Battendo il web alla specifica ricerca di “altro” - prog americano,
nella fattispecie - è fin troppo facile imbattersi in rottamature del passato,
nuovi nomi del mondo alternativo, vecchie glorie che non abdicano al tempo.
Sintetiche, sinteticissime prime impressioni di quanto potete
incontrare setacciando, casualmente e senza meta, la rete.
Black Pistol Fire
Con tripletta di LP:
Omonimo (2011) Big Beat ’59 (2012) e Hush or Howl (2014)
A prima vista scatenati blues-tamarri tex-mex alla corte di Eric
Sardinas, ma più alternativisti e low-fi e quindi discepoli invasati degli ovvi
Black Keys prima maniera (tra 20 anni forse si potrà ben valutare la reale
portata di Auerbach, magari anche di fronte alla scomparsa dalla memoria dei
White Stripes). Del resto coppia pure loro (canadese) e - del resto - quando
una canzone si intitola Jezebel Stomp
qualche motivo per sbattere in giro la testa ci deve poi essere... Sort me Out è addirittura sfacciata
nella copia carbone del duo di Akron.
Big Beat '59, già un titolo che attinge al primordiale, spiana un beat
veramente troglodita, riduce il numero di brani (bene), ne riduce pure il
minutaggio (bene, se vi piace così),
inserisce qualche malsana tonalità da mariachi rock (Beelzebub) e qualche ronzio in più negli
strati di accompagnamento desertico, con slide obbligatoria (Crows Feet). Roba da motociclisti
debosciati in stile Sons Of Anarchy. Lamentatevi!
Il terzo LP finge di complicare un po' la rifferia, ma è poi sempre la
stessa roba di contrabbando al mercato nerissimo del garage blues, più cinetico
e cromato degli esordi, questo sì.
The Stone Foxes
Ancora tripletta: omonimo, Bears and Bulls e Small Fires. Americani di
San Francisco, mica scherzi.
Iniziano in un juke joint indie, quasi agreste, anzi addirittura
campagnolo, con certe rozze leccate di slide e armonica che neanche nella
contea di Hazzard. Sul primo album ci sono titoli ingombrantissimi come Rollin’ and Tumblin e Spoonfull, risolte con amichevole
menefreghismo, ma anche tortuosità acidule come Take a Breath e ballatone slow. Menzione per la jammona ustionante
di Under the Gun, 7 minuti di Power
Trio confederato e Larsen a valanga.
Bears and Bulls (2010), che si avventura in un naturale glam-stomp
mica male, si arrischia perfino di un titolo come I Killed Robert Johnson, una murder ballad a 320 volt. Poi rollingstonismi
assortiti, un po' di iperboogie cannedheattiani, il solito tributo alla tradizione
(Little Red Rooster) compiti ben
svolti ed un eloquio sempre educato e a volte troppo rispettoso (Mr. Hangman a parte, che potrebbe essere
un Lester Butler in stato di grazia...). Restano, per fortuna, gli echi acidi
della Frisco che fu (Reno, bella).
Su Small Fire (2013) solo 10 brani (ottimo), che lasciano le campagne
per urbanizzarsi in un funk cittadino, costruito da un sound maturo, voluminoso
nello spessore, a colonna sonora di un notturno poliziesco e revivalista.
Vicini agli ultimi B.R.M.C, con qualche afflato sognante e una pericolosa
tendenza melensa che pur salvano sempre in corner. Copertina pulp di
straniamento hollywoodiano, tra Hipgnosis e Strange Days.
Grodeck Whipperjenny
Album omonimo, anno
1970.
Psycho-funky spaziale e distorto, dal sound fantasioso ed
imprevedibile. Progressivo nelle intenzioni, funkadelico nei risultati, come
dei Love furibondi per le strade più rissose di Detroit. Furono backing band di
James Brown. Conclusions è un nero
strumentale con intro per quartetto d'archi, ma occhio a Put Your Thing On Me: devastante assolo di chitarra ultra fuzz che
smitraglia raffiche di black pulp nel midollo del più cool dei pusher. Fantastico! Evidence Of The Existance Of The Unconscious è inedito black prog
strumentale e morboso, tra Hysaac Hayes e Quatermass.
Thee Image
Due album: omonimo (ma vè…) del ‘75 e Inside The Triangle, sempre ‘75.
Soft rock da west-coast di secondissima generazione, mescolato a
sensuale slow funky da nightclub, rilassato sulla spiaggia di Venice e senza
pretese di trionfi internazionali. Nel trio c’è pure il buon Mick Pinera, che
dopo Blues Image e Iron Butterfly, sa il fatto suo in fatto di latineggianti
colate di Fender (Temptation). Secondo
album più robusto e rockettaro.
Prodotti dalla Manticore, label di proprietà di ELP, per cui negli
stessi anni suonava pure la PFM; strani incroci.
Joe Henry
Invisible (2014) cioè l’ultimo album; solo questo perché il
personaggio merita ben altro approfondimento.
Lo immagini nella penombra di una stanza d'albergo al crepuscolo di un
Mardi Gras anni '20. Uno spleen dal sapore di sano eroismo piccolo borghese
(bianco, indubbiamente), che affonda le radici nel cuore stesso della Grande
Canzone Cantautorale Americana, dal Bob nazionale al primo Tom Waits fino ai
Grandi Disillusi sulle soglie del millennio: i Kozelek, gli Eitzel.
Classe da vendere, Sign (in
crescendo di epico abbandono), Alice
e Swayed da ascoltare. La riscoperta
di un “segno folk” arricchito da orchestrazioni minime ed eleganti, mai
appariscenti, che meditano sulla profondità nascosta nelle cose semplici.
Traccia di un blues dell'assenza riempito da un country jazzato da settimane
astrali, di sincera nostalgia.
Tante penne non sospette ne scrivono; a ragione.
Mystic Braves
Due album tra il ‘12 e il '14 (fa impressione scritto così, eh?)
Il primo, omonimo, si apre con Mystic
Rabbit, tanto per ribadire il concetto di rosicchiatori mistici a piede
libero. Un juke-box distorto da estati anni '60 riparato da un vetro giallastro
di revivalismo stile Barracuda; chitarre western piene di riverberi e miraggi
di 13th Floor, Quicksilver e pigrizie doorsiane (Strange Lovers). Un pop pulsante come facevano Bryan MacLean e
Arthur Lee privi di ispirazione, copertine di colorati mandala appesi alle
porte chiuse del Fillmore. Esordio bello ma monocorde (Please Let Me Know, brit-pop risuonato da qualche sballato
psicotico texano della International Artist) che fluisce senza salti come un unico
eterno brano di 3 minuti, ciclico e riflesso da 1000 specchi.
Desert Island (2014) si scuote dal torpore ipnotico e non rinnega
certo il passato, aggiungendo qualche logica (e timida) linea di Farfisa da
Ventures spaziali. Personalità rinvigorita da qualche assolo azzeccato,
songwriting più multiforme, dal vago sapore spagnolesco, vocalità rivedibile,
produzione ancora un po’ piatta. Bello il surf di Valley Rat e la sarabanda virulenta di Born Without a Heart.
Un pomeriggio di stordimento fumoso su un morbido e oppressivo divano
psichedelico. Poi correre all'aria aperta, spalancando finestre e sperando
nella pioggia.
2 commenti:
Mi rendo conto di nuotare nell'oceano..Vado a fare quattro giri su Spotify, magari riesco a fare una pesca ricca come questa..
Nuotiamo tutti in un 'mare magnum'
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