 and somewhere between 20,000 and 25,000 filled the Westen Springs Stadium (a couple of miles from Auckland city and usually used for stock cars).
After the Auckland show, the band visited a strip-club. One of the strippers followed the band back to the White Heron Hotel and was duly thrown in the pool at 5am.

sabato 20 agosto 2011

Chi ha ha paura del Free Jazz? Pt. 2°

<<Nell’idea di Coleman non esiste un tema vero e proprio e gli assoli non sono impostati su variazioni melodiche o armoniche: la musica fluisce libera, senza limitazioni, tutto dipende solo dalla creatività immediata del musicista...>>





Il lato B suona più notturno e a tratti ipnotico, essendo appannaggio dei contrabbassi e delle batterie. Nell’ordine: Charlie Haden, LaFaro, Blackwell e Higgins, separati, come incorniciati, dai brevi frammenti all’unisono che sono l’unico principio d’ordine nel fluire della composizione, e che restituiscono un senso tangibile di “tempo” e temporalità, coordinata che diversamente sembra scomparire, assorbita nei meandri dell’improvvisazione collettiva.
Ancora un paio di questioni. Quale fu la reale portata di quest’album?
Come tutti i manifesti fu opera sincera ed appassionata, che facilmente può prestare il fianco alla critica più cinica. All’epoca fu certo molto destabilizzante, ma va considerato non come unicum, ma piuttosto nel contesto dei primi lavori di Coleman, di Cecil Taylor, di Sun Ra, e anche di certo Davis, quello “modale” di Kind of Blue (1959), a cui Free Jazz viene a volte contrapposto. Sicuramente Coleman diede un nome e fornì le linee guida per un intero movimento: questo già la dice lunga. Musicalmente il discorso si fa ancora più interessante; come già notava Adorno in “Filosofia della musica moderna”: “L’origine dell’atonalità intesa come purificazione completa della musica dalle convenzioni, ha proprio in questo un che di barbarico”. O ancora: “L’accordo dissonante […] sembra anche, a sentirlo, che il principio d’ordine della civiltà non l’abbia del tutto soggiogato, quasi come se esso in certo modo fosse più antico della tonalità”. Questo essere “barbarica” e “non soggiogata” fece si che, nell’effervescenza dei primi ’60, la musica di Coleman fu subito interpretata dalla comunità nera come un tentativo di riappropriarsi di una primigenia cultura africana, che venne utilizzata come mezzo di rivendicazione di indipendenza e come collante per una nuova unità degli americani di colore. Una Cultura ed una Storia africane percepite, a ragione, come precedenti (più antico della tonalità…) a quelle - di fatto ancora embrionali - degli americani bianchi ex-schiavisti; una musica quindi che riannoda i fili della memoria innalzandola addirittura a memoria di razza. E’ il contributo che il Jazz (non si parla qui solo del free né tantomeno solo di Coleman) ha dato alla nascita del soggetto “Afro-americano”.
Lasciando da parte un attimo i risvolti sociali, occorre poi ribadire che la musica di Coleman eserciterà una grande influenza anche al di fuori del circuito Jazzistico: Frank Zappa, Captain Beefheart, Tim Buckley, George Clinton, perfino il punk di Detroit fino alla new wave e al rock tedesco, veicoleranno la nuova forma di libertà introdotta dal free in ambienti rock e pop, gettando le basi per contaminazioni e sperimentazioni fino ad allora sconosciute. La possibilità di lasciare da parte tanta teoria musicale, unita all’utilizzo di strumentazioni elettriche ed elettroniche (come ribadirà poi Bitches Brew) in mano alla giovanile irruenza rock darà libero sfogo alla creatività dei solisti più virtuosi o dei teorici più intransigenti, contribuendo a fare uscire la musica leggera dal suo stadio larvale di hit parade estiva.

Riguardo alla soggettiva, ciò non di meno dibattuta, “ascoltabilità” / “inascoltabilità” di una musica così prepotentemente estroversa e libera, questo è un falso problema. Armonia, tonalità e tutto quanto da esse deriva, sono convenzioni. Radicate nella cultura occidentale magari da millenni e a cui siamo tutti morbidamente assuefatti, ma sono pur sempre convenzioni; e come tali rinegoziabili. Con l’effetto che non viene meno la musica, ma ne subentra una diversa da quella che apparentemente l’Uso e la Storia hanno legittimato. La stessa cosa succede per le arti visive, quando le avanguardie del primo ‘900 hanno riveduto i centenari canoni di prospettiva, proporzione, riproduzione. A partire dall’Impressionismo, per arrivare a Mondrian, Picasso, Kandinsky, si sono aperte nuove strade alla pittura, svincolandola dalla pedissequa riproduzione del “vero” da realizzarsi secondo regole codificate.
Se può piacere un quadro di Mirò o di Pollock, allora può facilmente piacere anche Free Jazz, senza necessariamente scendere nel profondo della composizione, magari gustandosi i timbri e le coloriture dei solisti.

venerdì 19 agosto 2011

Il Rock secondo John Sinclair *


Non riesco in nessun modo a descrivere, a rendere giustizia dell'impatto della musica rock and roll sull'Occidente, a parte dire che ha segnato la differenza sul pianeta (e non accettate versioni diverse!). Il rock and roll è apparso come un riflesso e un'espressione dei cambiamenti economici e tecnologici che hanno avuto luogo nella civiltà occidentale. Non è stato un caso, ma la manifestazione precisa di un tremendo cambiamento che ha attraversato tutto l'Occidente. Ascoltate "Mvbelline" di Chuck Berrv o "Tuttifrutti" di Little Richard e capirete quello che sto cercando di dirvi: una musica del genere non c'era mai stata prima sulla terra. Quella musica è una metafora precisa della situazione: Richard Penniman che urla "Womp-bob-aloo-momp-a-wompanbam-boom" in faccia a D. Eisenhower, a John Foster Dulles e agli Yankee di New York: questo basta a comprendere la situazione.
Era incredibile! Questi tipi aprivano le loro bocche per cantare e una nuova razza di mutanti si lanciava tra danze e urla nel futuro: guidavano auto veloci e bevevano birra e saltellavano mezzi nudi nei sedili posteriori, pronti a marciare negli anni '60 e librarsi nei '70. Non c'era mai stato niente del genere!
Il rock and roll ha dato il calcio d'inizio al XXI secolo con 50 anni di anticipo, in tre minuti ha fatto il salto dall'era meccanica a quella elettronica, a 45 giri al minuto, cristallizzando tutte le nuove energie generate dall'incontro tra queste due mostruose tecnologie, comprimendole nella forma più compatta, la più esplicita (e implosiva!), per poi far esplodere quell'energia attraverso la radio in ogni angolo dell'America per ritribalizzare i suoi ragazzi e trasformarli in qualcosa di sostanzialmente diverso da quella razza che li aveva messi al mondo.

mercoledì 17 agosto 2011

MUSICHE PARALLELE - Neil Young - Pt.4° - Nuovi eroi, vecchia mitologia

Leggi l'articolo completo su MUSICHE PARALLELE




Quasi una filastrocca, una ninna nanna per cronici insonni o dormienti inconsapevoli; la canzone che apre il disco con il suo inconfondibile giro acustico per chitarra e armonica (Out of the Blue), lo chiude con una marcia elettrica e funebre da inno della IV 4th Panzer Division (Into the Black). Il disco ritorna là da dove era partito, ma lo fa con il timbro cupo e pessimista del basso di Talbot e delle chitarre di Young e Sampedro; ciò che inizialmente pareva un vento fresco diventa autunno profondo e premonitore. Young condensa l’essenza (o la vacuità?) di oltre un decennio di musica rock assumendone i punti temporalmente estremi come pietre miliari di una strada ancora non esaurita: Elvis Presley e Johhny Rotten sono LA partenza e UN arrivo (uno dei tanti possibili, in realtà) di un percorso che ha preteso e tuttora pretende i suoi sacrifici: il re è morto, evviva il re!  (The king is gone but he's not forgotten). Ma, ci mancherebbe, il rock non morirà mai, perché è meglio bruciare in fretta che consumarsi lentamente (it's better to burn out than to fade away). 

lunedì 15 agosto 2011

Chi ha paura del Free Jazz? pt. 1°

<<Nell’idea di Coleman non esiste un tema vero e proprio e gli assoli non sono impostati su variazioni melodiche o armoniche: la musica fluisce libera, senza limitazioni, tutto dipende solo dalla creatività immediata del musicista. Altro aspetto non secondario: ogni componente del complesso può essere solista o accompagnatore allo stesso tempo, senza distinzioni, ruoli e tantomeno gerarchie. La melodia può essere proposta dal sax, dalla tromba ma anche dal contrabbasso o dalla batteria.
Ma allora … niente armonia, quindi niente accordi classici, niente tonalità … ognuno suona quello che gli pare in qualunque momento: un gran caos? >>

<<In Coleman’s idea does not exist a real “theme”, and the solos are not set on melodic or harmonic variations: the music flows free, without limitation, all only depends on musician’s prompt creativity. Another important aspect: each component of the band can be soloist or accompanist at the same time, without distinction, nor roles and hierarchies. The melody may be proposed by the sax, the trumpet, but also by the bass or drums. But then ... no harmony, no classical arrangements, no tonality... each one plays what he wants at any time: a big mess?>>

venerdì 12 agosto 2011

Songs to (re)discover: Tris from US underground

My Little Firefly - Heavy Crusier
Da: Heavy Cruiser - (Family Productions FPS 27??) - 1972

The Night Is Calling – Banchee
Da: Banchee - (Atlantic 8240) – 1969

Golden Sails – Mason
Da: Harbour - (Eleventh Hour 1001)  - 1971





Un terzetto originale del più puro underground USA tra il 1969 e il 1970. 3 brani “slow” a tratti ipnotici, a tratti scintillanti. Tre hit mancate. My Little Firefly è un blues lento e distorto della chitarra di Neil Merryweather, un ricordo psichedelico in frantumi tratto da un rarissimo album del 1972.  The Night Is Calling, dei Banchee, band della East-Coast dedita ad un raro Progressive - yankee, è un brano atmosferico e variopinto. Infine Golden Sails del power-trio Mason, dalla Virginia, è un folk elegante e orecchiabile memore dei primi Jethro Tull.

A trio of the purest original U.S. underground between 1969 and 1970. 3 songs "slow" , at times hypnotic, at times scintillating. Three missing hits. My Little Firefly is a slow blues and distorted from Neil Merryweather’s guitar, a memory of psychedelic pieces taken from a rare ’72 album. The Night Is Calling, by Banchee, an East Coast band devoted to the a rare Yankee-Prog, is a colorful and atmospheric composition. Finally, Golden Sails by power-trio Mason, from Virginia, is an elegant and catchy folk reminiscent of early Jethro Tull.




    

giovedì 11 agosto 2011

MUSICHE PARALLELE - Neil Young - Pt.3° - La perdita dell'innocenza


VISITA MUSICHE PARALLELE PER GLI ALTRI CAPITOLI


Gioco a carte scoperte. Non pretendo di fornire un’analisi letteraria del testo di una canzone; si correrebbe il rischio di trattare come alta poesia i pensieri confusi di qualche ventenne fumato. Però il bello dell’arte è che quando è illuminata, acquista una vita propria, che va anche molto oltre i meriti e le intenzioni del suo autore, specialmente quando il pubblico la raccoglie, la condivide e non ne perde la memoria. Con questa premessa voglio mettermi al riparo, perché il significato di questa canzone lo conosce forse solo il suo autore. Ma non vorrei limitarmi a considerazioni superficiali e quindi buttiamoci in una traccia d’analisi che sicuramente è apocrifa e non verificabile, ma mi ripeto: il bello di certa musica è che trascende le intenzioni e il valore dell’autore, vive una esistenza propria, e a lei solo bisogna rendere conto. Se poi sarà sorpassato qualche limite, i lettori più attenti, sono certo, me lo faranno notare. Per chi volesse approfondire ulteriormente la genesi e la contingenza del brano rimando al variegato mondo di internet, specialmente al sitohttp://www.thrasherswheat.org. In questa sede ammetto che interessa più l’opera che l’autore.
Nel “canzoniere” di Neil Young c’è sempre stato uno spazio speciale per il mondo delle Americhe precolombiane, dagli Incas a Toro Seduto. L’album Zuma fu addirittura un “concept” sull’argomento. Qualcosa che storicamente va anche molto più indietro rispetto all’idea di frontiera o di ”epopea americana” cara ad altri (cant)autori. Per Young, come in un film di Terrence Malick, questa fase storica coincide con una sorta di età dell’innocenza dell’uomo, una fase di comunione con le divinità e con la natura che, individualmente e trasversalmente lungo la linea del tempo, corrisponde anche alla giovinezza di ognuno di noi. In Rust Never Sleeps tre canzoni  del lato A ci descrivono questo mondo: Pocahontas, Ride my Lama, e Sail Away: bozzetti acustici e sfumati sospesi in un aura di meravigliato stupore per il Creato.
Poi arriva Powderfinger...  

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