domenica 18 dicembre 2011

Riletture Americane - La Rapidità - parte 1



“Categorie calviniane” applicate alla Popular Music - La Rapidità - Pt. 1


La rapidità ha a che fare con il tempo. E il tempo è una delle colonne portanti della musica universale.
Fare musica significa, tra l’altro, scegliersi e modellarsi un battito, un respiro, un colpo; isolarlo. Su esso costruire una melodia, più melodie; una sinfonia o una canzone. Ogni musica ha il suo proprio tempo interno (il beat, il ritmo). Ma possiede altresì uno specifico tempo esterno, il momento in cui viene eseguita (per una cerimonia religiosa, un concerto, una ricorrenza …). In aggiunta esiste poi un tempo proprio per l’ascoltatore, per il “pubblico” che non sempre coincide con il momento né tanto meno con il beat. La latenza tra momento e tempo dell’ascolto è la distanza che separa l’esecuzione di un pezzo dal suo diventare oggetto per il pubblico. Se solo 40 anni fa un singolo inciso in Tennesee o in California poteva impiegare mesi per essere distribuito nel resto d’America e addirittura anni per essere ascoltato nel resto del mondo, oggi le autostrade informatiche hanno di fatto annullato questo “ritardo” e chiunque possieda un computer  può ascoltare un brano nel momento stesso in cui viene pubblicato. L’unica rapidità che interessa, in questo contesto, è il bitrate in download.
“Ritardi” e “distanze” sono stati pressoché azzerati dall’informatica. Certo il ritmo interno della musica è ancora un aspetto determinate ed anzi, è stato forse l’aspetto più caratterizzante di tantissima musica commerciale. Un cambio di passo e nasce il twist, o il rock’n Roll o la samba.
Forse il Rock è il genere che più di tutti è in debito con il beat.


Maybellene, da alcuni citata addirittura come il primo brano compiutamente Rock n’ Roll, è una canzone del 1956 in cui Chuck Berry descrive una macchina quasi fosse una donna (e viceversa). Il merito del chitarrista sta nell’aver sapientemente trapiantato l’archetipo donna = macchina = donna, già del Robert Johnson di Terraplane Blues, nel mondo dei teenager americani degli anni ’50: se le allusioni di Johnson erano molto “carnali”, Berry è assai più sfumato e ironico; dal sessuale al sociale. Da allora la rapidità che si incarna nell’automobile stabilirà quell’indissolubile connubio Rock – Motori che sarà una delle colonne portanti di tutta la musica popolare per i successivi 60 anni, nonché uno dei luoghi comuni più condivisi, sfruttati e abusati da autori e musicisti di ogni genere “popular”.
Il perché è facile da capire ed era già ben chiaro a Leonard Chess durante la produzione dell’ hit di Berry. Il pubblico a cui si rivolgeva il Rock n’ Roll a metà degli anni ‘50 era composto da teenager in odore di patente per i quali l’automobile, cioè la velocità e l’autonomia, era un biglietto d’accesso ad una vita indipendente e avventurosa, in cui il viaggio non era più una noiosa passeggiata sul sedile posteriore ma una atto di rivendicazione di sé. Nel 1968 Jerry Rubin sintetizzerà il sentire comune degli anni della sua giovinezza ricordando come la rivoluzione sessuale fosse cominciata proprio sui sedili delle automobili ascoltando Presley alla radio.

“La civiltà del benessere, producendo un’automobile e una autoradio per ogni famiglia della media borghesia, procurò a Elvis la sua massa di reclutamento.
Mentre la radio trasmetteva “Turn Me Loose”, liberami, sul sedile posteriore i ragazzi si liberavano. Molte notti vennero spese in buie strade solitarie, a darsi da fare a ritmo
di rock.
Il sedile posteriore provocò la rivoluzione sessuale. e L’autoradio fu lo strumento della sovversione.”
Jerry Rubin – Fallo!


Dunque questa prima e più immediata forma di rapidità di spostamento è uno dei motivi conduttori importanti della musica popolare e la sua incarnazione prediletta, la macchina, è il soggetto di innumerevoli canzoni. Nell’impossibilità di citarle tutte basterà ricordarne alcune in ordine sparso: Up Around The Bend dei CCR, Black Caddilac degli Stones, From Buik to 6 di Dylan (rivisitazione potente di Terraplane Blues), Trampled Under Foot dei Led Zeppelin (quasi Stevie Wonder che strimpella Maybellene), Hot Rod (Black Oak Arkansas), I Love Girls And Cars (Dictators), la sinistra Behind The Wheel dei Depeche Mode, Red Barchetta dei Rush, l’autobiografica Take Me Down di John Campbell e mille altre.
In aggiunta, un accenno ad altri due “contesti giovanili” in cui la rapidità assume significato importante: il mondo del surf, fuori e dentro la musica, con un anelito a cavalcare l’onda e lasciarsi scorrere sulla superficie dell’oceano che nei casi estremi diviene quasi mistico; e il mondo dei bikers: diminuisce il numero delle ruote, ma la mancanza del parabrezza, il prendere il vento in faccia è anche in questo caso desiderio di fuga da realizzarsi attraverso il motore.

Puts a rocket in his pocket
At the dawn of day
Needs a goodbye kiss in the mornin', mist
You know the man can't stay.
Easy rider, he's a glider
Freedom, every day
Easy rider, easy glider
Lettin' the wind pay the way
All right, yeah
(Iron Butterfly – Easy Rider)


Ride the waves of everlove
Let them throw you on the beach
Gathering experience
While it's still in your reach
Faster faster
Faster than the speed of life
Faster faster
Faster than the speed of life
(Steppenwolf - Faster than the speed of life)

Estendendo poi il soggetto alla “strada”, alla “guida” fino alla corsa (run o ride, due parole potentissime nel lessico Rock), o addirittura al viaggio, intesi sia in senso concreto che metaforico, troveremmo abbastanza materiale per un intero volume. Basterà citare una delle canzoni modello della musica moderna americana, cioè Born To Run di Bruce Springsteen: le sue immagini di autostrade urbane che tolgono il fiato, il sue essere sempre sospesa tra descrizione realistica e interiorizzazione, la rende senz’altro una dei grandi manifesti per una rinnovata leadership Americana. Pur pubblicata nel 1975, si è rivelata una visione talmente profetica da potere essere quasi un inno per il decennio successivo.

In the day we sweat it out in the streets of a runaway American dream
At night we ride through mansions of glory in suicide machines
Sprung from cages out on highway 9,
Chrome wheeled, fuel injected and steppin' out over the line
Baby this town rips the bones from your back
It's a death trap, it's a suicide rap
We gotta get out while we're young
`Cause tramps like us, baby we were born to run
(Bruce Springsteen – Born To Run)



Qui sta tutta quell’America di Mezzo, spaventata tanto da Iggy Pop e Lou Reed, quanto da Nixon, sospettosa delle filosofie libertarie californiane, contraria al Vietnam ma intimamente fiduciosa nel Sogno Americano, Democratica ma patriottica, sempre di corsa, lottando per un posto al sole, ma fiduciosa nell’amore e nella famiglia: un’epica urbana, interrazziale, malinconica ma non priva di speranza. Fu, per inciso, anche il disco in cui si realizzo la prima vera, tangibile sintesi tra la tradizione musicale bianca e quella afroamericana: in quella copertina con il Boss e la sua Fender appoggiati al monumentale sax di Clemons si chiude forse una ferita che nella società e nella musica da essa espressa, era aperta da troppo tempo.
Un’ altra bella sintesi di questa intima connessione tra giovinezza, libertà e velocità, in cui la macchina è l’oggetto mediatore, l’ha fornita la cantautrice Tracy Chapman nel suo album di esordio del 1988. Fast Cars, una semplice ballata acustica, intimista, che si pone come un piccolissimo frammento famigliare rispetto all’universalità (americana) del brano di Spreengsteen.

You got a fast car
I want a ticket to anywhere
Maybe we make a deal
Maybe together we can get somewhere
Anyplace is better
Starting from zero got nothing to lose
Maybe we'll make something
But me myself I got nothing to prove
(Tracy Chapman – Fast Cars)

Una tale esigenza di rapidità, di quinta marcia, di impennata, si traduce spesso in una velocità anche biografica, vissuta sulla pelle dell’artista, in prima persona. Succede quando la voglia e il desiderio diventano necessità.
Live Fast, Die Young” il titolo di un B-Movie del 1958 diventa la sintesi efficace dell’ estremo stile di vita che spesso il senso comune attribuiva alla rock-star, vita spericolata dopo vita spericolata, tragedia dopo tragedia. La comunità artistica stessa si impossessò e si nutrì di questa visione del mondo e cominciarono gli slogan:

I don't wanna live
to be thirty-four
I don't wanna die
in a nuclear war
(Circle Jerks - Live Fast, Die Young)

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