Da poco ripubblicato in versione remaster, Led Zeppelin IV è questa
settimana alla posizione numero 7 di Billboard.
Colgo allora l'occasione per ripubblicare anch'io una vecchia e
gloriosa serie di post che hanno composto il libello "7 volte Led ZeppelinIV". E ne approfitto anche per aggiungere, alle tante recensioni redatte
ad arte, il mio personale, sincero e chiaramente non richiesto, parere sull'album.
Un album cocciuto, prodotto da una band che con testardaggine e poca
naturalezza si è sforzata di comporre Il
Capolavoro. Senza riuscirci.
Un album che oggi suona più datato del Secondo, per esempio, senza
quella giovanile freschezza e strafottenza, ma con su una patina grigiolina e
un po' polverosa.
Detto questo, ci sono comunque grandi pezzi, perché va riconosciuto a
'sto gruppo di avere scritto enormi pagine della loro epoca. Una di questa è, a
mio parere, When The Levee Breaks,
brano sommo e paradigmatico di una nuova epoca per il Blues.
Altra postilla: non è colpa di Page & Plant se Stairway to Heaven è stata eletta da una
generazione un po' miope (forse più di pubblico che non di critica ma è un
giudizio, riconosco, azzardato per chi di quella generazione non ha fatto
parte) come uno dei brani - se non proprio “il brano” - più rappresentativi
nella storia del Rock.
Sarà merito anche nostro dimostrare che certe verità storiche si
possono rivedere.
Ma ora basta!
Eccovi 7 volte Led
Zeppelin 4 Remaster
Cosa cambia dall'originale?
Niente.
Proprio come nel remaster degli Zeppelin.
Buona lettura!
Un gioco di variazioni linguistiche per recensire un album, Led Zeppelin IV, in sette modi
alternativi, come se fossero scritti da altrettanti “personaggi” con caratteri,
punti di vista e linguaggi diversi.
Ogni pezzo è caratterizzato da un lessico, una sintassi e una
fraseologia specifici, assai differenti gli uni dagli altri, ciò non di meno
coerenti con la consegna di recensire un famoso album di musica rock come Zoso,
fornendo giudizi, informazioni sugli autori, l’epoca e le canzoni, almeno
quelle più celebri.
Le regole del gioco
1- L’album
da recensire è uno e uno solo.
2- Le
recensioni, almeno dal punto di vista generale, devono essere favorevoli.
Questa è una regola restrittiva ma necessaria per non ridurre il tutto a due
schieramenti contrapposti: bello – brutto. Pur nelle loro diversità, pur nel
loro personalissimo punto di vista, i sette recensori danno un giudizio di
fondo positivo dell’album, ognuno di loro soffermandosi sui punti forza più
coincidenti con la propria personalità.
3- Le
recensioni devono essere verosimili e spendibili, se non per la stampa
specializzata, almeno per una qualsiasi webzine. Quindi niente giochi
linguistici, nessuna caricatura esagerata e tantomeno parodie di genere. I
sette recensori scrivono testi buoni, sbilanciati secondo i differenti
caratteri ma mai banalmente iper-caratterizzati. Altra regole restrittiva, che
obbliga ad un certo lavoro di lima.
4- Le
recensioni devono avere una lunghezza di una cartella circa, per uniformare
ulteriormente i prodotti finali
5- Non
si dicono bugie. Si possono riportare opinioni, pareri, impressioni ma non si
possono scrivere volontariamente inesattezze evidenti nelle date, nei nomi, nei
titoli.
Lo scopo del gioco
Non ci sono vincitori né vinti, non ci sono premi né classifiche. Il
gioco si propone di indagare l’elasticità e le potenzialità che possiede la
lingua anche quando si confronta con generi altamente stereotipati come la
“recensione musicale”.
L’album
Alcune notizie formali sul disco oggetto delle recensioni.
Artista: Led Zeppelin
Album: Untitled, IV, Zoso
Pubblicazione: 8 novembre 1971
Durata: 42 min, 39 s
Tracce: 8
LATO A
Black Dog - 4:57 -
(Page, Plant, Jones)
Rock and Roll - 3:40
- (Page, Plant, Jones, Bonham)
The Battle of
Evermore - 5:52 - (Page, Plant)
Stairway to Heaven -
8:03 - (Page, Plant)
LATO B
Misty Mountain Hop -
4:38 - (Page, Plant, Jones)
Four Sticks - 4:45 -
(Page, Plant)
Going to California -
3:31 - (Page, Plant)
When the Levee Breaks
- 7:08 - (Page, Plant, Jones, Bonham, Minnie)
Etichetta: Atlantic Records
Produttore: Jimmy Page
I personaggi
Da un punto di vista psicologico e culturale, i sette personaggi si
posso considerare come divisi in due gruppi: caratteri forti (gonzo, pedante e bastian contrario) e caratteri deboli (narratore, analitico
e fanatico) con il conformista a fare da raccordo e sintesi tra i due schieramenti.
Graficamente stanno un po’ come la carta del sette di denari nel mazzo piacentino: bella, simmetrica, ma
“pitagoricamente” aperta, in cui due fazioni si fronteggiano a coppie e un
elemento sta a metà tra i due gruppi.
I caratteri deboli sono succubi
del disco e tendenzialmente privi di spirito critico, originalità se non
addirittura di autostima, e cercano di mascherarlo ognuno a suo modo.
Il fanatico non si pone
domande e vive di passione incondizionata e acritica che gli impedisce
un’analisi accurata e obiettiva. Vive la musica come l’ultrà vive lo sport
dalla curva dello stadio. E se alla fine si perde, è colpa dell’arbitro.
Il narratore si nasconde
continuamente dietro l’uso reiterato della prima persona, come a volere
dichiarare in anticipo che ciò che scrive è solo ciò che lui pensa, senza quindi fornire alcuna garanzia di obiettività,
anche solamente abbozzata. Sempre raggomitolato nel proprio personalissimo
giudizio di gusto, si mette al riparo dalle critiche perché, tanto, de gustibus…
L’analitico abbonda di
precisazioni oggettive (nomi, date, titoli…) senza però mai esprimere opinioni
personali, se non stereotipate e di facciata. Il suo intento è puramente
informativo, mai critico.
Al contrario i caratteri forti
cercano di dominare l’album, di farne una personale materia d’indagine,
spesso eccedendo in supponenza, volgarità e pignoleria.
Il gonzo parla in prima
persona come colui che per anni ha vissuto di musica e quindi sa quello che
dice, anche se ai più può sembrare quantomeno bizzarro. La garanzia sul suo
giudizio è lui stesso, la sua esperienza, il suo vissuto.
Il pedante da sfoggio di
cultura e memoria, salvo poi perdersi del tutto in esse, dimenticando che lo
scopo di una recensione è presentare un prodotto, non dimostrare enciclopedica
conoscenza.
Il bastian contrario,
rigettando costantemente l’opinione comune, vive in un “mondo parallelo” di
democrazia all’opposto in cui sono le minoranze e i vinti a scrivere la storia.
Mirabile, ma spesso forzato.
Questi sei personaggi, presi a due a due, possono essere considerati due facce della stessa medaglia. Così
da una parte sta l’analitico, con le sue puntuali precisazioni, dall’altra il
pedante, con le sue fumose digressioni: entrambi parlano del superfluo.
Da un parte il narratore, nascosto dietro la prima persona, dall’altra
il gonzo, che da sfoggio della prima persona: entrambi sono personaggi nel
testo.
Da un lato sta il fanatico, che replica ed amplifica il pensiero
comune più acritico e succube del mercato; dall’altro il bastian contrario che
sta costantemente fuori dal coro. Entrambi sono dei succubi della democrazia.
E il conformista? E’ un
carattere liquido, che si adatta alle situazioni e si piega facilmente al
soffiare del vento; però lo fa con cautela, perizia e buona scrittura. Qual è
il suo intento ultimo? E’ rifugiarsi costantemente nell’oggettività, o meglio
in ciò che egli scambia per oggettività e che è invece il pensiero più
condiviso, che può essere quello della maggioranza o quello degli esponenti più
riveriti di una comunità (per Hume era il “consenso degli esperti”). In questo
modo crea l’illusione dell’inattaccabilità, dell’esattezza e dell’obiettività,
ma in realtà si schiera solamente dalla parte più numerosa o da quella con la
voce più forte. Non fa che perpetuare una convenzione,
cioè che la verità sta dalla parte dei più forti, cosa che nell’Arte, in cui il
parlare di verità ha spesso poco senso, è di fatto un discorso vuoto.
In dettaglio…
Il Fanatico
Il fanatico non scrive una recensione, compone l’esegesi di un testo
sacro, l’agiografia di eroi leggendari. Grammaticalmente sfrutta tutte le
possibilità del superlativo relativo ed assoluto ed abbonda in iperboli tali da
andare anche oltre la sfera musicale di competenza. L’analisi delle tracce è
completa ma non troppo approfondita: non si sa mai che scavando troppo si trovi
qualche difetto… La stessa cosa accade per i riferimenti a band analoghe: sono
ammessi paragoni solo con altri Immortali. Piuttosto comune la “professione di
umiltà” come introduzione.
L’analitico
L’analitico è un pignolo al primo stadio. Utilizza come massima
espressione grammaticale l’inciso e la frase incidentale, definendoli tramite
virgole, parentesi ma anche trattini, come fosse un discorso diretto finito per
caso nel testo. La sua attenzione sarà massima verso i particolari e assai
minore rispetto al contesto e al quadro d’insieme. Innamorato di nomi e date,
non mancherà di informarci all’inverosimile sul superfluo, faticando a
trasmettere calore e passione. Il suo è un intento puramente informativo.
Il narratore
Questo personaggio vi accompagnerà lui stesso nella recensione in
quanto, oltre che autore, ne è anche narratore interno. Da qui il largo
utilizzo della prima persona e di frasi ricche di pronomi e aggettivi
possessivi a formare espressioni del tipo: “a mio parere”, “mi fa venir in
mente”, “per me”… E’ comune il tentativo di dare un taglio più narrativo al
testo, fatto ben evidente nell’utilizzo di introduzione e conclusione collegate
e a tema autobiografico. Spesso il testo degenera in uno scolastico
“simil-tema-del-liceo” a sfondo musicale.
Il gonzo
Nella migliore delle ipotesi è una narratore con cognizione di causa;
nella peggiore, la più comune, è solo un fanatico che usa la prima persona del
verbo. Adopera frequentemente inglesismi bizzarri (e italianismi, perché no?) e
frasi fatte da critico; è un cultore di beat generation, Lester Bangs e Charles
Bukowski; non rinuncia a parole o espressioni volgari e tratta spesso del
proprio vissuto piuttosto che dell’album in questione; risulta sempre scettico,
cinico e disincantato riguardo al carrozzone della musica rock, di cui per
altro fa immancabilmente parte.
Il bastian contrario
Il bastian contrario è in disaccordo per principio; non è un critico,
non è un analista o un libero pensatore. E’ uno statista: identifica la
maggioranza e si schiera al suo opposto. E’ prigioniero, in modo contrario,
delle convinzioni altrui.
La logica sarebbe stata fare di questo pezzo una recensione negativa,
ma ciò contravveniva alle regole del gioco e si è dovuto ripiegare su un
profilo un po’ differente. Il bastian contrario è in accordo sul piano generale
(Led Zeppeli IV gli piace!) ma è in perenne disaccordo nello specifico.
Non lo nego, è stata una sfida!
Il pedante
Costui fa della digressione la sua arma segreta: meno preciso
dell’analitico, più verboso dell’esaltato, il pedante ha grossi problemi nello
stare entro i limiti di lunghezza. Abbonda di punteggiatura e perifrasi, evita
le ripetizioni solo con estenuanti giri di parole. Il suo periodare è a volte
involuto e sovente ipotattico. e proprio attraverso la sintassi passa la sua
caratterizzazione. Spesso sull’orlo della supponenza, non riesce mai a cogliere
nel suo testo il senso unitario di un album. Pur non andando fuori tema, la sua
recensione, ad una lettura attenta, parlerà di tutto fuorchè dell’album in
questione.
Il conformista
Un tipo subdolo; ottimo padronanza della lingua, testi equilibrati,
lessico vario. Lo si riconosce, a volte, solo ad una seconda e più approfondita
lettura. Raramente prende posizioni definitive, smorza ogni superlativo, è un
virtuoso della compensazione e dell’equo bilanciamento. Politicante della
musica, “veltroniano” della sintassi, predilige costruzioni correlative del
tipo “non solo… ma anche”, “sia… sia”, “né… né”. Sfrutta forme avverbiali e
dubitative che passano spesso inosservate come “forse”, “probabilmente”,
“magari”, “quasi certamente”… Si fingerà in disaccordo sulle piccolezze ma è
solo una strategia per sviarvi: sul piano generale, laddove le cose contano,
sta sempre con la maggioranza o con il pensiero degli opinion leaders dominanti. Facile ai populismi, il suo fine è
l’illusione dell’oggettività.
In conclusione…
Chiunque ha avuto a che fare, attivamente o solo passivamente, con la
scrittura ad argomento musicale, si è dovuto confrontare, magari in modo
indiretto, con stereotipi di questo tipo, che qui sono sette ma potrebbero
benissimo essere il doppio… Stereotipi
che si generano spesso a partire dalla lingua, dal lessico e dalla sintassi,
per poi espandersi alle opinioni, ai giudizi fino alla critica vera e propria.
Stereotipi utili per costruirsi
categorie che facilitino la comprensione della sfuggente materia artistica ed
estetica, utili per creare classificazioni che agevolano la formulazione di un
giudizio. Ma che vanno sempre riconosciuti come tali: contenitori chiusi, poco
malleabili e tendenzialmente assai pratici quanto però convenzionali. Occorre usarli, ma non lasciarsi usare da
essi.
In molti si potranno riconoscere in qualcuno di questi caratteri,
probabilmente in più di uno, magari in un intero schieramento. E’ la normalità.
Sfruttarli, analizzarli, sviscerarli è un buon modo per imparare a
gestirli, impiegarli nel migliore dei modi e magari esorcizzarli. Imparare a
spenderli con parsimonia e consapevolezza, per
non abdicare mai il proprio gusto alle categorie altrui.
Il Fanatico
Non so se sia possibile trovare le parole giuste per descrivere un
capolavoro come questo; spero di essere in grado di farlo, ma l’importanza e la
celebrità di questo disco fanno veramente venire i sudori freddi a chiunque
provi a recensirlo.
Led Zeppelin IV è il quarto leggendario album di una band a sua volta
leggendaria: i Led Zeppelin. Dopo avere gettato le basi per tutto l’Hard Rock e
buona parte del Metal (merito condiviso con altri giganti di quel tempo: Black
Sabbath e Deep Purple) la band del geniale chitarrista Jimmy Page si concentra
per la realizzazione dell’album perfetto. E ci riesce, a partire dalla mitica
copertina che ormai ha fatto storia. Dall’inizio alla fine, dall’intro di Black Dog alla dissolvenza di When The Levee Breaks, quest’album
mantiene un livello musicale altissimo e costante, senza nessun cedimento,
nessuna indecisione e picchi di vertiginosa bravura e virtuosismo.
Black Dog è un opener coi fiocchi: giro di basso tiratissimo e vocals
estroverse e potenti, in quel puro stile hard che ti sbatte nelle tempie. Segue
Rock’n Roll, una traccia il cui solo
nome già dice tutto: un concentrato di rock purissimo che parte da Good Golly
Miss Molly e attraversa vent’anni musica scatenata, rivista sotto l’aura di
ultrapotenza del combo di Page & Plant. Con la terza canzone, The Battle of Evermore, entriamo in un
regno di magia e suggestione affascinante, misterioso, sia per la delicatezza
degli strumenti acustici sia per la presenza, come seconda bellissima voce, di
Sandy Denny, che duetta con Plant su un testo che cita Angeli di Avalon e
Regine della Luce: un mondo pagano e antico collegato al sorprendente utilizzo
di quattro antiche ed indecifrabili rune che sostituiscono i nomi dei
componenti della band. Un incredibile voltafaccia al marketing.
Ma ecco che arriva il pezzo che più di ogni altro rappresenta un modo di fare rock ormai scomparso: un
modo epico, che affianca ad un virtuosismo fantastico l’ispirazione e la gioia
stessa della musica. Quel pezzo è Stairway
to Heaven, massimo testamento artistico del dirigibile e ballata dall’aura
mistica che fa letteralmente sognare ad occhi aperti, fissandosi in modo
indelebile nelle memoria. Page inizia con un arpeggio sul manico della dodici
corde, Jones lo segue con le sue tastiere flautate. Quando, a metà del brano,
si aggiunge la possente ed inimitabile batteria di John Bonham (R.I.P), ecco
che la canzone decolla verso vette inconcepibili per noi umani. Il lungo assolo
di Page è uno dei tre o quattro più famosi pezzi per chitarra di sempre assieme
a quelli di Hotel California e Bohemian Rhapsody dei Queen. Alla fine
di questa strepitosa canzone non ci sarebbe altro da aggiungere, ma i quattro
fenomeni non hanno ancora finito il loro trattato sulla perfezione in ambito
Rock. Ed ecco che le tastiere introducono Misty
Mountain Hop, una canzone assai ascoltabile e ritmata. Poi viene il curioso
esperimento di Four Sticks in cui
Bonzo suona addirittura con quattro bacchette! La penultima song, Going to California, è una canzone
acustica che apparentemente rinuncia al furore hard, sulla falsariga di certi
pezzi dell’album precedente: una dolce ballata che ci dimostra come questo
gruppo fosse composto da artisti veramente completi e difficilmente
etichettabili in maniera univoca.
Chiude l’album When The Levee
Breaks, con la più imponente batteria mai incisa su disco che apre un lungo
brano che ci chiarisce le profonde e più autentiche radici blues del quartetto.
Per concludere, chiunque ascolti questo album sa di trovarsi di fronte
ad un’opera immortale, un disco epocale, un inossidabile masterpiece di tutta
la musica, come adesso non se ne fanno più; composto da musicisti completi che
hanno saputo trovare la via alla perfezione della musica rock lassù, su una scala verso il paradiso.
L’analitico
Led Zeppelin IV, o Zoso (cioè la trascrizione della runa
che identifica Jimmy Page in copertina), è il quarto album del celebre gruppo
inglese. Pubblicato nel novembre 1971 senza che sulla busta comparissero i nomi
dei musicisti, per volere del gruppo stesso, è per questo spesso identificato anche
come “Untitled”. Può essere
considerato il coronamento del primo periodo della band, fondamentale e
seminale, cominciato con Led Zeppelin I
(pubblicato nel 1969) e proseguito negli altri due dischi successivi (II e III).
Musicalmente gli Zeppelin spaziano dall’hard rock alla ballata
acustica, fino al blues, dimostrandosi ben capaci di affrontare con scioltezza
e padronanza perfetta stili anche così diversi tra loro.
La prima traccia, “Black Dog”,
derivata da un giro di basso scritto da John Paul Jones, apre le danze con una
struttura “stop & go” che ricorda “Oh Well!” dei Fleetwood Mac (su Then Play On, 1969).
La seconda traccia, “Rock and
Roll”, comincia con una citazione di una vecchia canzone di Little Richard
del 1958, “Good Golly Miss Molly”, e prosegue come un omaggio scanzonato al
vecchio rock n’ roll di fine anni ’50, quello di Chuck Berry, Elvis Presley e
Jerry Lee Lewis. Un pezzo veramente scatenante.
Nella terza traccia, il cui titolo è “The Battle of Evermore”, compare, come seconda voce, Sandy Denny,
la cantante di un gruppo folk, i Fairport Convention, piuttosto famosi
all’epoca e freschi dei successi di Liege
& Lief (1969) e Full House
(1970). E’ una delicata ballata di quasi 6 minuti in stile medioevale in cui
Robert Plant cita riferimenti alla vecchia tradizione pagana inglese. E’ un
pezzo molto affascinante, mistico e in grado di trasmettere un’aura misteriosa
all’ascoltatore anche grazie al mandolino suonato da Jones. Jimmy Page non
aveva in effetti mai fatto mistero di avere un grande interesse per la figura
di Aleister Crowley, un occultista vissuto in Inghilterra tra il XIX e il XX
secolo: anche a lui si ispira la copertina interna, con la figura dell’Eremita
(carta n° 9 dei Tarocchi).
Questi tre brani forniscono una sorta di introduzione al capolavoro
del disco e probabilmente di tutto il Rock dell’epoca e non solo: “Stairway to Heaven”. È questa la
canzone più trasmessa in assoluto dalle radio statunitensi che la mandavano
spesso in onda in contemporanea con il funerale di qualche giovane fan della
band; già da questo possiamo capire l’importanza e la considerazione, del tutto
meritate, che ha assunto nel tempo. Inizia con un arpeggio leggero di Page
sulla chitarra a dodici corde, mentre le tastiere di Jones, che imitano il
suono di un flauto, la accompagnano con una melodia di grande mestizia. Poi
arriva la voce di Plant ad introdurre il tema della “scala dorata”, un testo che il cantante sosteneva di avere scritto
come in trance; a metà del brano si aggiunge anche la batteria di John Bonham,
che conduce al famosissimo assolo alla sei corde di Page, un momento di
altissima tecnica strumentale.
Il brano seguente, “Misty
Mountain Hop”, presenta un interessante riffing “multi-layer” per piano
elettrico doppiato dalla Les Paul.
Intrigante anche “Four Sticks”,
che Bonham interpreta con quattro bacchette (due per mano) per tenere un tempo
dispari in 5/8.
Nei 3 minuti e mezzo di “Going
to California”, il gruppo ritorna esattamente al sound del terzo album,
(“That's the Way” in particolare) con un soffice brano acustico che rappresenta
un omaggio di Robert Plant all’amata California e in particolare alla cantante
Joni Mitchell.
“When the Levee Breaks”,
ultimo brano, è la cover di un vecchio blues composto da Memphis Minnie nel
1929: l’introduzione di batteria è monumentale tanto da essere in seguito stata
campionata da numerosi gruppi hip-hop tra cui i Beastie Boys di “Rhymin' &
Stealin” (da Licensed to III, 1986);
la canzone è un torrido blues in 12 battute con chitarre ruggenti ed armonica
incisa in modalità “backwords”, al contrario, con un bell’effetto straniante.
L’album venderà qualcosa come 23 milioni di copie (23 dischi di
platino) facendo delle sue canzoni, e di “Stairway
to Heaven” in particolare, manifesti intramontabili del rock classico degli
anni ’70.
Voto: 9,50/10
Il narratore
Mi accingo a scrivere questo pezzo mentre il CD ancora gira nello
stereo. E’ passato ormai parecchio tempo da quando ho acquistato Led Zeppelin
IV per la prima volta, ma ne è passato poco dall’ultimo ascolto. Questo è uno
di quegli album che riesce sempre a trasmettermi qualcosa di profondo, che ogni
volta mi regala emozioni nuove e differenti dalle precedenti. Voglio mettere
subito in chiaro le cose dicendo che, a mio parere, questo è uno degli LP che si
merita il titolo di capolavoro. E mentre il mio stereo è a tutto volume,
incurante delle orecchie di chi sta al piano di sotto, voglio anche tagliarla
corta coi preamboli.
Immergiamoci allora insieme nell’ascolto del mitico Zoso!
E che inizio! Non c’è il tempo di rilassarsi un attimo che siamo
subito inseguiti dal cane nero di Black Dog, un classico hard rock come gli
Zeppelin ci hanno abituato nei precedenti lavori.
Rock n’ Roll, non c’è niente da fare, mi fa sempre scatenare: una
canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry rivisitata
dalla potenza del quartetto inglese. Con una accoppiata di tracce del genere la
strada sembra segnata. Ma ecco uno di quei cambi di umore che segnalavo
all’inizio: Battle of Evermore è una ballata lenta, in cui ogni volta ci sento
dentro qualcosa di nuovo. La prima volta che l’ascoltai, devo ammetterlo,
rimasi delusa; ma col tempo, ho cominciato ad apprezzarla di più: sarà per gli
intrecci acustici di chitarra e mandolino o per la bella voce della cantante
Sandy Denny che duetta con Plant? Un brano, a mio parere, ancora da scoprire a
pieno nel catalogo degli Zeppelin.
Ma ecco che ci siamo; alzo appena il volume, spengo la luce. E’ il
momento di Stairway to Heaven. Una canzone per cui proprio non ce la faccio ad
essere oggettiva; perché? Forse perché non è una canzone ma è la canzone; quella che mi ha fatto
scoprire il Rock, quello con la “r” maiuscola, quello degli anni ’70, quello
che mi ha accompagnato nei momenti più esaltanti e mi ha sorretto in quelli più
deprimenti. Non ho tante parole per descrivere questo brano: ascoltatelo voi,
in silenzio, magari in penombra; ascoltate l’assolo di Page.
Il tempo sembra fermarsi per un momento… ma il CD gira e l’album è
incalzante. Misty Mountain Hop è una canzone che ho sempre ritenuto
sottovalutata, forse sarà il fatto che segue un mostro come Stairway o che
magari manca un po’ di “personalità”; io la trovo accattivante, robusta nel
riff ma affascinante nelle liriche un po’ lisergiche e surreali. Ma a proposito
di fascino vorrei spostare per un attimo il discorso sulla copertina di
quest’album, misteriosa ma piena di significati, in cui il gruppo ha voluto
rappresentare, nel contrasto tra il vecchio e la città, il contrasto planetario
tra “natura” e “umanità”.
Fra tutti i brani dell’album, Four Sticks è sempre quello che mi ha
preso di meno: riconosco la bravura di Bonzo a destreggiarsi in una ritmica
così complessa, ma la melodia non mi ha mai convinto più di tanto. Poco male
perché il brano seguente, Going to California, con la sua dolcezza acustica è
sempre stato uno dei miei preferiti nel catalogo “Zeppelin Unplugged”. Una
canzone che a tratti ricorda i brani migliori di Led Zeppelin III e che è
un’ode del gruppo all’amata west-coast.
Un paio di secondi si silenzio, ed ecco che una batteria veramente
statuaria ha riempito la mia stanza: è When the Levee Breaks, ultimo pezzo, un
ritorno all’amato blues dell’album d’esordio. Un brano che mi richiama alla
mente certi passaggi di How Many More Time o addirittura di Dazed and Confused,
altro capolavoro che ho amato alla follia.
Non resta molto da dire; anche il mio stereo si è spento, dopo
l’ultimo giro vorticoso di un CD da considerarsi immortale. Ancora un ascolto,
e mi sento pieno di qualcosa di nuovo. Credo che ogni disco si possa amare od
odiare, credo che ognuno di noi abbia un capolavoro che qualcun altro detesta.
Forse questo è l’album che ci può veramente mettere d’accordo tutti; almeno su cosa sia il Rock, quello vero.
Alla prossima!
Il pedante
Non si può certo dire che nel 1971 la ribalta della scena rock
mondiale non fosse ricolma di grandi nomi e grandi dischi: Sticky Finger degli
Stones, L.A. Woman dei Doors, Fragile degli Yes, Who's Next e tanti altri. Fu
in questo notevole momento di creatività diffusa che i Led Zeppelin, i quali
già da qualche anno avevano scosso la scena musicale prima con l’esordio hard
blues di “I” e soprattutto con la vera e propria invenzione di un nuovo sound,
l’hard rock, con il cosiddetto Bombardiere Marrone, arrivano con la loro quarta
uscita a raggiungere quella perfezione formale che stabilirà un nuovo canone
per tutto il classic rock e l’AOR dell’immediato futuro. Cosa sarebbero
Aerosmith, Bad Company, Foreginer, ma forse anche Styx e Kansas senza gli
Zeppelin e soprattutto senza questo album?
Un album che già dalla copertina detta le regole: in questo caso la
regola di rinunciare in toto al
marchio; rinunciare all’immagine, quel logo che per tanti gruppi è sinonimo di
commerciabilità e vendibilità, che magari i progressivi più sofisticati si
facevano disegnare da qualche illustratore famoso (magari Roger Dean?), perfino
quel nome, quello stesso che stava stampato sui primi tre album degli Zeppelin,
è quello stesso nome che scompare da IV, che per questo, non senza ragione,
viene spesso identificato con l’appellativo di “Untitled”. Come se la Apple
rinunciasse alla “mela” o Google al proprio nome colorato. Eppure in quel
periodo, pur così denso di dischi che sarebbero presto diventati classici, questo
album fu immediatamente riconoscibile poiché portatore di un messaggio che non
poteva essere facilmente travisato.
Quel messaggio, che oggi è giustamente riverito come uno dei massimi
testamenti musicali dell’epoca, ma non solo, è Stairway to Heaven. Il brano che
inizia con un dolce arpeggio di Page alla dodici corde, presto accompagnato
dalle tastiere da favola di Jones, prosegue come una “power ballad” da manuale
che sfocia finalmente in uno degli assoli più celebri della storia del Rock. E
qui è necessario aprire una parentesi per considerare quanto questi pochi
minuti strumentali abbiano colpito i giovani americani infatuati di rock nei
primi anni ’70, quelli che magari già strimpellavano qualche strumento al
college e che dal giorno in cui ascoltarono questo
pezzo ebbero chiara la strada da percorrere. Pensiamo a Montrose, Blue
Oyster Cult, Boston, di nuovo ad Aerosmith, Bad Company, Foreginer: anche qui
forse c’è la ragione della loro esistenza.
E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per
gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia
sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se
non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel
sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di
certo la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli
d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca.
Chissà se Chuck Berry, nello strimpellare Johnny Be Good o Roll Over
Beethoven, aveva immaginato che quel suo nuovo sound un giorno avrebbe
partorito brani come Rock n’ Roll, che da sola riassume tutto quanto un genere,
o come Black Dog con le sue sfuriate rumorose degne del metal.
Ma gli Zeppelin non sono solo chitarre elettriche spianate o batterie
rombanti come in When the Levee Breaks; anzi forse parte del cuore di questo
“IV” sta ancora nello sperduto e romantico cottage di Bron-Yr-Aur dove Page e
Plant, appena un anno prima, in compagnia di qualche “roadie” e poco più,
misero a fuoco un approccio musicalmente differente, fatto di ascolti acustici
e antiche suggestioni britanniche. E furono in effetti abili a sapere come
mantenere con naturalezza il gruppo su due binari, perché è certo innegabile,
ci mancherebbe, che i Led Zeppelin abbiano coniato il primo vero suono duro
della scena rock (certo, non da soli, ma insieme a ad illustri colleghi come
Cream, Hendrix, Sabbath, Jeff Beck…), ma hanno anche contribuito alla ricchezza
di quel folk britannico che tra gli anni ’60 e ‘70 ha dato prova di grande
creatività e freschezza, con gruppi come Pentangle, Incredible String Band,
Fairport Convention, guarda un po’ la band dell’illustre ospite Sandy Danny che
canta in The Battle of Evermore; e perché no, allora anche Led Zeppelin, quelli
di Going to California e soprattutto del pezzo succitato, con i suoi duelli
acustici di chitarre e mandolini che almeno risparmiavano a Bonzo l’ennesimo tour de force. Certo, niente paura,
perchè poi ci sono anche canzoni come Misty Mountain Hop o Four Sticks, ma
soprattutto brani come l’ultimo del disco, quella When the Levee Breaks, in
realtà un vecchio blues del Delta, ormai celebre per la figura di batteria più
imitata in campo hard, che riallaccia il filo non più con la tradizione folk di
altri brani, o di interi album come III, bensì con un’eredità di blues
elettrico, Waters, Willie Dixon, Wolf, che è poi quella originale da cui gli
Zeppelin avevano pescato a piene mani per i primi due album.
Quindi, in conclusione, quello che qui abbiamo per le mani è un album
di sintesi assai riuscito: sintesi tra due, o forse anche tre o quattro, anime
che sin dall’inizio convivevano nel gruppo conferendogli un’ecletticità che
mancava ad altri grandi come Who o Yes; un album uscito apparentemente indenne
dalla prova del tempo, cosa che a molti mostri sacri mai è del tutto riuscita;
un album che è stato in grado di fondere tradizione folk, radici blues e
ispirazione rock. Un album, e vado a concludere, il cui ascolto è di fatto un
obbligo per chiunque abbia l’ambizione o il desiderio di parlare e scrivere di
musica.
Il gonzo
Queste redazioni virtuali non sono certo quelle di una volta; almeno
dieci anni fa qualcuno mi attaccava un post-it minuscolo sullo schermo: “G.B. serve pezzo P.I.L. x venerdi 12!”.
Dodici; venerdì sarebbe stato il 14, ma comunque…
Ora invece arriva la mail! Inchinatevi oh voi sottoredattori pulciosi
alle parole del grande capo! Rigorosamente via mail. Elenco pezzi disponibili,
poche pippe e rispondere in fretta (fretta: cioè smettetela di farvi le seghe,
chiudete Youporn e ditemi i pezzi che volete).
Ma per fortuna per me non funziona così; che culo essere una penna
ricercata! G.B. si cucca il quarantesimo anniversario di Zoso, eccheccazzo! Mamma mia! E non tanto per
la settima recensione che scriverò su questo disco in 27 anni di carriera.
Quarantesimo anniversario. Certo che il tempo scappa veloce.
Non ricordo esattamente quando comprai l’album, anzi non ricordo
esattamente nemmeno quanti ne abbia comprati di L.Z. IV: un paio di vinili (di
cui uno è una bella english press), poi la cassetta, un CD che ho prestato a
Joe Marozzi nel ’92 (e mai me l’ha ridato, l’infame…). Lo confesso: mi esce
dalle orecchie.
Ma facciamo pure ‘sto pezzo.
Da dove si parte a scrivere di Zoso? Tutti hanno già detto tutto. E
allora non resta che ribadire l’ovvio. Si parte da una considerazione banale:
questo è un grande platter; e Stairway to Heaven è un gran pezzo. Mi sarei
anche stancato di sentire certi damerini ultracool,
iperalternativi, che giocano al piccolo cinico gettando da anni merda su ogni
disco uscito prima del ‘76.
Ok, ci siamo ascoltati tutto il punk di questo mondo, abbiamo
sopportato Johnny Rotten, Anarchy in Inghilterra e perfino Sid Vicious; ci
siamo vestiti come Joey Ramone, abbiamo goduto come mandrilli per ogni rumorosa
cazzata post punk.
Adesso basta.
Basta revisionismi radical-chic del cazzo.
Altrimenti la prossima volta che mi fanno scrivere di Sticky Fingers
andrà a finire che dovrò sostenere che l’olocausto non è mai esistito e che
Richards non si faceva di eroina.
E’ roba per cui si va in galera!
Quindi, stop con le pose originali-indie-alternative: Stairway è una
signora canzone!
Bene, detto questo sfogatevi pure su quel testo balordo (il più
sopravalutato di sempre, s-e-m-p-r-e!) ma non andate oltre, perché ormai anche
Johnny Rotten è roba da museo. E non c’è bisogno di travestirsi da panda del
WWF per la raccolta fondi in favore dei preraffaelliti sul dirigibile più
famoso d’Inghilterra. Badate bene: quelli sono veramente capaci di pisciarvi in
testa e farvi credere che è acquerugiola di dolce primavera precoce. Quale
altro gruppo riuscirebbe a farvi credere che Four Sticks è una genialata? Quali
altri quattro bastardi metterebbero mai assieme cocci vecchi di vent’anni per
farci Rock n’ Roll? E tutti a gridare al miracolo: “…canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry!”
Wow! Non mi dire. Addirittura c’è ancora chi pensa che le visioni da
fotoromanzo di Artù e Ginevra in Battle… siano autentiche concezioni culturali!
Let me say: questi vi
fregano! Lo hanno sempre fatto da quando hanno rubato Dazed and Confused a
quello sfigato di Jake Holmes. Vi hanno sempre fregato, ma volete sapere una
cosa? Lo hanno fatto con una grande classe! Ve lo hanno messo di dietro eppure
vi hanno fatto godere. Mai provata quella sensazione? Bè ci si rimane male, aftermath. Ma mentre ascoltate quel
drumming, quella cazzo di chitarra, quel pennellone tutto capelli che canta
come una checca in calore: mentre ascoltate tutto questo, allora pregherete per
averne ancora. Di più, datemi tutti i centimetri del vostro amore, bastardi!
E non ve ne fregherà niente se è paglia o oro, perche i Led Zeppelin
possono tramutare l’una nell’altro come nessun ha mai saputo fare.
Ma se volete un consiglio dal vecchio G.B. andatevi ad ascoltare due
pezzi, solo due. Il cane nero: perché quelle chitarre sono veramente selvagge e
non sfigurerebbero a Detroit. Poi When the Levee Breaks perché, occhio, è il
migliore tra tutti i blues travisati nei secoli dagli Zeppelin; è la
travisazione somma, la più fantasiosa, la più approfondita, senza paccottiglia
psichedelica di contorno: solo stupore, casino e strafottenza ritmica. E’ anche
l’ultimo grande blues di un gruppo destinato a sprofondare con Houses of the
Holy da lì ad un paio d’anni.
Visto? Vi hanno fottuto ancora, ma lo hanno fatto alla grande!
Il bastian contrario
Dopo un trittico di successo imponente e notevolissimo spessore
artistico, per i Led Zeppelin sembra giunto il momento della riflessione e
addirittura del ripensamento.
L’album numero quattro della serie, a posteriori, è stato il più
celebrato, il più popolare, il più redditizio. Tale sovraesposizione, legittima
e in buona parte meritata, è però dovuta esclusivamente a Stairway to Heaven, il brano feticcio di tutta quanta un’epoca che
oggi pare piaccia identificare come “classic rock”, quasi a volerne sottolineare
una quantomeno dubbia supremazia su tutto il resto.
Stariway è il preferito dei
fans, delle fans (…in netta minoranza…), il preferito dalle radio, soprattutto
il preferito dei recensori apocrifi. Ma cos’è realmente questa canzone? Una
ballata affascinate, senza dubbio, maliziosa, costruita per piacere senza
stupire né “shockare”. Una grande prova di maturità e di mirabile costruzione
musicale, ben più cerebrale di quanto non sembri.
E se immaginiamo, per assurdo, di togliere questa ballata dalla tracklist
dell’album, cosa resta? Possono gli hard-rock di Black Dog e Rock n’ Roll
tenere testa ai pezzi migliori del secondo album? Possono le pur pregevoli
distorsioni blues di When the Levee
Breaks essere paragonate a Dazed and
Confused o How Many More Time,
quelle sì realmente foriere di stupore e incredulità?
Quello che i Led Zeppelin avevano seminato nei primi tre LP, viene qui
sintetizzato, condensato e raccolto in due ottime facciate; ottime ma, scendendo nei particolari,
non al livello dei singoli capolavori precedenti. E se consideriamo quanto sia
comunque spettacolare anche questo Zoso, possiamo capire veramente la grandezza
di questo complesso, troppo spesso relegato all’arcinoto e stantio ruolo di
“patriarca dell’heavy metal”. In realtà erano ben altri i gruppi che stavano
partorendo le mostruosità metalliche definitive: Gun, Black Widow, poi Blue
Cheer, Grand Funk e Bloodrock in terre oltreoceano. I led Zeppelin non furono
gli inventori di nulla, ma i precursori di molto, e questa è forse la reale
grandezza anche di questo album.
E il bello di Zoso sta nelle pieghe e negli interstizi, più che nelle
celebrazioni postume. Tralasciando quindi i “soliti noti”, ecco che una canzone
minore come Misty Mountain Hop
dispiega, nella semplicità di un riff elementare ed ostinato, tutta la mistica
tanto cara ai componenti del gruppo, riproponendo una visione tardiva, distorta
e naif di quell’ Alice in Wonderland che tanto piaceva ai Jefferson Airplane.
Ecco che la scheggia epic-folk di The
Battle of Evermore dischiude scenari celtici per mandolini ed eroismi
assortiti, dove non è tanto l’ospite Sandy Denny a brillare, quanto la
cristallina intesa acustica tra le corde di Page e Jones. Ma soprattutto la
sempre bistrattata Four Sticks,
colpevole solo di un titolo infausto che attira l’attenzione laddove non ce n’è
bisogno; e così si finisce per dimenticare quel bell’arrangiamento di stampo
mediorientale, quasi un anticipazione di Kashmir,
che sarà rivalutato pienamente solo vent’anni dopo, quando Page e Plant si
riuniranno per No Quarter, il più misconosciuto dei progetti post-Zeppelin.
E pazienza se Rock’n Roll è
un collage citazioni scolastico, pazienza se la voce di Plant non è eroica come
un tempo, perché la produzione in studio di Page sopperisce ampiamente ad un
materiale che per la prima volta comincia a dare segni di ripetitività; lo fa
trovando nuovi equilibri, nuove raffinatezze ed una precisione sonora che
mancava nelle prove precedenti, basti a sostegno di ciò il sound di batteria
che apre l’ultima traccia.
Questo non è l’album migliore dei Led Zeppelin e forse non è nemmeno
sul podio: eppure ascoltandolo è lampante il germe di un’ecletticità, perfino
di una modernità per l’epoca addirittura rischiosa. Non un “Testo Sacro”, ma un
vademecum da mettere a memoria, tanto per i residuati hippie folk, quanto per i
più sofisticati stregoni del AOR di fine decennio.
Il conformista
Non so se il volume di popolarità possa di per sé costituire, o almeno
ispirare, un giudizio critico. Credo possa almeno fornire un criterio di
valutazione con cui, perché no, tentare la classificazione di un lavoro
artistico.
Se la “qualità” fosse decisa in democrazia, in quella dei mercati
almeno, album come Thriller o Hotel California sarebbero indiscussi capolavori;
come Led Zeppelin IV, come Dark Side of the Moon…
E alla fine, forse, lo sono davvero. E non solo in quanto il giudizio
delle masse che li hanno idolatrati per anni ha sentenziato così.
Nel caso di Zoso, sembra che un clamoroso successo commerciale si
accoppi con un innegabile valore artistico, tratto su cui pur spesso si è
discusso, ma che, anno dopo anno, pare rafforzarsi, consolidarsi, mettendo
radici perfino nella moderna musica rock di generazioni spaurite che a volte
guardano al passato come fosse fonte inesauribile di ispirazione e magari di
sicurezze perdute.
E allora Led Zeppelin IV è uno di quegli scogli che si erge sicuro,
non certo solitario, ma impassibile e solido. Prodotto del 1971, annata che
potrebbe veramente essere considerata come definitiva di quel rock (Sticky
Fingers, Who's Next, At Fillmore East…), fu, almeno nelle intenzioni, apice
formale della prima parte di carriera del quartetto britannico.
Forse è vero che una Dazed and
Confused fu più sbalorditiva, che sia Whole
Lotta Love sia Immigrant Song codificarono definitivamente un genere (con il
benestare di Deep Purple e Black Sabbath); forse un blues come Since i've been loving you gli Zeppelin
non l'avrebbero mai più scritto né interpretato.
Però, concediamoci per una volta ai ragionamenti semplici e
abbandoniamo le pose artatamente alternative, revisioniste e intellettualoidi;
diciamo che se mezzo mondo trovò in Stairway
to Heaven il proprio vangelo musicale, un motivo deve esserci. Diciamo che
la sicurezza, l'autocompiacimento e la sintonia del gruppo sono tali che
numeri, per ogni altra band “di routine”,
come Rock and Roll e Black Dog trasmettono tutta questa
strafottenza e questo strapotere auto celebrativo direttamente nella testa di
chi ascolta; una medicina per le orecchie e il cervello. E’ il bello di una
semplicità non banale, che arriva dritta al centro del bersaglio.
Jimmy Page, l'eremita con la lanterna nella busta interna del disco,
stava cercando. Cercando il risultato
ultimo, quello non più migliorabile; quello perfetto. La sintesi tra qualità
del prodotto e successo di pubblico. Regge la lanterna assieme ad un cantante
magari non più mitologico di voce ma ancora fresco, ispirato, a modo suo
coraggioso nella propria infantile visione favolistica del reale. Assieme ad un
percussionista che fu il vero fulcro della band, e con cui, in When the Levee Breaks, ha semplicemente
inciso “la batteria” per antonomasia,
se non da una prospettiva prettamente tecnica, almeno per la memoria collettiva
degli appassionati. Con un polistrumentista, arrangiatore, bassista che fa
tutto quanto il resto, a partire da quel richiamo flautato col quale incomincia quella che con ogni probabilità è
la prima, reale ballata rock per il
popolo. Forse un popolo di ragazzini; ma di una generazione curiosa. Forse
una ballata a tratti scontata, ma che è riuscita a non essere effimera.
E poi, proviamo ad ammetterlo senza troppi pregiudizi, ci sono volute,
ahimè, superstar come queste per mettere a nudo il sistema-Rock, per riversarlo
nelle torri del capitalismo sfrenato. Ci sono voluti questi preraffaelliti
intoccabili, corrucciati e irraggiungibili sul loro boeing da Mille e una Notte
per dare il colpo di grazia definitivo al 45 giri, alle interviste pilotate,
alla stampa specializzata, alle copertine con foto in chiaroscuro.
Per assurdo, ci sono voluti loro, ebbene sì, anche per fare deflagrare
la bomba del punk. Tra le pieghe dei bizantinismi fantasiosi di Misty Mountain Hop o The Battle of Evermore, nelle periferie
ritratte sul retro della copertina,
sta la miccia di quell'esplosivo che avrebbe portato alla ribalta un’ideologia risoluta, chiassosa, ma a suo
modo fondamentale per lo sviluppo futuro di tutta la musica popolare.
Nessuno all'epoca la vide; e come fare d'altronde?
Ma in molti recepirono un messaggio che oggi, a oltre quarant'anni di
distanza sembra rimasto immutato; un'eco di fondo, costante a tutta la musica
dei decenni successivi, che viaggia in parallelo ad altri enormi intoccabili
come Pink Floyd, Rolling Stones, Who,
Doors…
Led Zeppelin IV, che allora probabilmente rappresentò un punto
d'arrivo, oggi sembra essere il punto di partenza migliore per esplorare il
cielo del Dirigibile.
Sul Web
12 commenti:
Inutile esprimere tutta la mia stima per questo abbecedario delle recensioni rock, che ho riletto con piacere la seconda volta. E' stato divertente leggere e riconoscersi in tutti gli stereotipi da te così acutamente descritti.:)
Il mio disco preferito degli Zep è il primo, che mi è sempre parso dotato di una forza tanto ingenua quanto straordinaria, durevole nel tempo. LZIV resta un grande album, anche se, come hai ben detto, coi limiti di una grandeur a stento trattenuta.
Preferisco altre canzoni degli Zep. Eppure, Starway To heaven, mantiene intatto il suo fascino di canzone feticcio: è la forza della musica popolare, che fa confluire la condivisione, il ricordo, la leggenda e il mito, anche laddove l'arte, come nel caso specifico, è perfetta ma manca di slancio.
Vedi io credo che la grandezza di Stairway non sia la canzone stessa, ma l'impatto e l'immagine della canzone nella memoria. Sembra un ragionamento ozioso, ma non lo è. Poi certo è un feticcio, innegabilmente, bisogna farci i xonti e non fare finta di nulla.
Io forse alla fine tra tutti gli album preferisco il III, e il peimo di Physical, ma sono solo gusti...
ciao!,
Stairway ha raggiunto una massa critica tale che ogni dissenso è vissuto con indicibili sensi di colpa.
Stairway ha raggiunto una massa critica tale che ogni dissenso è vissuto con indicibili sensi di colpa.
Stairway ha raggiunto una massa critica tale che ogni dissenso è vissuto con indicibili sensi di colpa.
Stairway ha raggiunto una massa critica tale che ogni dissenso è vissuto con indicibili sensi di colpa.
Non so perché mi sia ripetuto quattro volte: forse è la maledizione di Stairway che reprime il dissenso.
Io credo che quel 'senso di colpa' stia allentando la presa. È un bene , soprattutto per la canzone, che si scrolla di dosso inutili sovrastrutture e può tornare ad essere semplicemente quello che è, un buon pezzo.
che liberazione potrelo dire, no?
Magnifica la serie su Zozo, la ricordo ancora con piacere, davvero un bel lavoro. Condivido ciò che dici di Stairway: la gente si lega più all'idea(lizzazione)del pezzo che al pezzo stesso e col tempo la cosa diventa ridondante, retorica, scontata e fastidiosa e purtroppo a farne le spese è proprio Stairway, che rimane comunque una gran canzone. Vale lo stesso discorso per Wish You Were Here, Smoke On The Water e tanti altri pezzi che andrebbero lasciati un po' in pace. Però è vero, tutta sta struttura di mitizzazione piano piano sta cedendo (ed era anche ora!).
Che coincidenza, proprio stasera sono andato a sentire degli amici suonare, hanno chiuso con un medley degli Zeppelin che iniziava proprio con Stairway. Mi giro verso una mia amica e le faccio "questa la conosci, no?" E lei "si, si, aspè, non dire nulla...sono i Dire Straits, giusto?"...
Comunque maledetti soldi...Il I, il II e il IV li voglio recuperare in questa versione rimasterizzata su vinile; sono mesi che ci sto dietro...
Ciao Vik!
Anch'io ricordo come all'epoca dai tuoi commenti nascevano spesso belle discussioni tra sintassi e musica.
Ti dirò che reputo quel periodo il migliore per questo blog, sia per qualità che per quantità di commenti e post.
Qui tu hai ragione; occorre lasciare stare l'idealizzazione, si fa solo il bene della musica.
Però l'esempio che fai è illuminante, perchè occorre anche tenere annodato il filo della memoria, altrimenti sono guai!
Questa musica è musica che facilmente trasmette passione ardente; e "passione" ed "equilibrio" difficilmente vanno di pari passo.
Credo che trovando un buon punto medio tra questi due estremi diventeremo davvero bravi divulgatori musicali.
Riguardo al remaster, non so, ognuno è libero.
Il mio impianto, in senso ampio (cioè dalla presa della luce dello stereo al mio timpano) non è tale da accorgersi della differenza. Però se uno vuole farsi un regalo, ogni tanto, ci sta...
Ciao!
Ha, ha! Sì, probabilmente neanche il mio impianto se ne accorgerebbe, ma ne sarebbe ugualmente felice, perchè io quei dischi li avevo addirittura in cassetta! Che poi tra l'altro sono rimasti a casa di qualcuno a cui li avevo prestati...
Direi che è ora di recuperarli in una bella edizione in vinile!
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