Titolo: Zerfas
Anno: 1973
Label: 700 West LH
(730710)
Line-Up:
Bill Rice: Bass,
Vocals
Steve Newbold: Bass,
Guitar, Vocals
Mark Tribby: Bass,
Guitar, Vocals
David Zerfas: Drums,
Percussion, Vocals, Guitar
Herman Zerfas:
Keyboards, Vocals, Guitar, Bass
A1 You Never Win
A2 The Sweetest Part
A3 I Don't Understand
A4 I Need It Higher
B1 Stoney Wellitz
B2 Hope
B3 Fool's Parade
B4 The Piper
Zerfas! Ecco il nome di un vero gioiellino dell’underground; un disco
di spessore elevato e dal sound assai particolare, tra i pochissimi prodotti
americani che si spinge ad esplorare il più profondo progressive britannico,
senza timore di sfidare i Maestri (ELP, Genesis, King Crimson nello specifico)
sul loro stesso terreno, riuscendo anche ad uscirne senza le ossa rotte… anzi!
Prodotto di Indianapolis, il gruppo di polistrumentisti dei fratelli
David e Herman Zerfas lavora bene con gli strumenti in mano ed altrettanto bene
dietro le consolle. Fantastico che nel 1974 aprano ancora You Never Win su un preludio di nastri, voci e chitarre “backwords”,
come i vecchi Byrds di Younger Than Yesterday, dal sapore retrò ma decisamente
ipnotico, per poi sciorinare un riff organo-chitarra di tendenze hard come i
migliori Vanilla Fudge che risuonano nelle teste ammirate di Jon Lord e Ritchie
Blackmore. Il testo poi è un ironico musical che celebra il più bieco
nichilismo punk, senza lasciare né speranze né morale, tanto che nemmeno il
chorus assai pop riesce a mitigare un assalto materialista così dissennato.
Sarà per questo esagerato negativismo che il gruppo compensa con The Sweetest Part, la cui prima frase
celebra zuccherosi orizzonti sixties; e per fortuna che la canzone esibisce un
multistrato sonoro importante, in cui si assommano chitarre acustiche, elettriche,
basso, qualche bordone minimalista di tastiera, per una ballata solare che
suona come un intero album Sub Pop di metà ’90.
I due pezzi seguenti, perduti tra torbide nebbie sonore, cercano di
trapiantare il favolistico medievaleggiare dei King Crimson nei freddi stati dell’Unione,
aggiungendo a melodie minori e chitarre atmosferiche qualche dose di sketch
rumoristico zappiano, caroselli equini da luna park maledetto e parti vocali di
antica depressione feudale.
Dopo un bizzarro intermezzo di musique-concrete,
I Don't Understand è raccontata con
la melliflua soavità di un Peter Gabriel depresso e scivola sul bilico di danze
antiche dal sapore di un Valzer all’assenzio in un bistrot a Montmartre; I Need It Higher cerca di districarsi
tra chitarre distorte e raffinatezze frippiane in una mesta litania che via via
si riempie di bassa tecnologia sintetica elletro-acustica che sottende a
visioni di morte annunciata.
Nel mezzo dell’album (apertura del lato B) c’è il bizzarro boogie
sovra strutturato e caricaturale, non privo di ritmo e ironia, di Stoney Wellitz, cioè i Little Feat che
suonano su Child In The Sun dei
Nazareth, canzone dal ritornello i-den-ti-co, provare per credere.
Hope è tutto ciò che non ti
aspetti: evocata da un oceano in crescente tempesta, dispiega un hard-rock
melodico portato in orbita da un assolo da distante guitar-hero sull’ultimo
scoglio di Nantucket, che divaga morbido tra il Blackmore più barocco e le
ballatone di Pappalardi, e che finisce per sfumare nella marea oceanica. Poi,
tutto si ferma, e dalle profondità dell’Atlantico emerge un organo celeste da
cattedrale tra le nuvole che si prende tutto lo spazio, con l’ansimare geologico
di un’isola che riemerge dalle acque, circondata da musica cosmica
impronosticabile. E’ quasi un peccato che il brano riprenda sulla melodia
iniziale e chiuda di nuovo allo sbattere delle onde, effetto che alla fine
diventa un po’stucchevole.
Ultimi, progressivi già dai titoli, in perfetta continuità sonora, vengono
Fool's Parade e The Piper. La prima è una cristallina e positiva melodia per
chitarra: se fossero gli Uriah Heep (pare impossibile che non lo siano, in
effetti) sarebbe il pezzo di forte di Demon and Wizard, mischiando The Wizard a Traveller in Time, con tanto di vocalità in puro stile Byron,
finchè non si ripiomba nel buio d’oltrespazio dove un’enorme stazione orbitante
ruota verso l’alba di una supernova, intercettando trasmissioni terribili di
qualche semidio Godzeriano di un universo parallelo. L’incubo dura finchè non
ritornano sul palco una strana razza di Kinks mutanti e distorti che progressiveggiano
in modo minore inneggiando al pifferaio con trasudante tristezza.
Non è dato sapere chi fossero questi Zerfas, se fossero veramente una
band di Indy o piuttosto qualche grande estroso sotto copertura, un Todd Rundgern,
un Van Dyke Parks.
Il disco bisogna ascoltarlo, almeno per rendersi conto di quanto ci
sia ancora da scoprire nelle fogne d’America.
Il vinile originale (West, etichetta beige chiaro-marrone) che sfoggia
una bella cover rossa con il logo della band, è un pezzo piuttosto raro e
ricercato, considerata anche l’elevata qualità artistica: tra 300 e 500 $ per una
buona copia. Attenzione, perché esiste una ristampa sempre in vinile e sempre
West con etichetta uguale ma datata 1994: contiene tre inserti (due foto e un
booklet di 12 pagine) ed è una Limited Edition in 500 copie; prezzi alti anche
per questa edizione (siamo attorno ai 100 $). C’è poi una terza stampa in
vinile della Atlas (etichetta nera, anno 1994?) che viaggia su prezzi molto
inferiori (30-50 $). Pochi gli scambi in rete per tutte queste edizioni. La
Phoenix ha invece ristampato il vinile in anni recenti e si trovano copie anche
su Amazon per una trentina di euro.
CD stampato dalla Radioactive (senza bonus o liner notes ma con i
testi delle canzoni) tra i 7 e i 10 euro sulle Amazon europee. Su I-Tunes album
intero a 7,74 euro (1,29 euro la singola tracia).
Album molto consigliato!
NOTA: questo post comparve, più o meno in questa versione, circa un anno fa su questo stesso blog; fu però presto rimosso per questioni che non sto qui ora a discutere. Lo ripropongo ora.
2 commenti:
Notevole amico mio, e ti perdono pure la melliflua soavità di un Peter Gabriel...ma solo perchè sei tu...ahahahah
Un abbraccio forte!
Thankssss Nella! A presto...
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