giovedì 27 dicembre 2012

Frammento #11 Isola di Taiwan, Camp Reagan - 26-09-2034


Isola di Taiwan, Camp Reagan - 26-09-2034


Mi guardo attorno assonnato; dietro di noi vedo il grande divano viola ingurgitare il biondo della Virginia, e risputarne pezzi sanguinolenti tutt’attorno, sul pavimento; lui cerca di alzarsi; gli mancano le gambe. Risprofonda tra i cuscini aguzzi. Tutta la stanza si protrude in una bolla oblunga di sapone colorato dall’odore amarognolo. Una goccia di acqua verdastra penetra dal soffitto di cartone, formando una pozza sul pavimento. Una grossa larva biancastra si avvicina al liquido; lo succhia avidamente. Scuoto forte la testa.
Usciamo cercando aria nuova, un po’ di pioggia sulla faccia. Il maxischermo vomita proclami in giapponese e pubblicità di elettrodomestici robotizzati.
Attorno c’è la folla meticcia di Chongyang Road, che passa questi ultimi giorni cercando di vendere automobili sportive e balsamo di tigre a ventenni del Kentucky, rasati e in tuta mimetica.
Qualche hanno fa tra i parchi del Beitou ci potevi trovare mandrie di studenti con capelli lunghi, colli di pelliccia ed occhiali rotondi, stile Yoko Ono; progressisti innamorati della cultura americana che si rifletteva nel sottobosco giapponese. Odiavano la Cina, la sua cultura, la sua lingua. Ne odiavano l’enormità e l’ambizione. Tra loro parlavano un idioma bastardo nippo-inglese. Da buoni isolani rivendicavano una legittima indipendenza dal continente e dal resto del mondo. La maggior parte delle case della zona era occupata da squatter che passavano il giorno sdraiati su brande improvvisate e animavano le notti dello Xindè Boulevard, al suono dei bonghi e dei falò.
Oggi, attorno alla nostra nuova, immacolata caserma, c’è una Montmartre sepolta, ancora viva, nel proprio Père-Lachaise; la vedi dimenarsi, sbavare le ultime pillole di Mandrax tra sparuti gruppi di ragazzini incerti. Per il quartiere stride perennemente la suoneria dell’ultimo apparecchio cellulare touch-screen dual band. Li fabbricavano a Taiyuan, Cina del nord, poi anche lì cominciarono gli scioperi; rivolte. Pretendevano una vita migliore. La produzione oggi è interamente passata in Myanmar.
L’università era già in crisi da anni; ha chiuso i battenti quando noi yankee siamo arrivati in forze. Per la strada sono rimasti vecchi murales post industriali e ipnotici, nel migliore dei casi. Ma per la maggior parte sono scarabocchi su pareti in cemento armato. Il resto lo fanno i gruppi antagonisti che tracciano acrostici osceni con la vernice rossa, contro l’Esercito e il Congresso, sopra i cartelloni pubblicitari rotanti. Tutti gli altri vendono; ci vendono ogni cosa.
Respiro a pieni polmoni quel pulviscolo di atmosfera cittadina orientale mista a gas di scarico poliglotti. Garner sta contrattando per rifornirsi di Djarum da un vecchio pappone vestito come un eroe della blaxploitation; quella roba da dipendenza davvero…
Una ragazza si avvicina; ha i capelli lisci, lunghi, con riflessi rossi; occhiali gialli, di plastica, pantaloncini di jeans, un vecchio paio di anfibi militari. Mi prende la mano, se la mette sul culo. “Tlenta dollali, si? Vuoi culo? Tlenta dollali, si?” Dall’altro lato della strada due poliziotti in camicia azzurra hanno pigliato un writer e lo massacrano di botte con spranghe di metallo.
“E’ da un po’ che non parlo con la mia famiglia; da quando l’esercito ha tagliato le comunicazioni avrò sentito mia madre si e no una volta al mese”. Garner ha la voce densa di chi parla con sincerità e senza illusioni.
Io sono anni che non parlo con mia madre.
Poi, mentre ce ne stiamo seduti sul ciglio della strada, appena fuori il recinto spinato, ecco che incontriamo un giovane sott’ufficiale medico della 3°, la “Duck Brigade”. Si chiama Raymond Turner, viene da Carson City. Deve ricevere ordini dal Colonello Berenger per un incarico sotto copertura.
Capiamo immediatamente che sarà il terzo elemento della nostra squadra. Ci sediamo assieme; osserviamo quel flusso ininterrotto di gente strampalata.
Turner fuma poco, più per cortesia che per piacere. Parla ancora meno. Ha il viso tirato che abbiamo tutti prima di sapere con esattezza i nostri incarichi. Anche lui, come Garner, è uno specializzato. Anestesista, medico da campo; ha lavorato anche con la 4° Psyop; ma non ha mai conosciuto Crowley. E’ stato una paio di mesi in Giordania, poi la solita trafila: Iran, a casa quattro settimane; ancora Iran e poi Corea, l’anno scorso, dopo l’Avvento. Nemmeno lui è un killer, non è uno spirito sanguinario da prima linea. Perché fare il medico e poi arruolarsi?
Parlando, salta fuori che Garner, da piccolo, coi suoi andava in vacanza al Lago Tahoe, proprio nei pressi di Carson City; Turner faceva lo stesso, e chissà, magari si sono anche incontrati, per caso, vent’anni fa a Burton Creek o Sugar Pine Point. Cominciamo a raccontarci ovvietà come “Eh…sarebbe stato bello essere ancora là” … o “quando torniamo andiamo a pescare a Zephyr Cove!”. Le banalità in questi frangenti hanno lo stesso effetto dell’aspirina. Blando sollievo momentaneo, non danno troppa dipendenza e sono sempre a portata di mano. Tutt’al più sono possibili disturbi leggeri allo stomaco; nausea, quando ne focalizzi la stupidità.
Io non ho ricordi di vacanze con la mia famiglia. Nella testa mi rimane solo l’immagine agonizzante di mio fratello. Non se ne va più; da molti mesi ormai. La bocca digrignata, un filo di bava che gli cola dal naso nella gola. Occhi sbarrati; ancora disperati.
Era riemerso furtivamente dalla sua untuosa tenebra degenerata solo per chiedermi soldi. All’inizio non volevo darglieli; non volevo li usasse per farsi l’ennesimo blister di Kapanol. Ma chi ero io per giudicare cosa ne avrebbe fatto? Non volevo nemmeno recitare la parte del buon samaritano quando in realtà non me ne fregava un cazzo. Drogato, pedofilo, ladro. Non me ne fregava un cazzo. Così lo nascosi sotto un cappotto afgano e lo trascinai con me a Lakewood in un locale da camionisti sulla Madison. Gli ho pagato una birra, forse due. Ci siamo guardati negli occhi per minuti, senza parlare. Quando la situazione diventava troppo pesante, lui abbassava lo sguardo, verso il vetro; sulle gocce di pioggia aggrappate alla finestra. Socchiudeva la bocca; come un pesce in una boccia d’acqua stantia; cercava di dirmi qualcosa. Se lo avessi osservato meglio ci avrei forse trovato angoscia, tensione. Paura. Cercava di dirmi qualcosa, credo. Ma io lo guardavo con la sprezzante superficialità con cui si giudica l’ultimo dei perdenti.
Per altre due volte tentò di parlare; ma forse gli mancava addirittura il fiato. Alla fine gli lasciai cinquecento dollari. Pochi giorni dopo partii per Fort Riley; non lo vidi più.
Quando mi diedero la notizia che era scomparso, probabilmente morto affogato nell’Erie, non mi sorpresi; né versai lacrime. Speravo che quei cinquecento dollari gli avessero reso gli ultimi giorni meno tremendi.
Una passeggiata sul fiume, un paio birre, magari qualcuno da abbracciare. Un altro giorno perfetto. Come nella canzone.
Ora, un anno dopo e a migliaia di miglia di distanza, me ne sto seduto accanto a John Garner e Raymond Turner, due ragazzi che fino a un paio di giorni fa nemmeno conoscevo e a cui, da domani, potrei dovere affidare la vita.
Una fila ininterrotta di macchine coreane ci sfila davanti, incuranti, impersonali, maleodoranti.

Nessun commento:

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...