Captain
Beefheart & His Magic Band - Safe as Milk
Appena otto
settimane separano la pubblicazione di questi due album, da
settembre a novembre 1967. Entrambi
furono registrati pochi mesi prima in America (a New York Disraeli
Gears, a Los Angeles Safe as Milk).
Sono
album divergenti, che si incrociano lungo la strada e poi continuano
il loro viaggio in direzioni opposte, senza guardarsi indietro.
Entrambi
sono di dichiarata ed esplicita matrice blues. Blues bianco, suonato
da giovanotti borghesi, benestanti e mediamente istruiti, cresciuti
sui dischi della Chess, di Otis Rush, di Howlin' Wolf, Albert King,
Muddy Waters e Little Walter.
Un
approccio al blues di “seconda generazione” mediato dal revival
di metà anni '60 e appunto dai 33 giri dei grandi maestri, piuttosto
che dal contatto diretto.
Da
una parte, i Cream sullo scheletro blues si fanno costruttivi,
variopinti, risentono del polline della stagione dei fiori (a partire
dalla copertina fino
allo psycho rock di SWLABR)
costruiscono abbellimenti sovraincisi e ricami d'oriente (Dance
the Night Away); si
dimostrano il primo vero supergruppo; di virtuosi più che di autori.
Dall'altra
parte, la Magic Band scava ulteriormente quello scheletro, lo lascia
sbiancare al sole, ne fa macerie e fossili, cerca di riallacciare il
filo non tanto con il “revival”, ma direttamente con la sorgente
della musica del Delta (Plastic
Factory in tutto il suo
primitivismo), un'involuzione che guarda almeno 30 anni indietro
(tale Son House, non so se avete presente). Sure
'Nuff 'n Yes I Do, e tutto
ciò che segue, è del resto un blues del deserto, laddove quella dei
Cream è musica urbana, uscita dai club di una “Swinging London”
che stava dettando la moda. Safe As Milk, volutamente, non segue per
nulla la moda e nulla ha a che spartire con la stagione dei fiori e
dei loro figli.
Lo
spettacolo dei Cream è pirotecnico, tutto proteso a liberarsi
nell'assolo spaziale, morbido e modulato dagli effetti; sono
giocolieri di scale e ritmi supersonici, virtuosi avvenenti, con
capelli lunghi, caffettani retrò, camice preraffaellite.
La
Magic Band a confronto è piuttosto una galleria di curiose bizzarre
bestie licantrope, pur in giacca e capello curato, deformate dalla
laringe horror di Beefheart e dalla furia animalesca del gruppo che
si sublimano nella temibile tirata per slide di Electricity.
Questo è il blues dell'
hobo errante che mendica un whisky e nulla ha da dimostrare, l'altro
è quello raffinato degli allievi di Mayall che usano una
strabiliante perizia strumentale per divagare un po'
paternalisticamente grazie alle possibilità di improvvisazione
offerte dalle 12 battute. Van Vliet è fuori dal tempo, suona
blues per un'esigenza spirituale, artistica e forse biografica; i
Cream, e Clapton per il resto della carriera, sono certo “in time”
e utilizzano
il blues come veicolo mondano per la propria maestria. Il che non
significa che lo suonino peggio né che la loro musica sia
svalutata (vedi Outside
Woman blues...);
però è così, mettiamoci l'animo in pace. Ecco che il riff
memorabile di Sunshine
of Your Love
marchia di diritto le classifiche di quell'annata magica, mentre
quello altrettanto memorabile
di Drop Out Boogie
echeggia oggi come un protopunk d'antologia, senza nessuna eco
commerciale. Eppure riemergerà più volte in anni recentissimi, anzi
sta riemergendo ancora adesso; chiedere ai Black Keys se abbiano mai
ascoltato quest' album.
A
dimostrazione di quanto la musica blues sia sfuggente ed elastica, di
quante soluzioni offra e di quante suggestioni si nutra.
All'epoca
i Cream divennero superstar proprio grazie a Sunshine,
mentre Van Vliet faticava a trovare contratti e litigava
continuamente con i discografici. Disraeli Gears fu in top 5 tanto in
USA che in Inghilterra; Safe As Milk non entrò nemmeno in
classifica.
Oggi
chi si sognerebbe di fare una cover di Tales
of Brave Ulysses piuttosto
che di Zig Zag Wanderer?
Per
una volta, vince la sincerità.
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