Alcuni giorni fa su Detriti
di Passaggio è stato comprensibilmente stigmatizzato l’articolo che il
giornalista di Repubblica Gianni Santoro ha dedicato all’ultimo lavoro di
Morrisey, cantante paragonato dall’autore ora a Battiato, ora a Celentano, ora
a Tenco.
Potete leggere l’intero post di Massimiliano qui:
e l’articolo originale di Repubblica qui:
La conclusione, o il postulato di partenza se preferite, di Massi, in
bello stile antagonista, é stata: se
questa è la critica italiana, io non sono italiano.
Rielaboro qui un commento
scritto un po’ in fretta su G+ appena qualche giorno fa.
<<Si può anche pensare di invertirla la frase: “se questa è la critica italiana, io non sono
un critico”.
La prendo da lontano, innanzi tutto con una personale considerazione:
quello di Repubblica non è un pezzo di critica
musicale, è un pezzo di cronaca
musicale; e chi lo scrive non è un critico ma un cronista, evidentemente di
seconda mano, che assembla un pezzo derivando qualche informazione da Wikipedia
e Wikiquote e porta a casa la pagnotta.
In un articolo linkatomi (perdonate la bruttura del verbo) proprio da Massimiliano
Manocchia su Facebook si definiva il critico - in maniera magari generica -
come un punto sull'immaginaria linea che congiunge il musicista
all'ascoltatore, un punto importante per indirizzare l'ascoltatore stesso verso
un artista piuttosto che un altro.
“…Una volta, ai tempi di Lester
Bangs, per citare un critico che compare nel pezzo di Soundwall, l’accesso alla
musica era molto limitato e il critico era una figura imprescindibile.
All’epoca, ma anche in tempi più recenti (la rivoluzione digitale di massa,
ricordiamolo, risale a pochi anni fa), la recensione era un faro nel mare
magnum della produzione musicale, che con le nuove tecnologie non solo si è
moltiplicata esponenzialmente, ma è anche diventata più accessibile
Mentre oggi “il giornalista,
insomma, ha smesso, quasi del tutto, di essere al centro di quella linea
immaginaria che unisce musica e lettore, ricalibrando il proprio compito.”
Inevitabilmente i lavori, le mansioni e le competenze cambiano.
Vent’anni anni fa gli architetti avevano tecnigrafo, scali metro, compasso,
squadre e ogni ingombrate armamentario per tracciare linee esatte e
stampigliare cartigli; oggi c'è Autocad. E basta. Una bella differenza! Non so
che fine abbiano fatto i venditori di tecnigrafi. Forse sono tutti falliti,
nessuno ce lo ha raccontato. Ci hanno raccontato invece le sofferenze delle
grandi case discografiche e cinematografiche con l'avvento del
"digitale" del "download" e di tuttte le recenti tecnologie
informatiche finalizzate ala comunicazione e alla diffusione. Perchè anche lì
il mondo è cambiato parecchio.
Vent’anni fa la Columbia spediva i 33 giri direttamente nelle
redazioni, il critico li ascoltava e ci scriveva su; oggi il disco arriva
direttamente sul PC, a tutti, a volte senza sborsare nemmeno 1 euro. Allora
quella linea immaginaria di cui sopra
si restringe parecchio, quasi si annulla la distanza tra artista e pubblico. E
il "critico" dove sta?
Deve ricollocarsi, e per farlo deve ripensare alla sua produzione. È
perfettamente inutile ormai descrivere dei suoni, delle voci, dei ritmi o perfino
delle canzoni. Bisogna descrivere delle "esperienze di ascolto", personali, interiori. Perchè tanto
l'ascolto nudo lo possono esercitare tutti, mentre le esperienze di ascolto sono sempre differenti. Questa prassi diventa
quasi obbligatoria quando poi si parla dei "vecchi mostri sacri". Allora
puoi fare piccoli inutili pezzi di cronaca (come quello linkato nel post di
Detriti di passaggio) o pezzi che abbiano nell'interiorità di un ascolto
vissuto quel qualcosa di nuovo, individuale, differente, personale che riscatta
l'ascolto generalizzato di massa.
Secondo, ma non ultimo: occorre ascoltare di più; nemicamente intendo.
La qualtità di musica nuova o di riscoperte vecchie è talmente incommensurabile
che non ci si può limitare al singolo album, ogni tanto. Occorre, per quanto
possibile, un’indagine estensiva, occorre riappropriarsi di un (lungo) tempo da
dedicare all’ascolto. Solo così si possono accumulare esperienze e riferimenti
in un mare tanto magnum.
Può ben essere che fare il critico oggi sia più difficile che 40 anni
fa... dopo tutto Lester Bangs scriveva di album spettacolari, che oltretutto
nessuno ascoltava (o che nessuno comperava). Ora ci si trova a scrivere di
album orrendi che però tutti conoscono (o che tutti, in ogni momento, possono
ascoltare). C’è una bella differenza.
Se però ci può consolare (o impensierire), sul web si trova molto di
meglio di quello che oggi Repubblica propone, ma anche, ahimè mooooolto di
peggio (Vlad e Massi credo capiranno meglio di altri)
Non so, ci consola?
Personalmente, no.>>
Corollario (ulteriore)
Da tempo ormai la qualità
ha smesso di essere un criterio discriminante per la valutazione e la
programmazione del lavoro.
Questo, unito ad una batteria di contratti a termine, parasubordinati
e occasionali che non lasciano spazio ai diritti, ha creato una generazione di lavoratori usa e getta gratificati solo
investimenti al ribasso. Tutto ciò che ormai sembra importare sul mercato è la puntualità (o rispetto) la disponibilità (o accondiscendenza) e la riservatezza (o omertà). Con buona pace
di un lessico vagamente malavitoso.
Questo è il meccanismo che fa sì che malesi, indonesiani, taiwaniani e
compagnia bella ormai ci facciano mangiare la polvere quando si parla di competitività.
Abbiamo voluto la globalizzazione? Bene, eccola.
Ma smettiamo un attimo i discorsi “universali” (e forzatamente
generici) per ritornare al nostro cortile, il nostro “own backyard” per dirla con Dion.
Ora, nel campo che qui ci interessa, e cioè la “scrittura musicale”,
la recensione tout court, l'autoproclamato “giornalismo rock”, il blogging, chiunque
abbia cognizione di Wikipedia, Allmusic e Discogs è in grado di scrivere una
retrospettiva competente su chiunque
(vedi Santoro con Morrisey). Una playlist di mp3 scaricati da qualche blog
israeliano (quando non bombardano la povera gente, pare che a questo si
dedichino) ed ecco una monografia fatta e finita; anche bella, magari.
Dove competente significa contenutiscamente corretto. E basta.
Perché poi la forma sintattica è sempre quella, il pensiero critico
individuale abdica spesso di fronte alla convenienza delle maggioranze, la
sterilità di nomi, date, luoghi prende il sopravvento su un sincero e
dichiarato “soggettivismo”. E il lavoro è fatto.
Da qui l'inutilità di ennesime didascalie, cronologie, storicismi...
in particolar modo quando si tratta il noto, il conosciuto, il già eviscerato,
autopsiato, ri-ri-esumato.
Per il resto, come detto sopra, servirebbero, a parer mio, personali esperienze d'ascolto,
declinate ognuna secondo il proprio timpano e il proprio sguardo; non più secondo
quello dell’artista.
Questo, ma anche il riappropriarsi in toto dei tempi d’ascolto.
Tempi di ascolto, non di
scrittura o discussione.
Perché con la proposta enorme e variegata che fornisce il presente e
la contemporanea, massiccia, riscoperta del passato, il materiale da esplorare
diventa numerosissimo. Il mare è davvero magnum
e sempre meno nostrum.
Non basta più l’ascolto singolo del singolo album, ma l’indagine deve
essere estensiva, selettiva, il setaccio sempre pronto a separare il bello dal meno bello e chi parla di musica deve anche essere un po’
archivista, un po’ bibliotecario, un po’
collezionista, un po’ ricercatore, un po' perditempo. I riferimenti possono cambiare, le
citazioni, i paragoni devono tenere conto dello spettro nel suo insieme.
Tutto, e qui sta il paradosso, con la consapevolezza del limite. Dei nostri limiti, di
memoria, disponibilità, finanze… Anche di gusto; anzi, soprattutto di gusto.
Altrimenti manca la selezione, il giudizio, la discriminante. Non può passare l’idea
che tutto è bello (o brutto) allo stesso modo. Tutto uguale.
Su quei limiti calibrare la nostra esperienza di fruizione musicale.
Su quei limiti dichiarare il nostro punto di vista, su quei limiti
trovare la via personale alla scrittura di musica. Su quei limiti fare scorrere
la linea che separa ciò che ci piace da ciò che non ci piace.
Dobbiamo ascoltare di più, dobbiamo elargire tempo di qualità alla
musica.
O meglio, dovremmo.
7 commenti:
Evil mio hai toccato un tasto dolentissimo..perchè i giornalisti o critici o pseudo tali sono una categoria che spesso scrive senza alcuna cognizione di causa, usando la carta stampata solo per il vil denaro..
Ho conosciuto critici musicali che recensivano scalette di concerti senza vederli e le canzoni poi risultavano anche differenti..
Detto tutto , no?
Un bacio serale!
Due cose che condivido pienamente:
Raccontare personali esperienze d'ascolto (e la cosa che mi interessa di più e al diavolo la critica) e il riappropriarsi in toto dei tempi d’ascolto, cosa che tento di impormi purtroppo spesso senza riuscirci.
...e dedicare tempo di qualità alla scrittura: rischiare, osare, azzardare... la penna guidata dall'orecchio. Grazie, Evil.
Io credo che parlare di musica, oggi, sia più difficile che 40 anni fa. Forse anche "fare" musica oggi è più difficile. Fare e parlare con qualità, s'intende.
Il tempo d'ascolto, il modo d'ascolto, è la chiave. La fruizione che abbiamo della musica cambia la percezione della musica stesa, e qui si aprirebbe un altro capitolo, ma va bene così, per ora.
Rileggo il mio stesso post, e capisco che forse il mio pensiero è intricato. Non so dove si possa andare a parare, ma so bene il "prodotto" che voglio evitare, da cui scappare; questo sì.
Daccordissimo per quanto riguarda il dedicare più tempo all'ascolto, specialmente quando quello che ascolti lo proponi ad altri. Certo, può essere anche brutto, può non piacere, ma almeno è parte di un discorso personale..
Dopo aver letto questo articolo, mi sono alzato dalla sedia e mi sono lasciato andare ad un lungo appaluso. Nessun problema di natura psicologica per fortuna, ma questo tuo scritto rappresenta una boccata di ossigeno in un mare digitale, oramai inquinato da sedicenti critici. Chapeau.
Too much Jen, too much! (potrebbe essere un titolo AOR, no?))
Alla fine siamo un po' tutti sedicenti critici, non scriveremmo in giro, sennò. Dipende molto dallo spirito e da quanto prendersi sul serio.
Il discorso che più mi interessa però è quello della qualità e del tempo; perchè sono cose che ritornano anche nel "lavoro reale".
Ciao! Grazie dell'apprezzamento!
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