Chi sono quelle figure sacerdotali eppure
metropolitane, che invadono il palco con i loro attrezzi musicali? Che cosa
suonano? Cosa recitano? Perché il loro spettacolo sembra più un’evocazione che
un concerto jazz? Perché questa loro bizzarra proposta appare più moderna e
provocatoria oggi rispetto ai primi anni ’70?
Perché ascoltare ancora l’Art Ensemble of Chicago?
Perché non è solo musica; è pensiero
libero, mai prevaricatore, mai passivo, con un seme di primordiale universalità
africana che ci ricorda da dove veniamo.
E’
ancora vergine, come la foresta. Lo era nel 1970, lo è in
gran parte ancora oggi. Perché è “free-bop” o meglio “be-free” un’espressione che anche semanticamente coincide con la
filosofia di fondo del gruppo. Un gruppo che sente la necessità di rendere
esplicita sin dal nome la sua provenienza, Chicago, salvo poi dimostrare ben altro
con una musica che è “del Mondo” e si espande come nella radiazione evolutiva dell’Homo Erectus dalle
valli del rift al Medio-oriente. E ritorno. Una musica che suona di casa tanto
in Maxwell Street quanto al riparo della falaise
de Bandiagara tra la gente Dogon del Mali.
Una timbrica sconfinata che va dalle piogge tropicali dei vibrafoni, ai
clacson scortesi di una metropoli (post)moderna, fino ai flauti pastorali di
tribù nomadi su grandi pianure. E allora forse è vero che “space is the place”, o meglio: gli
spazi sono il luogo: tanti spazi diversi su un unico palco.
Ma chi su quel palco amministra e percorre
questa moltitudine di spazi?
C’è Joseph Jarman, alto, in dashiki
bianco, una sorta di Lester Young delle origini, con quel suo timbro profondo,
il riverbero spesso flemmatico, echi addirittura cool. C’è Roscoe Mitchell, che
veste dallo stesso sarto di Ornette Coleman, con tonalità sgargianti nella
giacca e atonalità continue riversate su sheets
of sounds in legato perpetuo, biscrome che ululano sui rami più alti dei
una jungla urbana antica eppure moderna, allo stesso tempo. C’è la tromba
melodrammatica e parlante di Lester Bowie che ci ricorda l’alienazione di
comunità metropolitane che vanno disgregandosi e lancia l’assalto alle trincee
oscurantiste della lotta di razza.
Poi c’è la meraviglia della sezione
ritmica di Malachi Favors e Don Moye, meravigliosa proprio perché non è una sezione ritmica. All’ Art
Ensemble non interessa la costruzione di prospetti verticali con fondamenta
armoniche e pilastri ritmici. Il gruppo disegna al contrario ampi paesaggi di spazi aperti, estesi, wide. Don e Malachi definiscono
semplicemente dei campi d’intervento, come due coordinate geometriche sul
piano; funzionano come le linee scure in un quadro di Mondrian: delimitano settori
cromatici pur essendo parte integrante dell’opera. Determinano un “ritmo” pur
essendo parte integrante della melodia e mai sottoposti ad essa.
Poi c’è il leader; che in realtà manca.
Ognuno conta uno, nessuno conduce, nessuno è condotto. E nonostante tutto l’Art
Ensemble non è solo un anarchico collettivo free. Suona musica “scritta”,
composta, nel senso stretto del termine, ma che si sviluppa su di un copione
che è anche, esplicitamente teatrale. La scena è importante come la proposta
sonora: ed è una scena ricolma e ridondante di oggetti musicali, di “piccoli
strumenti”, in cui i cavi dei microfoni e le spie degli amplificatori si
intrecciano a strumenti antichi e improbabili; centinaia di percussioni che
sono come giochi di costruzione per bambini curiosi, che nelle mani dei componenti
del gruppo diventano mediatori musicali
per elaborare tappeti percussivi ad
libitum, tessuti poliritmici sgargianti che fanno dei cinque musicisti non solo dei performer ma veramente degli
officianti.
Con loro si conclude il lungo viaggio di
ritorno alle origini che il jazz intraprese dalla fine degli anni ’50. Figli di
coloro che furono schiavi, ritornano nella terra degli antenati: i volti
dipinti, i costumi, i nomi da battaglia: il tutto reso in modo così esplicito
da essere a volte un espressionismo formale addirittura esagerato.
Perché considerare questa musica moderna
e non il relitto di addirittura due distinti passati? Uno lontanissimo, che
inizia con l’istituzione della musica percussiva come elemento fondante per il
“rito”; l’altro più recente, che riconduce agli anni ’70 del jazz con tutta la
crisi dei generi classici e la controversa adozione dell’elettrificazione in
una fusion di generi assai
differenti.
A ben guardare, in un momento di
frenetica innovazione, l’ Art Ensemble non è poi tanto diversa da un combo be-bop
mischiato ad una festante marching band con coscienza di razza, il tutto
aggiornato agli anni delle Black Panther e del long playing a 33 giri. Senza
occhiali in corno e baschi neri, ma con una inconfondibile esteriorità equatoriale, si concedono, rispetto al jazz degli anni
’40, una maggiore elasticità armonica, una sconfinata fantasia timbrica e una
evidente propensione al brano esteso, alla suite, al flusso continuo. Restii al
45 giri quanto, si direbbe, alla sala d’incisione (molti dei loro grandi
capolavori su disco sono dei live), la loro musica può essere ruggente,
lungamente percussiva, con battiti che non sono beat ma un vero e proprio
linguaggio comunicativo. Può essere anche spaventosa e cacofonica. Ma mai
superficiale né banalmente improvvisata o disordinatamente caotica. Rimane
sempre educata, in fondo, non volgare, forse meno di rottura rispetto a Coleman
o Cecil Taylor, spoglia dell’astro-filosofia di Sun Ra; non si fa mancare
neppure un certo gusto retrò nelle parti d’assieme, come una vecchia big band
in crociera su oceani caldi. Ma è sempre solida, addirittura rigorosa.
Recuperando tanta tradizione antica e “religiosa”,
il loro spettacolo diventa rito. Giorno di festa. E come ogni giorno di festa
la loro performance comporta la
“sospensione del tempo” come flusso. Nel giorno di festa, tutto si ferma.
Durante le loro esibizioni le lancette non battono. Esiste solamente
quell’ampia, enorme dimensione spaziale che i cinque sacerdoti riescono ad
evocare. Un afflato di intensa spiritualità in tempi fin troppo materiali.
E se la loro musica è figlia di un momento sociale e culturale
talmente peculiare che, ad un primo ascolto, si faticano ad immaginare Jarman,
Mitchell & Co. attori, anche solo su disco, degli anni 2000, la loro idea è così creativa e multiforme
da essere ancora vergine. Vergine per l’ascoltatore, vergine ancora per il
critico. Vergine sopratutto per il grande
pubblico.
Così da essere riproponibile ora con la
stessa freschezza e la stessa originalità di un tempo.
"Please take this music as far inside
yourselves as the musicians have gone inside themselves to present it to you,
and we can begin then to complete the term the music has established for itself.
Let it be a BAPTIZUM, as it was for the people who got it direct
that afternoon in Ann Arbor, September 9th. 1972, sitting under the music of
the Art Enesemble of Chicago in the sun. Let it be whatever it wants to be, let
it do whatever it wants to do to you - let it wash over you and be your BAPTIZUM too, as it was that say for
so many of us, and rise up and out of it as far as you can go."
John
Sinclair – Note all’edizione originale di BAPTIZUM
IMMAGINI
The Art Ensemble of Chicago - The Third Decade - 1984
Mondrian - Composition A - 1920
Max Ernst - La Foresta Imbalsamata - 1933
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