Fugs - Second Album
ESP - 1967
Dopo il primo LP, “First Album”, pareva difficile parlare dei Fugs
come di un gruppo musicale. Improvvisazione, satira da marciapiede, filosofia
metropolitana, body-poetry: ma non musica. Più agevole ascoltare un vecchio 78
giri della Victor Record che “Swinburne Stomp” o “Baby Done Left Me”
Così all’uscita di Virgin Fugs nel 1966 si potrebbe gridare al
miracolo: finalmente la scalcagnatissima band di Sanders, Kupfenberg & Weaver
ha finalmente cominciato a “suonare”, costruendo canzoni con tanto di struttura
armonica e un minimo arrangiamento. Il gruppo nel frattempo ha cambiato
radicalmente formazione: all’uscita di Weber e Stampfel, impegnati a tempo
pieno con gli “Holy Modal Rounders”, sono subentrati nuovi musicisti tra cui il
chitarrista Vinny Leary e il polistrumentista Lee Crabtree, il cui piano
elettrico diventa subito il fulcro sonoro del gruppo. E’ cambiata anche l’etichetta:
dalla Broadside/Folkways alla mitica ESP di Sun Ra e Albert Ayler. Grazie al
produttore Richard Alderson il gruppo potè incidere in un VERO studio, usare
VERI strumenti e addirittura un registratore a 4 piste, come i Beatles! …cioè
lo standard dell’epoca, ma sempre un bel passo avanti rispetto al garage e ai
bonghi di Ken Weaver.
Per fortuna la vena satirica e goliardica è intatta e anzi compressa
in forma “canzone rock” acquista nuovi orizzonti di gloria, inimmaginabili per
il primo album. Virgin Fugs fu registrato tra il Gennaio e il Febbraio 1966
sotto l’attenta produzione di Alderson, le linee guida di Sanders (autore di
quasi tutti i brani) e le fondamenta musicali di Crabtree. Il risultato fu un
album in pieno stile 1966, elettrico, garage, pre-psichedelico: ma quella che
oggi sembra facile moda, fu l’evoluzione naturale di un complesso che dalle
origini aveva nel sangue la contestazione, la beat-generation e l’acidità del
timbro sonoro.
I pezzi sono finalmente costruiti con strofa, ritornello e qualche
interessante assolo, se non che il capolavoro arriva dalla sperimentazione
totale di “Virgin Forest”: 11 minuti di montaggio sonoro avveniristico, un
Zappa pre-Zappa di spessore assoluto, rumorismo spinto ma sempre godevole
all’ascolto. La “suite” si compone di tanti parti minime di pochi minuti
inserite in stretta sequenza come scene di una “pièce” di Ionesco: mari
orientali in dissonante bonaccia, amplessi scimmieschi, tamburi tribali, poesie
a bocconi; finchè Crabtree non mette ordine con una struggente melodia di piano
abbandonata sotto l’ombrosa volta della foresta più inviolata. Una musica “nuova”
per l’epoca, che troverà eco in futuro, Zappa a parte, con i “Red Crayola”, con
“Ptoof” dei “Deviants” e con il kraut-rock più concreto (“Faust Tapes”).
Gli altri brani tengono sempre alta la tensione e la bandiera satirica
del Lower East Side, con Sanders che canta in modo perennemente forsennato, Kupfenberg
che contrappunta qua e là da basso ortodosso e il resto del gruppo che prova a
tenere il tempo e a costruire groove accattivanti. L’ispirazione passa dalle
jugs band acustiche al Rhythm and blues urbano del primo dopoguerra: atmosfere
da late-show vietato ai minori serpeggiano per tutto l’album.
Dalla parte del rock stanno le prime tre tracce: il ghiaccio elettrico
di “Frenzy”, l’hard-pop di “Skin Flowers” con un riff che pare rubato al George
Harrison di “Day Tripper” ma che poi deraglia nella solita furia garage del
gruppo; ultimo, lo scatenato attacco corale di “Group Grope”, culminante
nell’esagitato orgasmo simulato da Sanders: “Dope, peace, magic gods in the
tree trunks and GROUP GROPE BAY-BEEEE!!!!”, sesso di massa (“group-grope”, cioè
“palpeggiamenti di gruppo”) sferzato dalla chitarra scatenata di Leary.
Se “Coming Down” è un notturno blues calante che sa di morte (Eyes
with a vision of torture/ Frightened with a vision of death), “Dirty Old Man” è
una marcetta per solista e coro che sorregge una grottesca vignetta di spaccio
e voyerismo, nascondendo in realtà il ritornello popolare di “Pop Goes the
Weasel”:
Hello kiddies, here I am at the school yard
Looking up every dress I can
Handing out drugs at the school
Touching all the bosoms I can.
Ciao ragazzi, sono qui nel cortile della scuola
Guardando sotto ogni gonna che riesco
Spacciando droghe a scuola
Toccando tutte le tette che posso
Non poteva poi mancare l’apporto filosofico-mediatico di Kupfenberg: “Kill
for Peace” è una ballata di protesta diretta, senza retorica e false ipocrisie,
con tanto di AK-47 spianati, bombardamenti assordanti, e cordiale satira à la
Swift:
Kill, kill, kill for peace
If you let them live
they might support the Russians
If you let them live
they might love the Russians
Uccidi, uccidi, uccidi per la pace
Se li lasci vivere
Loro potrebbero sostenere i Russi
Se li lasci vivere
Potrebbero amare i Russi
Più distesa è “Morning Morning” che recupera la ondeggiante vocalità
di “Carpe Diem” ed è allo stesso modo una ninna-nanna ripetitiva e ipnotica (Mornig,
mornig … evening, evening … moonshine, moonshine… ).
Con “Doin' All Right” il piano
elettrico di Crabtree è sempre protagonista (tanto da citare Bach in apertura):
la canzone mette in musica una crudissima poesia di Ted Berrigan che creò non
pochi problemi di censura al gruppo: “Non andrò mai in Vietnam, preferisco
starmene qui a fottere tua madre!” non erano certo versi da Ed Sullivan Show.
Dopo la teatrale Virgin Forest, perfetta conclusione del disco,
arrivano le numerose bonus tracks che la ha inserito nella ristampa CD.
Imperdibile la pomposa “Wide, Wide River” (of shit) cantata dai Fugs credendosi
i Platters.
I Fugs hanno definitivamente ingranato, proponendosi come l’act più
oltraggioso del periodo; lo hanno fatto senza moralismi e con tutta la
leggerezza di un macabro ma esilarante amplesso sulla bara dell’americano medio.
After the first LP,
"First Album", seemed difficult to talk about the Fugs as a band.
Improvisation, satire from sidewalk, subway philosophy, body-poetry, but not Music.
Easier to listen an old Victor Record 78 rpm that the "Swinburne
Stomp" or "Baby Done Left Me".
So, the release of
Virgin Fugs in 1966 could be a sort of miracle: finally the devastated band of Sanders, Kupfenberg
& Weaver has finally started to "play", building songs even with harmonic
structure and a minimum arrangement. The group has radically changed formation:
out Weber and Stampfel, now full time working with the "Holy Modal
Rounders," in new musicians including guitarist Vinny Learyand and multi-instrumentalist
Lee Crabtree, whose electric piano becomes the focus of the group sound. The label changed also: from Broadside /
Folkways to the legendary ESP of Sun Ra and Albert Ayler. Thanks to producer
Richard Alderson the group was able to work in a real studio, using real
instruments and even a 4-track recorder, like the Beatles! ... That is only the
mid ‘60s standard, but still a nice step up from the Sanders’ garage and Ken
Weaver’s bongos.
Fortunately, the
satirical and goliardic vein is intact and, compressed in a "rock
song" acquires even a new lease of glory, unimaginable in the “First Album”.
Virgin Fugs was recorded between January and February 1966 under the careful
production of Alderson, Sanders’ guidelines and the musical foundations by Crabtree.
The result was an album right in 1966-style, electric, garage, pre-psychedelic;
but that who now seems easy trend, was the natural evolution for a complex that
had in the blood the dispute, the Beat Generation and acidity of timbre.
The pieces are
finally built with verse, chorus and some interesting solos, but the
masterpiece comes direclty from the total experimentation of "Virgin
Forest": 11 minutes of futuristic sound editor, a Zappa pre-Zappa of absolute
depth, noisy but always enjoyable. The "suite" consists of many clusters
included in close sequence, as scenes of a Ioneso’s "piece": eastern
seas in dissonant calm, ape orgasm, tribal drums, poems morsels; until Crabtree
put an order in poignant piano melody abandoned under the shady forest, once
more inviolate. A music "new" for the time, which will find an echo
with the "Red Crayola," with "Ptoof" by Deviants, with the
most concrete kraut-rock ("Faust Tapes").
The other songs
always keep high the voltage and the satiric flag of Lower East Side, with
Sanders who sings in a perpetual frenzy, which Kupfenberg counterpoint here and
there lake Orthodox bass and the rest of the group trying to keep time and
build winning groove . The inspiration goes from acoustic Jugs band to urban R
& B blues of early post-war: late-show-rated atmospheres meander throughout
whole the album.
On the Rock side are
the first three tracks: the electric ice of "Frenzy", the hard-pop of
"Skin Flowers" with a riff that seems stolen from George Harrison in
"Day Tripper" but who soon derails in the usual fury garage of the
group; finally, the triggered attack
ensemble of "Group Grop" with orgasm-like climax by Sanders: "Dope, peace, magic gods in
the tree trunks and bay-beee !!!!", group sex (group-grope, that is
"groping group") whipped by Leary unleashed guitar.
If "Coming
Down" is a waning night blues that smacks of death (Eyes with a vision of
torture / Frightened with a vision of death), "Dirty Old Man" is a
marching song for soloist and chorus that carries a grotesque cartoon of voyeurism
and pushing , actually hiding the popular chorus of "Pop Goes the
Weasel"
Hello kiddies, here I am at the school yard
Looking up every dress I can
Handing out drugs at the school
Touching all the bosoms I can.
It could also not miss
Kupfenberg’s media-philosophical contribution: "Kill for Peace" is a
protest song without false rhetoric and hypocrisy, complete with AK-47 drawn,
deafening bombings, and satire “Swift friendly”:
Kill, kill, kill for peace
If you Let Them Live
They Might the Russians support
If you Let Them Live
They Might love the Russians
More relaxed is
"Morning Morning", which retrieves the wavering vocals of "Carpe
Diem" and is likewise a repetitive and hypnotic lullaby (Mornig, mornig
... evening, evening ... moonshine, moonshine ...).
With "Doin' All
Right" Crabtree is always protagonist on electric piano (so much to
mention Bach in the opening): the song puts in music a raw poem by Ted Berrigan
who created many problems of censorship for the group:
I'm not ever gonna go to Vietnam
I prefer to stay right here and screw your mom
were not verses from
Ed Sullivan Show.
After the theater
Virgin Forest, perfect end of the disc,
The Fugs were
definitely geared, serving as the most outrageous act of the period, they did that
without moralizing, and with all the lightness of a gruesome but hilarious
embrace on the coffin of the average (white) American.
Kinks
The Village
Green Preservation Society
Pye - 1968
1968. Tutto il “Popolo
del Rock” è impegnato a scrutare orizzonti lontani, orientali, lisergici; la
musica spazia tra infinite jams strumentali, arrangiamenti ponderosi da
orchestra classica, assoli monumentali. Nel bel mezzo di questo calderone, Ray
Davies, mastermind degli ormai affermati Kinks, si dedica a tutt’altro:
recuperare le passate tradizioni, volgere lo sguardo ai piccoli cortili delle
case della campagna Inglese, costruire bozzetti casalinghi e introversi sulle
mille macchiette di un Villaggio Verde depositario di memorie e custode di
piccoli segreti inconfessabili. E’ quanto di più controcorrente un musicista
rock potesse fare in quel 1968; come se Damon Albarn si svegliasse una mattina
per esibirsi in duetto con Britney.
Village Green è il
settimo album di un gruppo all’apice della creatività; dopo il garage degli
esordi e due album costruiti con grande perizia (Face To Face e Something
Else), Davies alza il tiro e pensa ad un concept vero e proprio, primo passo
verso la Rock-opera che sarà marchio di fabbrica del gruppo negli anni
seguenti. L’idea è quella di descrivere attraverso una quindicina di canzoni -
che sono poi altrettanti ritratti - i fatti, i personaggi, i luoghi di un
recente passato di cui però si va drasticamente perdendo memoria. Grazie alla
sua scrittura leggera, appena malinconica ma consapevolmente distaccata, Davies
riesce a restituire il buon gusto alle stesse “piccole cose” di Gozzano. La
gestazione dell’album non è facile: inciso tra la primavera e l’autunno 1968
sarà assemblato con scalette diverse per il mercato britannico e quello
statunitense (in cui i Kinks avevano problemi sia di etichetta sia di “ordine
pubblico” in concerto…); dopo alcuni cambi di titolo e un certo ritardo nella
distribuzione, il lavoro esce nel novembre ‘68 con il titolo The Village Green
Preservation Society. Ma è un’uscita in sordina, la promozione è insufficiente
e la concorrenza spietata: stretto tra il White Album dei Beatles, Beggars
Banquet degli Stones, scontando evidentemente il non essere “allineato” con il
suo tempo, sarà il primo cocente insuccesso del gruppo dopo 4 anni di hits. Ray
Davies non si darà per vinto e attorno al concetto cardine di “preservation”
costruirà addirittura un’opera in due parti (Preservation Act I e II, 1973-74),
passando per un’altra elegia del tempo che fu: Arthur (Or the Decline and Fall
of the British Empire).
Oggi quest’album è
unanimemente considerato uno dei capolavori della band. Village Green è di
fatto un “open-air-museum” di una generazione passata ma non troppo, di un
mondo legato a doppio filo a costumi e simbologie della propria cultura. Niente
a che vedere con la remota tradizione vichinga di Immigrant Song o con il
medioevaleggiare di Incredible String Band o King Crimson: il soggetto di
Davies è la generazione di un simple people rimasto lontano dal fumo e dal
rumore della Città (Far from all the soot and noise of the city). E se c’è un
denominatore comune nell’ecletticità delle 15 canzoni è proprio quello di
essere sempre non-urbane e “pre-industriali”. Musicalmente c’è blues, folk,
molto pop o hard-pop, pochi arrangiamenti barocchi ma perfino un tocco
psichedelico e progressivo. Il gruppo non ha dimenticato il sound garage degli
esordi, spece nella chitarra di Dave Davies e nella robusta batteria di Avory:
ne risultano a volte groove trascinanti e ritmiche piacevoli, anche se il cuore
dell’album sta tutto nel songwriting di un Ray Davies in stato di grazia che
elabora alcuni dei suoi migliori testi.
Se l’album è un museo,
la scaletta ne è la mappa fedele, e ci guida a scoprire personaggi e luoghi
emblematici: il treno, le strade, la chiesa, le ragazze dolci e quelle
“malvagie”, le fattorie e gli animali.
The Village Green
Preservation Society è il manifesto del progetto: un lungo elenco di oggetti,
tradizioni, ricette da conservare, oggi leggibile come un vero e proprio atto
di rivolta all’industrializzazione e alla liberalizzazione del mercato, con Ray
Davies nella parte del primo eroe no-global. God save strawberry jam and all
the different varieties, God save little shops, china cups and virginity: e il
fatto che nel 1968 un cantante rock si prefiggesse di salvare la verginità la
dice lunga sulla controtendenza di quest’album…
Do You Remember
Walter?, canzone sulla memoria di un tempo che non c’è più, (Walter, you are
just an echo of a world I knew so long ago)
è un pop illuminato da una melodia accattivante e ritmato da basso e
piano pulsanti; ancora meglio fa Picture Book, con un refrain regolato da un
giro simmetrico e tanto orecchiabile da finire di recente anche in uno spot;
Picture book, your mama and your papa, and fat old uncle charlie out cruising
with their friends: l’album, l’immagine e il ricordo sono il tema anche del
pezzo conclusivo dell’album, People Take Pictures of Each Other, in cui Davies
diventa addirittura filosofo: People take pictures of each other, Just to prove
that they really esisted: essere o non essere nella civiltà dei Media.
Johnny Thunder, che
“vive nell’acqua e si nutre di lampi”, è una ballata spaziosa e solare con un
approccio folk e un sentore di lieve malinconia che inevitabilmente contagia
tutto l’album. Ovvia la scelta di uno shuffle blues per descrivere il vecchio
treno a vapore: Last Of The Steam-Powered Trains ruba il riff all’immortale
Smokestack Lightning di Howlin' Wolf, riservandole un trattamento à la
Yardbirds al netto delle acrobazie di Jeff Beck; il pezzo era anche uno dei
pochi nell’album spendibile in live, dove il gruppo accentuava il voltaggio
delle chitarre e la furia del rave-up centrale; simpatico il testo recitato “in
soggettiva”. Big Sky è uno dei pezzi migliori: una ballata pop-rock molto
moderna, introdotta da un jingle-jangle di chitarra e suonata saltando tra
registri soft e hard con buona disinvoltura. Se Sitting By The Riverside, con
quel suono da giostra di campagna, potrebbe essere cantata da Mary Poppins che
salta nel disegno, Animal Farm è di nuovo ampia come Johhny Thunder e Big Sky,
addirittura più epica e rock; Girl, its a hard, hard world, if it gets you down
Dreams often fade and die in a bad, bad world Ill take you where real animals
are playing And people are real people not just playing: sono versi che
contengono tutto il pensiero di Davies: fattoria come rifugio dalla civiltà e
riparo dall’ipocrisia; e se nel 1968 poteva sembrare bizzarro, solo due anni
dopo, i campioni dell’acid rock californiano Jefferson Airplane diranno
esattamente le stesse cose, in musica e parole con The Farm (Volunteers, 1970).
Con Village Green si
entra nella fase più notturna e fantasiosa del villaggio: la canzone stessa è
arrangiata per ensemble barocco di musica da camera, con tanto di clavicembalo
e oboe. Starstruck, accompagnata da un gentile sottofondo di mellotron per
niente invadente (del resto è della partita anche il genio vagabondo Nicky
Hopkins), è l’ennesimo atto d’accusa alla Città e ai suoi pericoli (you’re a
victim of bright city lights): è inoltre un refrain per cui già nel ’68
McCartney avrebbe fatto carte false. Ma i veri capolavori del lato B devono
ancora arrivare. Uno è Phenomenal Cat, ninnananna per voce e flauto, quasi un
apocrifo di Lewis Carroll, che racconta la storia di un Gatto viaggiatore alla
ricerca del segreto della vita: la dolcezza della melodia, la sonorità della
filastrocca, la rendono una canzone realmente magica; senza dimenticare un
nocciolo “prog”, pur compresso nei due minuti della canzone: Genesis a cartoni
animati. Il pezzo ha anche la funzione di “staccare” del tutto dal contesto del
Villaggio Verde, concedendoci una efficace sospensione temporale. Dopo il
vaudeville assai retrò di All Of My Friends Were There (manca una fisarmonica
che sarebbe perfetta nell’insieme), l’altro capolavoro è Wicked Annabella,
favola a sua volta, ma a questo giro paurosa e direttamente rubata agli
stereotipi dei fratelli Grimm: in a dark and misty house, Where no Christian
man has been, Wicked Annabella mixes a brew That no one's ever seen. La musica
filtra qualche suggestione psichedelica e si colora di suoni dark e notturni,
ma sempre attenta a non spaventare troppo il sonno dei bambini. Dopo la strega
Annabella, l’altra figura femminile del Villaggio è Monica, per cui tutti
sospirano nel vederla, la notte, alla luce della lampada, “but money can't buy
sweet lovin' from Monica”. Chiude l’album People Take Pictures of Each Other,
un ritorno ai temi del lato A: immagine e memoria. L’urgenza e la necessità di
dimostrare a sé stessi di essere vivi e attivi è la stessa urgenza di
fotografare momenti e persone che passano troppo in fretta (People take
pictures of the Summer, Just in case someone thought they had missed it).
Nonostante l’ampio
spettro di soluzioni musicali scelte per caratterizzare ogni pezzo, nonostante
la professionalità di un gruppo di punta della scena Britannica, quest’album vive
di un meraviglioso isolamento: lontano e diverso dalla scena che lo circondava,
è riuscito realmente a dipingere quell’oasi fuori dal tempo che rappresenta il
“Village Green”.
Scriverà Ray Davies
nell’autobiografia X-Ray: “ Mentre tutti
nel mondo gravitavano attorno amore, pace e San Francisco, i Kinks erano nei
sobborghi di Londra a produrre questo strano piccolo disco su un immaginario Villaggio
Verde. Mentre tutti pensavano che la cosa migliore da fare fosse farsi di
acido, di quante più droghe possibili e
ascoltare la musica in coma, i Kinks cantavano brani su amici perduti, birra
alla spina, corse in moto, streghe malvagie e gatti volanti.”
God save the Kinks!
NOTA DISCOGRAFICA: la
storia discografica di quest’ album fu particolarmente intricata, passando
attraverso cambi di titolo e di scaletta. Originalmente pensato in 12 tracce,
non fu però mai pubblicato in questa modalità. Le ristampe CD propongono oggi
entrambe le versioni su unico disco, con la possibilità di ascoltare Days, una
bellissima ballata dedicata al pubblico americano. Il brano uscì come singolo
poco prima dell’LP (28-6-1968, Pye 7N 17573) arrivando alla posizione 37 della
chart ma non fu inserito nella stesura definitiva di The Village Green
Preservation Society che uscì in versione mono e stereo il 22 novembre 1968
(Pye NSPL 18233). L’album fu registrato ai Pye Studios di Londra con la
produzione di Ray Davies.
1968. All the
"People of the Rock" is committed to “see for miles and miles”
Eastern country and lysergic horizons, the music ranges from endless
instrumental jams to classical weighty orchestral arrangements and monumental
solos. In the midst of this cauldron, Ray Davies, mastermind of the now well
established Kinks, really devoted himself to something else: to recover the
past traditions, to look towards the courtyards of countryside houses, to
building introvert sketches and caricatures of an old Village Green depositary
and custodian of memories and unspeakable secrets. It’s the most “against the
stream” thing that a rock musician could do in that 1968; it’s like to Damon
Albarn wake up one morning to perform a
duet with Britney.
Village Green
is the seventh album by a group at the peak of creativity. After the garage of
its early years and two albums made with great skill (Face To Face and
Something Else), Davies raises the stakes and think of a concept itself, first
step towards the Rock-Opera which will be the group's trademark in later years.
The idea is to describe through fifteen songs - which are also many portraits -
the facts, the characters, the places of a recent past, that however is being
drastically losing memory. Thanks to his light writing, just sad, but
consciously detached, Davies manages to return the “good taste” to the same
"little things" described by Gozzano. The gestation of the album is
not easy: cut between spring and autumn 1968, will be assembled with different
tracklists for the UK and the U.S. market (where the Kinks had problems both
for label and "public order" in concert ...); after several changes
of title and a certain delay in distribution, the LP comes out in November '68
with the title The Village Green Preservation Society. But is a stealthily
release, the promotion is low and competition fierce: caught between Beatles’
White Album and Stones' Beggars Banquet, paying of course the “not conforming”
with his time, will be the first group failure after 4 years of hits. Ray
Davies will not be beaten and around the core concept of
"preservation" even build a two parts Opera (Preservation Act I and
II, 1973-74), through another elegy of yore: Arthur (Or The Decline and Fall of
the British Empire).
Today, this
album is widely considered one of the masterpieces of the band. Village Green
is in fact an "open-air-museum" of a generation past, but not too
much, of a world closely knit to customs and symbols of its culture. Nothing to
do with the remote Viking tradition of Immigrant Song or the “Middle-Aging” of Incredible String Band
or King Crimson: Davies’ subject is the generation of a “simple people” stayed
away from the smoke and noise of the City (Far from all the soot and noise of
the city). And if there is a common denominator in the eclecticism of the 15
songs is just to be always non-urban and “pre-industrial".
Musically,
there's blues, folk, pop, some baroque arrangements, but even a little touch of
acid and prog. The group has not forgotten the garage sound of the beginnings,
especially Dave Davies’ guitar and the robust drum-set by Avory: there are
sometimes catchy and pleasant rhythmic grooves, although the heart of the album
lies in Ray Davies’ songwriting: a state of grace that processes some of his
best lyrics.
If the album
is a museum, the track list is the faithful map and guides us to discover the
characters and the symbolic places: the train, the streets, the church, the
sweet girls and those "evil", the farms and the animals.
The Village
Green Preservation Society is the “manifesto” of the project: a long list of
objects, traditions, recipes, store, now read like a veritable act of rebellion
to industrialization and open-market, with Ray Davies as the first no-global
hero. “God save strawberry jam and all the different varieties, God save little
shops, china cups and virginity”: and the fact that, in 1968, a rock singer is
would save “virginity” says a lot about this album ...
Do You
Remember Walter?, song about the memory of a past that no longer exists,
(Walter, you are just an echo of a world I Knew so long ago) is a pop melody
illuminated by catchy bass & piano rhythm; Picture Book is even better, set
by a refrain so perfect to appear, today, in a TV spot: “Picture book, your
mama and your Dad, and fat old Uncle Charlie out cruising with Their
friends”: the album, the image and the
memory is also the theme of the final piece of the LP, People Take Pictures of
Each Other, in which Davies becomes even a philosopher: People take pictures of
Each Other, Just To Prove That They really existed: “to be or not be” in the
mass-media era.
Johnny
Thunder, who "lives in water and feeds on lighting," is a ballad with
a spacious, sunny folk approach and a slight hint of melancholy that inevitably
infects the entire album. The choice of a blues shuffle to describe the old
steam train is obvious: Last Of The Steam-Powered Trains steals the immortal
riff from Howlin' Wolf’s Smokestack Lightning, treated à la Yardbirds without
Jeff Beck’s stunt; the piece was also one of the few to spend during live-act,
where the group emphasized the voltage of the guitars; funny the text recited
"subjective". Big Sky is one of the best pieces: a very modern
pop-rock ballad, introduced by a jingle-jangle guitar and played by jumping
between soft and hard register with good confidence. If Sitting By The
Riverside, with its sound of countryside roundabout, could be sung by Mary
Poppins jumping in the drawing, Animal Farm is once again wide as Johnny
Thunder and Big Sky, even more epic and Rock: “Girl, it's a hard, hard world,
if it gets you down Dreams often fade and die in a bad, bad world Ill take you
where real animals are playing And people are real people not just playing”:
these are lines that contain the whole Davies’ thought: farm as a refuge from
the civilization and place away from hypocrisy; if in 1968 might seem bizarre,
only two years later, the Californian acid rock champions Jefferson Airplane
tell you exactly the same things, in music and words, with The Farm
(Volunteers, 1970).
With Village
Green you enter in the dark side of the Village: the song itself is arranged
for a baroque ensemble of chamber music, complete with harpsichord and oboe.
Starstruck, accompanied by a gentle background of mellotron at all pushy (the
rest is in the game also the sublime vagrant Nicky Hopkins), is yet another
indictment of the City and its dangers (you're a victim of bright city lights);
is also a refrain for which, yet in '68, McCartney would have kill. But the
real masterpieces of the B-side are still to come. One is Phenomenal Cat,
lullaby for voice and flute, as an apocryphal by Lewis Carroll, who tells the
story of a traveler cat in search of the secret of life: the sweetness of the
melody, the sound of the rhyme, make it a truly magical song; not to mention a
“prog” core compressed into two minutes song: Genesis in cartoons. The piece
also has the function of "switch-off" from the context of the Village
Green, giving us an effective suspension of time. After the very retro
vaudeville of All Of My Friends Were There (who lack of an accordion that would
be perfect in the mix), the other masterpiece is Wicked Annabella, fable itself, but this time scary and directly
stolen from the stereotypes of Grimm Brothers: in a dark and misty house, Where
no Christian man has-been, Wicked Annabella mixes a brew That no one's ever
seen. The music filters out any psychedelic suggestion and colors sounds dark
and nightly, but always careful not to scare too much children’s sleep. After
Annabella the witch, the other female character in the Village is Monica, for
which all sigh for seeing her, at night, in the light of the lamp, "but
Money can not buy sweet lovin 'from Monica." Closes the album People Take
Pictures of Each Other, a slight return to the themes of side A: image and
memory. The urgency and the need to prove themselves to be alive and active is
the same urge to photograph people and moments that pass too quickly (People
take pictures of the Summer, Just in case someone thought They HAD missed it).
Despite the broad
spectrum of musical solutions chosen to characterize each piece, despite the
expertise of a leading group of British scene, this album lives on a beautiful
isolation, remote and different from the scene around him, he was able to
actually paint that timeless oasis that is the "Village Green".
Euclid
Heavy
Equipment
Flying Dutchman
- 1970
Gli Euclid furono
illustri rappresentanti di una infinita “terza linea” di Hard statunitense, che
nei primissimi anni '70 si diede da fare per esplorare tutte le potenzialità di
un nuovo genere che, partendo da blues e psichedelia arriverà a mettere a fuoco
i dettami del metal. Ciò che differenzia Heavy Equipment dai lavori di colleghi
come Sir Lord Baltimore, Highway Robbery o Demian è la sua perfetta produzione: l’album può
esibire strati su strati di chitarre scintillanti, armonie vocali perfettamente
a fuoco e un’ottima dinamica nella sezione ritmica. Nell’insieme un sound che
anticipa certo AOR della seconda metà dei ’70 (Styx, REO Speedwagon..). Il
sound a 5 stelle è senza dubbio dovuto all’esperienza dei musicisti, tutti
veterani dei clubs del nord-est; Ralph Mazzota, chitarrista, era già nei Lazy
Smoke (“A Corridor Of Faces”, 1969), i fratelli Leavitt, Gary leader e
chitarrista, e Jay, batterista, erano nei Cobras. Un album che nemmeno c’e
bisogno di riscoprire, perché in effetti non fu mai scoperto, tanto che oggi il
vinile è un “high collectable” ed è difficile procurarselo per meno di 250
dollari. Il CD è stato ristampato dalla Lion nel 2007 (Lion-195), arduo da
trovare in Italia ma facilmente acquistabile online (a prezzi non sempre
economici in realtà).
Le sette canzoni sono
ispirate sia alle pigre jams acid-rock di Grateful Dead e Jefferson Airplane
sia, soprattutto, al robusto Rn’B dei Mods di qualche anno prima (Who tra gli
altri); molti brani in effetti si costruiscono partendo da un nucleo “Brit-Pop”
rivestito da chitarre a tutto volume in zona Jeff Beck. Songwriting a cura di
Gary Leavitt; due le cover, niente strumentali né assoli interminabili di
batteria, ottimo per il 1970. Produzione affidata a Charlie Dreyer e Bobby
Herne.
“Shadow of Life - On
the Way - Bye Bye Baby”, suite in tre parti di 11 minuti, apre il disco con
fragoroso riffone Fender e roboante sezione ritmica; più che un pezzo unico
sono tre brani brevi a incastro, che non risultano mai noiosi: qualcosa tra le
suite di “After Bathing At Baxter’s” e certe canzoni in più parti dei Nazareth
(“Telegram”); bello il sound del registro basso delle chitarre in apertura,
efficace la melodia, scintillante il riverbero. La parte centrale, "On the
Way", attenua i ritmi e serpeggia sorniona e funkeggiante nella ritmica.
Scatenato il finale: “Bye Bye Baby” si
abbandona ad alcuni dei passaggi più “cattivi” dell’album, ma si spalanca anche
su finestre melodiche e prepotenti di chitarra solista.
“Gimme Some Lovin’
“restituisce la hit dello Spencer Davis Group in una versione da horror
licantropo, prima con incedere cingolato, poi enfatizzando il giro armonico
discendente ricoperto da Fender Hendrixiane a cascata. La voce estremizza la teatralità
di Winwood limando i passaggi più melodici in favore di un approccio
decisamente duro. “First Time Last Time” chiude il lato A con gli stessi colori
con cui si era aperto; nota di merito, valida per tutto l’album, alla sezione
ritmica mai troppo banale.
“Lazy Livin’” è un
esperimento, non riuscito, di fondere in profondità la vena da “raga” indiano
con le tendenze heavy del combo: ne esce una traccia spuria, che si apre su un
carillon immerso nel microcosmo di un giardino zen, per poi procedere su sitar
distorti (la parte migliore) e concludersi con un ritornello à la David Crosby
affatto memorabile; sempre bello il
sound, debole il songwriting.
“97 Days” e “She's
Gone” sono invece una coppia di “killer tracks” gemelle, impostate su riff
serratissimi e totalmente ritmici. Buono il secondo, tanto semplice quanto
contagioso, oggi magari già sentito mille volte (ma questo è pur un disco del
1970…) eppure sempreverde; il gruppo suona in modo tiratissimo tanto da far
sembrare le cavalcate degli Iron Maiden sua naturale evoluzione; anche grazie
al chorus azzeccato e alle interminabili rullate di Jay Leavitt, “She’s Gone”
poteva essere un singolo mozzafiato. Testo ad alto tasso testosteronico. Chiude
la seconda (inutile) cover: “It’s All Over Now”, con un bell’assolo di chitarra
e il solito andamento da schiacciasassi; a questo proposito, efficace la
copertina, con il gruppo ritratto nella benna di un enorme caterpillar.
La band, nonostante il
fallimento commerciale dell’esordio, si guadagnò una buona reputazione nel
circuito del nord-est, finchè la morte di Jay Leavitt nel 1975 mise
tragicamente fine al progetto. Come suggerisce il titolo stesso dell’album, gli
Euclid produssero una musica corazzata a temperatura torrida ma con lo
splendore ghiacciato del Cristallo di Rocca.
The Euclid
were prominent representatives of an infinite "third line" of U.S.
Hard Rock, which, in early '70s , began to exploring the potential of a new
genre that, from blues and psychedelia, will come to focus the dictates of
Metal. What differentiates Heavy Equipment from the works of colleagues such as
Sir Lord Baltimore, Demian or Highway Robbery is its perfect production: the
album can produce layers upon layers of shimmering guitars, perfectly focused
vocal harmonies and a great dynamic in the rhythm section. Overall, a sound
that anticipates some of the late ‘70s AOR hits (Styx, REO Speedwagon ..). This
5-star sound is undoubtedly due to the experience of musicians, all veterans in
the nord-east clubs; Ralph Mazzota, guitarist, was already in the Lazy Smoke
("A Corridor Of Faces", 1969), now a totemic underground band; the
Leavitt brothers, Gary leader and guitarist, and Jay, drummer, were in the
Cobras.
An album that
not even need to rediscover there, because in fact it was never discovered:
today the vinyl is a "high collectable" and it is difficult to get it
for less than $ 250. The CD was reissued by Lion in 2007 (Lion-195), hard to
find on stores but easy to buy online (actually at not always economic prices).
The seven
songs are inspired by both the lazy acid-rock jams of Grateful Dead and
Jefferson Airplane and the sturdy Mods’ Rn'B of a few years ago (the Who, among
others); many songs are actually build from a "Brit-Pop" core blaring
by guitars played in Jeff Beck’s style. Songwriting by Gary Leavitt, two
covers, no interminable drum solo (nice for 1970!). Production headed by
Charlie Dreyer and Bobby Herne.
"Shadow
of Life - On the Way - Bye Bye Baby", suite in 3 parts of 11’, opens the
LP with a thunderous rhythm section and bombastic Fender riff; more than one
piece, they are three interlocking short tracks, which are never boring:
something in the manner of "After Bathing at Baxter's" songs or some
two-parts Nazareth’s tracks ("Telegram"); beautiful sound in the
lower guitars’ register at the opening, effective melody, sparkling reverb. The
central part, "On the Way", reduces the rhythms and meanders
funky-style in rhythm. Triggered the ending: "Bye Bye Baby" indulges
in a few passages really metal-hard, but it also opens melodic and overbearing
windows on the guitar solo.
"Gimme
Some Lovin '" returns to the Spencer Davis Group hit in a werewolf horror
version: first with tracked pace, then emphasizing the downward harmony
covering it by cascades of Hendrixian Fender. The voice extremes the Winwood’s
theatrical filing the more melodic passages in favor of an very hard approach.
"First Time Last Time" closes the side A with the same colors as it
had opened; commendation, valid for the entire album, for the rhythm section
never too trivial.
"Lazy
Livin '" is a failed experiment to merge in depth the vein of Indian raga
with the trends of heavy combo: it‘s actually a spurious trace, that opens with
a music box immersed in the microcosm of a Zen garden, and then proceed on
distorted sitar (the best part) to ending with a refrain à la David Crosby, bat
at all memorable; sound always nice but weak songwriting.
"97
Days" and "She's Gone" are a pair of twin "killer
tracks" set on a tight and completely rhythmic riffs. Good the second, as
simple as contagious, today maybe already heard a thousand times but certainly
evergreen; thanks to the chorus and the endless rolled by Jay Leavitt,
"She's Gone" could be a breathtaking single. Closes the second
(useless) cover: "It's All Over Now" with a nice guitar solo and the
usual road-roller performance: in this regard, effective at the cover, with the
group portrait in the bucket of a huge caterpillar.
The band,
despite the commercial failure of the LP, earned a good reputation in the
north-east circuit, until the death of Jay Leavitt in 1975 put tragically an
end to the project.
As the title
of the album, the Euclid produced armored music with scorching temperature but
with the splendor of the rock crystal.
Dr. John the
NightTripper
Gris-Gris
Atco
- 1968
Malcolm Rebennack è un
prodotto del sincretismo culturale di New Orleans, in bilico tra jazz,
dixieland, swamp blues ma anche i giri boogie di Fats Domino e Professor
Longhair. Autore di diversi brani piuttosto noti in zona già dalla fine degli
anni ’50, emigra in California verso la metà del decennio successivo, sull’onda
delle estati lisergiche della costa pacifica. A Los Angeles si trasforma nel
suo alter-ego artistico, Dr. John “the Night Tripper” Creaux, rubando il nome a
un leggendario santone voodoo ottocentesco. Un vero e proprio personaggio
teatrale, con vestiti sgargianti e copricapi improbabili: Malcom Rabennack
scompare ufficialmente. Sempre in California, mentre si guadagna una
reputazione come session-man, raccoglie un ensamble jazz-blues sotto la
protezione del produttore e concittadino Harold Battiste.
Amalgamando la sua
estrazione subtropicale con le matrici e la produzione tardo-psichedeliche,
perviene un disco d’esordio, “Gris-Gris”, impostato su brani liberi da ogni
struttura e pieni fantasia. Muovendosi come un contrabbandiere tra i “bayou” del Sud e le suggestioni del
Golfo dei Caraibi, Dr. John distilla una forma musicale ibrida e indefinibile,
creola di carnagione e cajun di cultura. I riferimenti principali sono il Mardi
Gras e il Voodoo da una parte e l’antico blues rurale dall’altra, sovrastati da
sfolgoranti riflessi psichedelici e da un appeal musicale che ha la leggerezza
e l’imprevedibilità del jazz. Dr. John conduce un gruppo eterogeneo che allinea
chitarre acustiche, mandolini, fiati ipnotici e le sue multiformi ma discrete
tastiere. L’album è una delle grandi opere “magiche” di fine anni ’60, intrisa
di spiritualità e devota a rituali arcani; tutte le canzoni sono evocazioni ben
più complesse, tanto musicalmente quanto culturalmente, delle messe nere di
Coven o Black Widow. La scrittura di Dr. John ha ora la libertà e gli accenti
di Van Morrison, ora l’ecletticità degli arrangiamenti di un futuro Tom Waits;
senza dimenticare la lezione horror di Screamin’ Jay Hawkins. Fondamentale è la
parte “corale” delle canzoni, in costante contrappunto con la voce solista del leader:
un call & reponse da coro gospel di un tempo dimenticato. Tutto ha
fortissime radici rurali e si porta appresso il caldo umido di un’estate in
Louisiana.
“Gris-Gris Gumbo Ya Ya”
è un’ ouverture necessaria alla presentazione del NighTripper, tremolante per
il riff blues di mandolino e striata da una tromba sbilenca: “Mi chiamano
l’uomo del Gris-Gris, ho il rimedio per curare ogni tuo male”: il Dottore della
Notte è tra noi, comparso in una nuvola
di vapori sulfurei. Con “Danse Kalinda Ba Doom” atterriamo in terre di America
Latina, con riflessi di folklore messicano, addirittura andino; una
rivisitazione sintetica di balli e canti tribali di secolare tradizione. Il
soul caraibico di “Mama Roux” è un
interpretato da un Van Morrison esoterico e notturno, mentre “Croker
Courtbullion” è un voodoo-jazz di gran classe, condotto da tastiere che
spaziano dal timbro flautato dell’incipit fino a imprevedibili intermezzi
classicheggianti di clavicembalo.
Pochissimi autori, nel
1968, si erano tanto addentrati ad esplorare la parte più buia della notte come
Dr. John; forse solo Jim Morrison (“End of the Night”, tra le altre) e Lou
Reed, mentre Iggy Pop e i suoi Stooges sarebbero presto pervenuti al loro
supremo maleficio con “We Will Fall” (“Stooges”, 1969).
“Danse Fambeaux” e
“Jump Sturdy” indagano gli antri di blues e Rn’B in chiave prima tetra poi
quasi scherzosa. Per finire, Dr. John sfoglia ancora il suo nero formulario con
“I Walk On Guilded Splinters”, che chiude idealmente il cerchio con la traccia
d’apertura; 7 minuti spaziosi ed esplorativi, dilatati; il solito mantra
ripetibile ad libitum: veleno, assassinio, presagio: I roll out my coffin/Drink
poison in my chalice; Dr. John, Il Grande Zombie come lui stesso si definisce,
elabora un sogno catatonico di morte apparente; le ultime frasi
discendenti di clarino sono la trovata
musicale migliore di tutto l’album.
Il disco fu distribuito
dalla Atco all’inizio del 1968; in periodo di solare pacifismo hippy,
l’esoterismo nero di Dr. John ebbe la peggio: l’album non centrò la charts e
passò quasi inosservato. In realtà questo era
l’album che Graham Bond e Arthur Brown in Inghilterra cercheranno per
anni di incidere; un lavoro che allunga le sue ombre fino a territori insospettabili
come Incredible String Band o i primi LP dei Funkadelic; che si insinua lontano
nello spazio e nel tempo: dai Gun Club di Jeffrey Lee Pierce ai Bad Seeds di
Nick Cave, fino alle atmosfere spaziali degli Spiritualized e a certo blues
jazzato stile Erykah Badu.
Un ascolto consigliato
tanto ai devoti adepti delle arti oscure, quanto ai più smaliziati amanti di
ogni tipo di black-music in cerca di qualcosa di diverso.
Malcolm
Rebennack is a product of New Orleans’ cultural syncretism, in the balance
between jazz and Dixieland, between swamp blues and Fats Domino’s boogie.
Author of
several songs rather known in the area, in mid ’60 he emigrates to California,
following the long wave of lysergic summer on the Pacific Coast. In L.A. he
turns into Dr. John “the Night Tripper” Creaux , his artistic “alter ego”,
stealing the name from an ancient voodoo wizard.
Mixing his
sub-tropical extraction with the late psychedelic production’s matrix, he reach
a debut album, “Gris Gris”, based on song structure-less and full of fantasy.
Moving like a smuggler among southern bayous and Caribbean Gulf’s suggestions,
Dr. John distils a musical form hybrid
and indefinable, Cajun in culture and creole in skin. The principal references
are “le Mardi Gras” and the Voodoo on one hand, the ancient country blues on
the other, all dominated by blazing psychedelic reflections and by a musical
appeal which has jazz agility.
Dr. John
conducts an extravagant ensemble who line up acoustic guitar, mandolin,
hypnotic reeds and his discreet and multiform keyboards. The album is one of
the greatest Magic Works of late sixty, drenched with spirituality and devoted
to arcane rituals. Every songs is an evocation the more complex, both musically
and culturally, than Coven’s or Black Widow’s Black Masses.
Dr. John’s
poetry has now the freedom and the accents of Van Morrison, now the
arrangement’s eclecticism of the future Tom Waits; without forget the horror
lesson of Screamin’ Jay Hawkins
“Gris-Gris
Gumbo Ya Ya” is the necessary ouverture
for the introduction of “The Night Tripper” , trembling for the blues-riff and striped by a croocked trumpet.
With “Danse
Kalinda Ba Doom” we land in Latin America country, with glares of Mexican folk,
while “Mama Roux” is sung by a nightly
Van Morrison and “Croker Courtbullion” is high-class voodoo jazz.
To finish, Dr.
John leafs still through his black formulary with “I Walk On Guilded
Splinters”, ideally related with open track: 7 minutes spacious and
exploratory, dilated; the same mantra, repeatable ad libitum: poison, murder,
omen: “I roll out my coffin/Drink poison in my chalice”. Dr. John, “le Grand
Zombie”, elaborates a dark nightmare of catalepsy; the last descending phrases
of clarion are the best musical invention in the album.
The record was
distributed by Atco in early 1968: in that period of sunny hippy pacifism, Dr.
John’s black esotericism got the worst
of it: the album never hit the charts. But actually, this was the work that
Graham Bond and Arthur Brown will try to cut for years; a work that extends his
shadow until unexpected territories like Incredible String Bnad or Funkadelic;
that creep away in time to Jeffrey Lee’s Gun Club, or Nick Cave’s Bad Seeds or
Jon Spencer’s Blues explosion, until Spiritualized’s space atmospheres.
Recommended
both to devoted adept of dark arts and to lovers of every kind of black music.
The Fugs
First Album
ESP Disk -
1965
Che siano o meno stati
la prima band underground, i primi veri alternativi, o addirittura l’embrione
della musica punk, oggi si può discutere all’infinito; ciò che conta è che i
Fugs furono autori di un corpus musicale esilarante, satirico e straordinariamente
anticonformista, impostato sul dilettantismo musicali dei singoli, sull’acume
beatnik dei testi e sulla più totale anarcoide conduzione di un complesso
aperto e liquido.
I Fugs si formano nella
fertile New York di metà anni ‘60 grazie ad Ed Sanders (scrittore, editore,
proprietario della libreria “The Peace Eye Bookstore”) e Tuli Kupfenberg
(quarantenne poeta beat di origine ebrea). I due trovarono presto le loro
amicizie tra guru della letteratura alternativa come Ginsberg, musicisti
parimente strambi come Steve Weber e Peter Stampfel (già fondatori degli “Holy
Modal Rounders”), nonché tra sbandati come Ken Weaver da El Campo, Texas, ex
pugile, ex pilota militare ed ex grancassa nella banda del college, cosa che
gli garantì un posto da batterista nel gruppo. Gente per cui l’ “American Way
of Life” non aveva senso; per cui il “sogno americano” semplicemente non
esisteva, non era mai esistito, né poteva esistere in una nazione che aveva
ucciso un proprio presidente e che continuava a spedire soldati in una jungla
tropicale dalla parte opposta del mondo. Il Peace Eye Bookstore divenne presto
la base operativa per happenings di “spoken word”, teatrini satirici, recite a
soggetto estemporanee e occasionalmente accompagnante da chitarra o batteria.
Un secolo di esperienze politico-cabarettistiche confluirono nel repertorio del
gruppo: da Jarry a Brecht, dal Cabaret Voltaire ad Helzapoppin, da William
Blake ai poeti di strada del Village. Un minimalismo imposto dall’inettitudine
dei musicisti era il comune denominatore di un gruppo che si riallacciava
idealmente alle “Jug Band” che infestavano Memphis negli anni ’20. Sanders era
qualcosa di simile ad un produttore, Weber e Stampfel i due soli musicisti
“autentici”, Kupferberg e Weaver le schegge impazzite.
Le prime sessions della
primavera del 1965 parevano una ristampa approssimativa delle vecchie
registrazioni coutry-blues di Alan Lomax per la Library of Congress negli anni
’40. Recuperavano un dilettantismo, un’improvvisazione e una spontaneità ormai
scomparse nei circuiti di una musica leggera già tremendamente professionale.
Non a caso le registrazioni furono possibili grazie alla Folkways Records,
etichetta specializzata nella musica popolare dei primi decenni del ‘900. Nel
frattempo il gruppo si era anche trovato un nome – Fugs appunto – derivato da
una novella di Norman Mailer, dopo aver purtroppo scartato “The Yodelling
Anarcho-Socialists”. La musica era coerentemente un folk-rock ante litteram:
folk nelle melodie e nei timbri, rock nell’atteggiamento e nell’anticonformismo.
Qualcosa di incredibilmente opposto sia al soffice pop di Beatles, Byrds e
Beach Boys, sia al rock competente di Stones e Who; e in effetti i Fugs furono
gruppo pungente e incompetente. Aprirono consciamente la strada ai freaks più
estremisti dell’ovest (Zappa, Beefheart, Residents) e inconsciamente a decenni
di Indie rock.
Il primo LP, “The
Village Fugs Sing Ballads of Contemporary Protest, Point of Views, and General
Dissatisfaction” (poi noto come “First Album”), uscì solo nel gennaio 1966,
dopo che il gruppo era già stato in tour nella west-coast preparandola così
alla ventura rivoluzione floreale. Il materiale è ben ripartito tra
l’ispirazione sognate ma scanzonata di Sanders, le potenti incursioni rock di
Weaver e le straordinarie filastrocche per voce recitante di Kupferberg. Le
armonie vocali (“Slum Goddess”, “Supergirl”) sono la storpiatura degli angelici
Beach Boys e si propongono come impossibile sintesi di yodelling e canto
gregoriano per derelitti, senza contare che il gruppo, stonato come pochi, non
disdegna nemmeno il canto “a cappella” (“My Baby Done Left Me”). Le chitarre
suonano ora come un’imitazione del country più becero (“How Sweet I Roamed From
Field To Field”), ora come il riverbero di un blues bianco e ubriaco; la batteria
è raramente più di un paio di bonghi. Nei testi è poi condensato tutto il
sapere grottesco e teatrale del complesso: gusto per l’osceno, per il sessuale
per il corporale (“Boobs A Lot”); ma non solo, visto che compaiono anche due
poesie di William Blake (“Ah Sunflower Weary Of Time” e “How Sweet I Roamed
From Field To Field”). Mentre i fratelli Wilson cantano le “California Girls”(
…le più carine del mondo…), i Fugs si dedicano alle “Regine dei Sobborghi”.
Weaver è l’autore degli
episodi più elettrici, addirittura con un’ aria proto-punk che sarebbe piaciuta
anche ai Cramps; le sue storie di underground poi, direbbe Bukowski, sanno di
“scoreggia bagnata”.
Se Sanders per ora si
dedica a “musicare” sonetti di Blake, oltre che licenziare lo yodel “My Baby
Done Left Me”, i testi e i brani Kupfenberg contengono indubbiamente la
scintilla del genio: sembrano partorite dal rigore intellettuale di un frate
trappista suburbano che si concede al secolare humor ebraico. Minimalista,
nichilista allegramente apocalittico, Kupfenberg è la vera anima spirituale
nascosta nell’album. “Carpe Diem”, coglie tutta la parte tragica dell’antica
esortazione, tramutandola in “risata verde” imprigionata in una ballata à la
Peete Seeger: non c’è scampo per nessuno, eppure l’Angelo della Morte non è mai
sceso in un contesto tanto spassoso. Procedendo con una litania sostenuta da
un’ armonica randagia, “Nothing” è ancora meglio: nel suo gusto iperbolico,
Kupfenberg sforna un testo di materialismo cinico eccezionale: ode al nulla, alla
noia, all’inutile, al vuoto; le stesse tesi su cui altri costruiranno una
carriera (Iggy Pop, a partire da “1969” e “No Fun”) sono ridotte a 4 minuti di
recita collettiva totalmente improvvisata, parte anche in spagnolo e Yiddish:
Monday Nothing,
Tuesday Nothing,
Wednesday and Thursday Nothing,
Friday for a change
a little more nothing
Saturday also nothing […]
‘29: Nothing,
'32: Nothing,
'39-'45: Nothing.
1965: A whole lot of nothing,
1966: Nothing […]
Karl Marx: Nothing,
Engels: Nothing,
Bukunin and Krapotkin: Nothing.
Leone Trotsky: Lots of nothing,
Stalin: Less than
nothing.
Una “Whole Lotta
Nothing” che chiude degnamente il cerchio con la ferocia satirica di Karl Kraus
(“Su Hitler non mi viene in mente niente…”).
Nel 1993 la Fantasy ristampa
l’album in CD con l’aggiunta di tutti i pezzi scartati delle prime sessions,
tra cui spiccano il manifesto “We’re The Fugs” (con la bella rima: “and we like
ass…”) e niente po’ po’ di meno che “The Ten Commendaments” (accreditata con
coerenza a Jahweh/ Kupfenberg). In una parata di sketch, “Defeated” è l’unica
vera “canzone” che ricostruisce la lunga filiera delle sconfitte sociali a cui
sono destinati i “non allineati”.
Con l’aria sorniona di
chi finge di non sapere, i Fugs hanno scritto un lungo necrologio alla società
“sana”, al politicamente corretto, alla televisione edulcorata. Star-Spangled
Banner, Jack Be Nimble, Amazing Grace, Love Me Tender, Superbowl, Coca-Cola,
tacchini ripieni e torta di mele giacciono informi in una fossa comune ricoperti
da caustica ironia.
Possibly the
first punk or, better, the first conscious unconventional and alternative band,
The Fugs were authors of an hilarious, satiric and nonconformist musical
“corpus”, based on amateurism of players and on a total anarchist band
conduction. In the First Album (aka The Village Fugs Sing Ballads of
Contemporary Protest, Point of Views, and General Dissatisfaction) the vocal
armonies (Slum Goddess”, “Supergirl) are the crippling of "The Sunny Beach
Boys", an impossible synthesis of folk yodeling and Gregorian choir. The
guitars sound now like an imitation of boorest country, now like the echo of an
old drunken white blues.Kupfenberg really hit the mark with the super stray litany “Nothing” an hyperbolic anthem
to total materialism.
Karl Marx:
Nothing,
Engels:
Nothing,
Bukunin and
Krapotkin: Nothing.
Leone Trotsky:
Lots of nothing,
Stalin: Less
than nothing.
This “Whole
Lotta Nothing” really end the ferocious
Karl Kraus satire: "Mir fällt zu Hitler nichts ein" (Hitler brings
nothing to my mind…).
With the sly
look of who pretend to don’t know, the Fugs wrote a huge obituary of healty
society, of politically correct, of anesthetized TV. Star-Spangled Banner, Jack
Be Nimble, Amazing Grace, Love Me Tender, Superbowl, Coca-Cola, apple pie and
Turkey Day, all lie shapeless in a grave, covered by caustic irony.
1 commento:
Non li ho mai ascoltati, ora tento di rimediare. Grazie per la dritta ;)
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