Isola di Taiwan, Camp Reagan - 26-09-2034
Mi guardo attorno assonnato; dietro di noi vedo il grande divano viola
ingurgitare il biondo della Virginia, e risputarne pezzi sanguinolenti
tutt’attorno, sul pavimento; lui cerca di alzarsi; gli mancano le gambe.
Risprofonda tra i cuscini aguzzi. Tutta la stanza si protrude in una bolla
oblunga di sapone colorato dall’odore amarognolo. Una goccia di acqua verdastra
penetra dal soffitto di cartone, formando una pozza sul pavimento. Una grossa
larva biancastra si avvicina al liquido; lo succhia avidamente. Scuoto forte la
testa.
Usciamo cercando aria nuova, un po’ di pioggia sulla faccia. Il
maxischermo vomita proclami in giapponese e pubblicità di elettrodomestici
robotizzati.
Attorno c’è la folla meticcia di Chongyang Road, che passa questi
ultimi giorni cercando di vendere automobili sportive e balsamo di tigre a
ventenni del Kentucky, rasati e in tuta mimetica.
Qualche hanno fa tra i parchi del Beitou ci potevi trovare mandrie di
studenti con capelli lunghi, colli di pelliccia ed occhiali rotondi, stile Yoko
Ono; progressisti innamorati della cultura americana che si rifletteva nel
sottobosco giapponese. Odiavano la Cina, la sua cultura, la sua lingua. Ne
odiavano l’enormità e l’ambizione. Tra loro parlavano un idioma bastardo
nippo-inglese. Da buoni isolani rivendicavano una legittima indipendenza dal
continente e dal resto del mondo. La maggior parte delle case della zona era
occupata da squatter che passavano il giorno sdraiati su brande improvvisate e
animavano le notti dello Xindè Boulevard, al suono dei bonghi e dei falò.
Oggi, attorno alla nostra nuova, immacolata caserma, c’è una
Montmartre sepolta, ancora viva, nel proprio Père-Lachaise; la vedi dimenarsi,
sbavare le ultime pillole di Mandrax tra sparuti gruppi di ragazzini incerti.
Per il quartiere stride perennemente la suoneria dell’ultimo apparecchio
cellulare touch-screen dual band. Li fabbricavano a Taiyuan, Cina del nord, poi
anche lì cominciarono gli scioperi; rivolte. Pretendevano una vita migliore. La
produzione oggi è interamente passata in Myanmar.
L’università era già in crisi da anni; ha chiuso i battenti quando noi
yankee siamo arrivati in forze. Per la strada sono rimasti vecchi murales post industriali
e ipnotici, nel migliore dei casi. Ma per la maggior parte sono scarabocchi su
pareti in cemento armato. Il resto lo fanno i gruppi antagonisti che tracciano
acrostici osceni con la vernice rossa, contro l’Esercito e il Congresso, sopra
i cartelloni pubblicitari rotanti. Tutti gli altri vendono; ci vendono ogni
cosa.
Respiro a pieni polmoni quel pulviscolo di atmosfera cittadina
orientale mista a gas di scarico poliglotti. Garner sta contrattando per
rifornirsi di Djarum da un vecchio pappone vestito come un eroe della blaxploitation;
quella roba da dipendenza davvero…
Una ragazza si avvicina; ha i capelli lisci, lunghi, con riflessi
rossi; occhiali gialli, di plastica, pantaloncini di jeans, un vecchio paio di
anfibi militari. Mi prende la mano, se la mette sul culo. “Tlenta dollali, si?
Vuoi culo? Tlenta dollali, si?” Dall’altro lato della strada due poliziotti in
camicia azzurra hanno pigliato un writer e lo massacrano di botte con spranghe
di metallo.
“E’ da un po’ che non parlo con la mia famiglia; da quando l’esercito
ha tagliato le comunicazioni avrò sentito mia madre si e no una volta al mese”.
Garner ha la voce densa di chi parla con sincerità e senza illusioni.
Io sono anni che non parlo con mia madre.
Poi, mentre ce ne stiamo seduti sul ciglio della strada, appena fuori
il recinto spinato, ecco che incontriamo un giovane sott’ufficiale medico della
3°, la “Duck Brigade”. Si chiama Raymond Turner, viene da Carson City. Deve
ricevere ordini dal Colonello Berenger per un incarico sotto copertura.
Capiamo immediatamente che sarà il terzo elemento della nostra
squadra. Ci sediamo assieme; osserviamo quel flusso ininterrotto di gente
strampalata.
Turner fuma poco, più per cortesia che per piacere. Parla ancora meno.
Ha il viso tirato che abbiamo tutti prima di sapere con esattezza i nostri
incarichi. Anche lui, come Garner, è uno specializzato. Anestesista, medico da
campo; ha lavorato anche con la 4° Psyop; ma non ha mai conosciuto Crowley. E’
stato una paio di mesi in Giordania, poi la solita trafila: Iran, a casa
quattro settimane; ancora Iran e poi Corea, l’anno scorso, dopo l’Avvento.
Nemmeno lui è un killer, non è uno spirito sanguinario da prima linea. Perché
fare il medico e poi arruolarsi?
Parlando, salta fuori che Garner, da piccolo, coi suoi andava in
vacanza al Lago Tahoe, proprio nei pressi di Carson City; Turner faceva lo
stesso, e chissà, magari si sono anche incontrati, per caso, vent’anni fa a
Burton Creek o Sugar Pine Point. Cominciamo a raccontarci ovvietà come
“Eh…sarebbe stato bello essere ancora là” … o “quando torniamo andiamo a
pescare a Zephyr Cove!”. Le banalità in questi frangenti hanno lo stesso
effetto dell’aspirina. Blando sollievo momentaneo, non danno troppa dipendenza
e sono sempre a portata di mano. Tutt’al più sono possibili disturbi leggeri
allo stomaco; nausea, quando ne focalizzi la stupidità.
Io non ho ricordi di vacanze con la mia famiglia. Nella testa mi rimane
solo l’immagine agonizzante di mio fratello. Non se ne va più; da molti mesi
ormai. La bocca digrignata, un filo di bava che gli cola dal naso nella gola.
Occhi sbarrati; ancora disperati.
Era riemerso furtivamente dalla sua untuosa tenebra degenerata solo per
chiedermi soldi. All’inizio non volevo darglieli; non volevo li usasse per
farsi l’ennesimo blister di Kapanol. Ma chi ero io per giudicare cosa ne
avrebbe fatto? Non volevo nemmeno recitare la parte del buon samaritano quando
in realtà non me ne fregava un cazzo. Drogato, pedofilo, ladro. Non me ne
fregava un cazzo. Così lo nascosi sotto un cappotto afgano e lo trascinai con
me a Lakewood in un locale da camionisti sulla Madison. Gli ho pagato una birra,
forse due. Ci siamo guardati negli occhi per minuti, senza parlare. Quando la situazione
diventava troppo pesante, lui abbassava lo sguardo, verso il vetro; sulle gocce
di pioggia aggrappate alla finestra. Socchiudeva la bocca; come un pesce in una
boccia d’acqua stantia; cercava di dirmi qualcosa. Se lo avessi osservato
meglio ci avrei forse trovato angoscia, tensione. Paura. Cercava di dirmi
qualcosa, credo. Ma io lo guardavo con la sprezzante superficialità con cui si giudica
l’ultimo dei perdenti.
Per altre due volte tentò di parlare; ma forse gli mancava addirittura
il fiato. Alla fine gli lasciai cinquecento dollari. Pochi giorni dopo partii
per Fort Riley; non lo vidi più.
Quando mi diedero la notizia che era scomparso, probabilmente morto
affogato nell’Erie, non mi sorpresi; né versai lacrime. Speravo che quei
cinquecento dollari gli avessero reso gli ultimi giorni meno tremendi.
Una passeggiata sul fiume, un paio birre, magari qualcuno da
abbracciare. Un altro giorno perfetto. Come nella canzone.
Ora, un anno dopo e a migliaia di miglia di distanza, me ne sto seduto
accanto a John Garner e Raymond Turner, due ragazzi che fino a un paio di
giorni fa nemmeno conoscevo e a cui, da domani, potrei dovere affidare la vita.
Una fila ininterrotta di macchine coreane ci sfila davanti, incuranti,
impersonali, maleodoranti.
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