martedì 23 agosto 2011

Song to (re)discover: Do you remember Ian Hunter?

“Ha smesso da un pezzo di cercare di essere i Nazz. E poi, chi diavolo vorrebbe essere i Nazz?”
(Lester Bangs - Deliri, desideri e distorsioni  p. 86)

Dimenticatevi Robert Plant, dimenticatevi Jagger o Lennon, dimenticate Bowie e i suoi costumi; dimenticate anche di Syd Barret o Daevid Allen. Perché la rockstar definitiva degli anni ’70 fu Ian Hunter. Proprio lui, il più anziano di tutta quella generazione, con una cascata di boccoli biondi, foulards variopinti e svolazzanti, eterni occhiali neri addosso. Questo Dylan metropolitano e logorroico, prestato al metal, che scriveva canzoni di incerto simbolismo raccontando addirittura più di quanto l’ascoltatore volesse realmente sentire. Tanto che a volte viene voglia di dirglielo “Ehi, ok! Ho capito, basta adesso, rilassati!”. Ma lui non si rilassava mai eppure fu tra i pochissimi attori del carrozzone sgangherato di metà ’70 ad avere la lucidità di capire che razza di vita fosse quella, e quanto di marcio ci si portava dietro ogni giorno.
Jagger, Gilmour, Waters, Page magari ci guadagnavano, Marc Bolan ci credeva, i Roxy Music erano troppo intellettualmente distanti per porsi problemi. Hunter ci guadagnò poco e smise di crederci dopo il 19° esaurimento nervoso. Lo mise anche per iscritto, una roba assurda per un rocker in tour: solitamente si era troppo occupati a sfasciare alberghi, fottere le fidanzate degli amici o infilare pesci un po’ ovunque.
Fu un frontman perennemente sull’orlo della crisi, tra schizofrenia e decadenza che nessuno cantò come lui.

Tanta tetraggine è esilarante, o stiamo ridacchiando per reazione nervosa alla paura? No, ridiamo nonostante la reazione nervosa alla paura
(Lester Bangs - Deliri, desideri e distorsioni  p. 86)

The Journey – Mott the Hoople
Da: Brain Capers (Island) – 1971






Boy – Ian Hunter
Da: Ian Hunter (CBS) - 1975








L’adorazione per Desolation Row e Sad Eyed Lady of the Lowlands produsse queste due immani canzoni in cui Hunter trapianta la versione dylaniana della ballata allegorica in un Upper East Side popolato da travestiti preraffaelliti pieni di lustrini ed eroina che si ritirano in buon ordine alla fine del carnevale. Tra suicidi, genocidi, angeli notturni, visioni bibliche, amori dispersi e show che devono continuare, The Journey, il tributo ad una vita in viaggio, e Boy, il collage dei mille protagonisti dell’epoca, mantengono inalterata la vena patetica e la grandeur del cantante, supportato da gruppi di tutto rispetto e da due chitarristi Ralphs (The Journey) e Ronson (Boy) che non si lasciano scappare l’occasione di impreziosire con ridondanti accordi hard le malinconie del vecchio Ian.


Forget Robert Plant, forget Jagger and Lennon, forget Bowie and his morals, forget even Syd Barret or Daevid Allen. Because the definitive rock star of the '70s was Ian Hunter. He, the oldest of all that generation, with a cascade of blond curls, fluttering colorful scarves, eternal blacks sunglasses. This metropolitan and loquacious Dylan, given to the Metal, which wrote songs of uncertain symbolism telling even more of what the listener really want to hear. So much so that sometimes you have  to tell him "Hey, OK! I get it Now calm down!". But he never calm down, yet he was one of the few in the mid-70's rickety bandwagon to have the clarity to understand what kind of life that was, and how rotten you are carrying on every day.
Jagger, Gilmour, Waters, Page maybe they earned, Marc Bolan he believes on it, Roxy Music were too intellectually distant to pose problems. Hunter earned a little and stopped believing after the 19 th nervous breakdown. He also put in writing, an absurd thing for a rocker on tour: usually they was too busy smashing hotel, fuck their friends girlfriends or put fishes everywhere.
It was a frontman on the verge of crisis, between schizophrenia and decadence that no one sang like him.

The worship of Desolation Row and Sad Eyed Lady of the Lowlands produced these two huge songs that Hunter transplanted the Dylan version of the allegory-ballad in an Upper East Side peopled by Pre-Raphaelite transvestites full of glitter and heroine who retire in good order at the carnival closing. Among suicides, genocides, night angels, biblical visions, love lost and the show that must go on, The Journey, a tribute to a life on the road, and Boy, the collage of a thousand characters of the time, they retain vein and the pathetic grandeur of the singer, supported by a group of highly respected musician and by two guitarists Ralphs (The Journey) and Ronson (Boy) that can not pass up the opportunity to embellish with redundant power chords the melancholy of the old Ian.

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