Non uso scrivere necrologi e non lo farò nemmeno questa volta.
Mi limito a ripostare un vecchio, vecchissimo articolo, pubblicato agli albori del blog, quando ancora i post erano interessanti.
Buona lettura.
<<Nell’idea
di Coleman non esiste un tema vero e proprio e gli assoli non sono
impostati su variazioni melodiche o armoniche: la musica fluisce
libera, senza limitazioni, tutto dipende solo dalla creatività
immediata del musicista. Altro aspetto non secondario: ogni
componente del complesso può essere solista o accompagnatore allo
stesso tempo, senza distinzioni, ruoli e tantomeno gerarchie. La
melodia può essere proposta dal sax, dalla tromba ma anche dal
contrabbasso o dalla batteria.
Ma
allora … niente armonia, quindi niente accordi classici, niente
tonalità … ognuno suona quello che gli pare in qualunque momento:
un gran caos? >>
<<In
Coleman’s idea does not exist a real “theme”, and the solos are
not set on melodic or harmonic variations: the music flows free,
without limitation, all only depends on musician’s prompt
creativity. Another important aspect: each component of the band can
be soloist or accompanist at the same time, without distinction, nor
roles and hierarchies. The melody may be proposed by the sax, the
trumpet, but also by the bass or drums. But then ... no harmony, no
classical arrangements, no tonality... each one plays what he wants
at any time: a big mess?>>
Uno
dei pochi veri manifesti musicali degli ultimi 50 anni, Free Jazz ne
fu anche uno dei più rigorosi e fortunati. Portavoce di
un’avanguardia apparentemente ostica e scontrosa, in realtà
allegra, fantasiosa e “democratica”. Fu partorito dalla mente
dell’altoista Ornette Coleman che già da alcuni anni era alla
ribalta della scena con il suo giovane quartetto, musicisti
agguerriti e trasgressivi nella proposta, avversati da buona parte
dell’establishment, ciò non di meno decisi a perseguire i propri
obiettivi. Quelli di Coleman erano pochi, apparentemente semplici, ma
di portata sconvolgente: saranno tutti sublimati in questo suo
capolavoro.
Primo
fra tutti: la disgregazione dell’armonia e delle rigide regole di
composizione che da essa derivano. Poi il superamento, o la semplice
noncuranza, del sistema tonale. Non è poco se consideriamo che
tonalità e armonia sono state le colonne d’Ercole della musica
occidentale degli ultimi secoli. In un contesto “alto” qualcosa
del genere, seppur con un’impostazione molto più rigorosa e
completa, fu tento da Schönberg e Berg nei primi decenni del ‘900
con la proposta dodecafonica.
Restando
in ambito Jazz, Coleman si impegna anche a trovare un nuovo modo di
costruire il brano musicale; pur nelle sue mille sfumature e
raffinatezze, il Jazz della fine degli anni ’50 era ancora
generalmente impostato attorno ad un tema, alla sua esposizione
corale e ad un certo numero di sue variazioni, operate dai solisti
supportati da un accompagnamento ritmico. Nell’idea di Coleman non
esiste un tema vero e proprio e gli assoli non sono impostati su
variazioni melodiche o armoniche: la musica fluisce libera, senza
limitazioni, tutto dipende solo dalla creatività immediata del
musicista. Altro aspetto non secondario: ogni componente del
complesso può essere solista o accompagnatore allo stesso tempo,
senza distinzioni, ruoli e tantomeno gerarchie. La melodia può
essere proposta dal sax, dalla tromba ma anche dal contrabbasso o
dalla batteria.
Ma
allora … niente armonia, quindi niente accordi classici, niente
tonalità … ognuno suona quello che gli pare in qualunque momento:
un gran caos?
No,
si tratta di riconsiderare aspetti della musica a cui il pubblico è
talmente abituato da esserne assuefatto al punto di non vedere altre
soluzioni possibili al suono “armonico e intonato”; e del resto
anche gli eroi classici erano “belli e buoni”. Le arti
figurative, dal canto loro, già da cinquant’anni avevano superato
il concetto di riproduzione fedele della realtà, delle forme, dei
colori. Mondrian, Picasso, Mirò hanno dimostrato come si possano
dipingere idee, emozioni, stati d’animo, il fluire del tempo,
invece dei tradizionali paesaggi, scene sacre o nature morte. Non per
caso sulla copertina del disco è riprodotto “White Light” di
Jackson Pollock, con il suo frantumarsi su fondo bianco …
Inoltre
non è del tutto vero che ogni musicista ha libertà totale. Non è
tanto questione di free quanto di “freer”, di essere più liberi
di quanto non fosse in passato. Un concetto che per la comunità nera
di inizio ’60 finì per avere un peso anche sociale e politico.
Esiste per l’improvvisatore free Jazz una specie di principio di
indeterminazione, per cui la musica non è obbligata sui binari di
tonalità, armonia e tempo; ma aleggia in una “nuvola
possibilistica di soluzioni” come gli elettroni di Heisenberg.
Tutti
questi concetti trovano in Free Jazz una delle loro migliori
realizzazioni. E allora cos’è Free Jazz?
E’
un’improvvisazione collettiva, come dice il sottotitolo, per doppio
quartetto; e qui c’è un colpo di genio: non c’è un solo
complesso libero di suonare, ma ce ne sono addirittura due che,
sfruttando la novità dello stereo, suonano uno nel canale sinistro,
uno in quello destro. Jazz al quadrato. I quartetti si rimbalzano
idee, frasi musicali, contrapponendo o parafrasando suoni e melodie
l’un l’altro. 8 musicisti suonano assieme nello stesso luogo,
nello stesso momento seguendo un’impostazione condivisa e
accattivante. E gli 8 musicisti in questione erano il gotha della
nuova generazione, capitanati da Coleman e Dolphy, tutti
entusiasticamente compresi nel progetto.
Entriamo
maggiormente nel merito della musica, sfruttando la precisa analisi
che fa Martin Williams nelle liner notes dell’edizione in CD.
Scopriremo che quello che in apparenza ci pare caos primordiale è in
realtà un unico lungo brano di 37’, equamente diviso sulle due
facciate del LP originale. Le uniche sezioni scritte (o almeno
abbozzate) sono i collettivi che fungono da cerniera tra le diverse
parti solistiche. Qui tutti gli otto musicisti suonano in ciò che
Coleman chiama “Harmonic hunison”: ogni ottone ha la sua nota, ma
queste sono tanto distanziate (so spaced) da suonare non come armonia
ma come unisono. Come sempre con Ornette Coleman, la musica funziona
meglio delle parole …
Il
lato A del disco è caratterizzato dalle sezioni soliste dei fiati,
ognuna di circa 5 minuti, quasi il doppio per i leader Coleman e
Dolphy; nell’ordine propongono un assolo: Eric Dolphy al clarinetto
basso, Freddie Hubbard alla tromba, poi Ornette Coleman al sax alto.
Il lato B si apre con il solo di Don Cherry alla pocket trumpet. La
cosa importante nel progetto dell’altoista era che “Quando un
solista suona qualcosa che mi suggerisce un’idea o una direzione
musicale, io la suono dietro di lui nel mio stile, mentre lui
continua ovviamente con il suo assolo”. Questo è forse il cuore di
(e del) Free Jazz: l’immediata risposta a emozioni e suggestioni
che una certa frase musicale suscita negli altri strumentisti; un
gioco di libere associazioni, una sciarada sonora che potrebbe
continuare all’infinito. Come nota Martin Williams: una specie di
polifonia basata tra l’altro su una fondamentale componente
emotiva. Ed è proprio quello che succede! Il solista comincia la sua
sezione, accompagnato da basso e batteria del proprio quartetto, ma
anche, di riflesso, dai componenti del complesso “opposto”;
durante l’esposizione del suo assolo, gli altri musicisti
cominciano ad inserirsi nel discorso, parafrasando, contrappuntando,
ripetendo le frasi del solista di turno. Grazie a questa generale
impostazione di fondo il disco non scivola mai nell’anarchia né
trascende i limiti della capacità d’ascolto. Si prenda il solo di
Cherry che apre il lato B: dopo circa un minuto con la sola compagnia
dei bassisti e dei batteristi, subentra Coleman; a questo punto si
muove il quartetto “di destra” prima con Hubbard poi con il
nervoso contrappunto di Dolphy sul registro basso del clarone; nel
frattempo il trombettista continua imperterrito ed anzi conduce la
parte “corale” libera che riconduce poi al suo solo. Le parti di
compenetrazione, di reazione, di scontro, di compartecipazione tra i
due quartetti sono i climax musicali dell’album, che risulta
intimamente costruito su flussi e riflussi di musica. Uno dei momenti
più alti è la conclusione del lato A, nella parte comune della
sezione di Coleman. Dopo l’assolo fantasioso del sassofonista,
rubato ad una filastrocca da strada, tutti i “magnifici 8” sono
impegnati in uno scontro emozionante; commenterà Coleman “Puoi
sentire gli altri continuare a costruire assieme così perfettamente
che la libertà diventa addirittura impersonale”.
Il
lato B suona più notturno e a tratti ipnotico, essendo appannaggio
dei contrabbassi e delle batterie. Nell’ordine: Charlie Haden,
LaFaro, Blackwell e Higgins, separati, come incorniciati, dai brevi
frammenti all’unisono che sono l’unico principio d’ordine nel
fluire della composizione, e che restituiscono un senso tangibile di
“tempo” e temporalità, coordinata che diversamente sembra
scomparire, assorbita nei meandri dell’improvvisazione collettiva.
Ancora
un paio di questioni. Quale fu la reale portata di quest’album?
Come
tutti i manifesti fu opera sincera ed appassionata, che facilmente
può prestare il fianco alla critica più cinica. All’epoca fu
certo molto destabilizzante, ma va considerato non come unicum, ma
piuttosto nel contesto dei primi lavori di Coleman, di Cecil Taylor,
di Sun Ra, e anche di certo Davis, quello “modale” di Kind of
Blue (1959), a cui Free Jazz viene a volte contrapposto. Sicuramente
Coleman diede un nome e fornì le linee guida per un intero
movimento: questo già la dice lunga. Musicalmente il discorso si fa
ancora più interessante; come già notava Adorno in “Filosofia
della musica moderna”: “L’origine dell’atonalità intesa come
purificazione completa della musica dalle convenzioni, ha proprio in
questo un che di barbarico”. O ancora: “L’accordo dissonante
[…] sembra anche, a sentirlo, che il principio d’ordine della
civiltà non l’abbia del tutto soggiogato, quasi come se esso in
certo modo fosse più antico della tonalità”. Questo essere
“barbarica” e “non soggiogata” fece si che,
nell’effervescenza dei primi ’60, la musica di Coleman fu subito
interpretata dalla comunità nera come un tentativo di riappropriarsi
di una primigenia cultura africana, che venne utilizzata come mezzo
di rivendicazione di indipendenza e come collante per una nuova unità
degli americani di colore. Una Cultura ed una Storia africane
percepite, a ragione, come precedenti (più antico della tonalità…)
a quelle - di fatto ancora embrionali - degli americani bianchi
ex-schiavisti; una musica quindi che riannoda i fili della memoria
innalzandola addirittura a memoria di razza. E’ il contributo che
il Jazz (non si parla qui solo del free né tantomeno solo di
Coleman) ha dato alla nascita del soggetto “Afro-americano”.
Lasciando
da parte un attimo i risvolti sociali, occorre poi ribadire che la
musica di Coleman eserciterà una grande influenza anche al di fuori
del circuito Jazzistico: Frank Zappa, Captain Beefheart, Tim Buckley,
George Clinton, perfino il punk di Detroit fino alla new wave e al
rock tedesco, veicoleranno la nuova forma di libertà introdotta dal
free in ambienti rock e pop, gettando le basi per contaminazioni e
sperimentazioni fino ad allora sconosciute. La possibilità di
lasciare da parte tanta teoria musicale, unita all’utilizzo di
strumentazioni elettriche ed elettroniche (come ribadirà poi Bitches
Brew) in mano alla giovanile irruenza rock darà libero sfogo alla
creatività dei solisti più virtuosi o dei teorici più
intransigenti, contribuendo a fare uscire la musica leggera dal suo
stadio larvale di hit parade estiva.
Riguardo
alla soggettiva, ciò non di meno dibattuta, “ascoltabilità” /
“inascoltabilità” di una musica così prepotentemente estroversa
e libera, questo è un falso problema. Armonia, tonalità e tutto
quanto da esse deriva, sono convenzioni. Radicate nella cultura
occidentale magari da millenni e a cui siamo tutti morbidamente
assuefatti, ma sono pur sempre convenzioni; e come tali
rinegoziabili. Con l’effetto che non viene meno la musica, ma ne
subentra una diversa da quella che apparentemente l’Uso e la Storia
hanno legittimato. La stessa cosa succede per le arti visive, quando
le avanguardie del primo ‘900 hanno riveduto i centenari canoni di
prospettiva, proporzione, riproduzione. A partire
dall’Impressionismo, per arrivare a Mondrian, Picasso, Kandinsky,
si sono aperte nuove strade alla pittura, svincolandola dalla
pedissequa riproduzione del “vero” da realizzarsi secondo regole
codificate.
Se
può piacere un quadro di Mirò o di Pollock, allora può facilmente
piacere anche Free Jazz, senza necessariamente scendere nel profondo
della composizione, magari gustandosi i timbri e le coloriture dei
solisti.
Per
chiudere, una pagina tratta da “Il Popolo del Blues” di Amiri
Baraka, tanto per chiarire come la rottura operata da Coleman fosse
già chiara ai suoi contemporanei (il libro è del 1963), nonché
condivisa dalla gran parte degli intellettuali afro-americani: “Ciò
che hanno fatto Coleman e Taylor è stato un tipo di Jazz
praticamente non basato sull’accordo, e in molti casi anche atonale
[…]. La direzione e la forma della loro musica non dipendono da
accordi costantemente stabiliti, né accettano le costrizioni formali
della battuta. Si può dire che questa musica si basi, per la sua
forma, sullo stesso tipo di riferimenti delle prime forme di blues.
E’ una musica cioè che prende in considerazione l’area tonale
della sua esistenza, come mezzo per evolversi, muoversi, come un
concetto musicale intelligente, strutturato dall’inizio alla fine.”
Non
abbiate paura del Free!
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