Distretto di Kagoshima 25-09-2034
Ho accettato, chissenefrega. Vediamo un po’ cosa succede.
Usiamo la parola “missione” anche quando dobbiamo trasportare la posta
da un campo all’altro. Forse c’è solo qualche pacco top-secret da consegnare a
qualche alto in grado, probabilmente roba che gli spedisce il ragazzino con cui
se la fa a Camp Jackson, o una riserva di Stenox per lui e gli amici. Cose
riservate.
Ora sto su un vecchio HMMWV ancora in tenuta da deserto e seguo il
muro costiero; da qui sotto è imponente. I Giappi hanno dato fondo a tutta la
loro leggendaria efficienza. Subito dopo l’Avvento, quando orami era chiara la
gravità della situazione, non ci furono dubbi nel dovere creare una prima linea
difensiva sulla costa del Mare Cinese Orientale; come una grande quarantena
planetaria e non sterile, che attraversa interamente le Isole Ryukyu, tutta Kyushu,
Tsushima, su fino alla Corea. Ma in realtà non sapevamo neanche se quelli avrebbero mai potuto oltrepassare
il mare. Sulla sponda ovest gli USA erano in rapporti pessimi con la Russia e con
tutti quegli stati centro-asiatici che finiscono in “stan”; Washington non sarebbe mai riuscita a gestire rapporti
militari importanti con i governi locali; si accontentava di qualche base
sperduta in altipiani di cui a nessuno fregava un cazzo. Così ha stretto questa
alleanza di ferro col Giappone, tanto per dimostrare alla gente che si stava
facendo qualcosa, che si affrontava il problema di petto e si sarebbe tentato
l’impossibile per vincere questa guerra. Pare che dietro le quinte, il 4° MISG,
l’Unità Avanzata di Guerra Psicologica, avesse giocato un ruolo ben più importante
rispetto ai suoi standard da finti pacifisti mascherati da strizzacervelli
perversi e sostanzialmente inutili. Dal canto suo l’Europa veniva da vent’anni
di recessione, smembramenti della comunità economica e tensioni altissime tra Germania
e paesi mediterranei. E’ già un miracolo che abbiano trovato le risorse per
imbastire una linea difensiva comune, sperando che quelle creature non riescano a superare gli inverni siberiani, se
mai dovessero spingersi tanto a ovest.
Ma qui in Giappone, hanno fatto le cose in grande. Le difese costiere
sono alte in media 28 metri per una lunghezza di oltre 200 chilometri; l’ultima
parte la stanno ancora costruendo. Hanno finito la materia prima, dopo avere
sventrato autostrade, demolito palazzi e intere fabbriche. Così hanno cominciato
ad accumulare rifiuti solidi: li pressano, li lavorano, e li usano come
materiale da costruzione. Ci risparmiano anche sullo smaltimento.
Ci dirigiamo verso Makurazaki dove ci imbarchiamo per Taipei, oggi il
territorio militare più strategico del globo. Con me c’è un certo John Garner,
ingegnere della 562° compagnia, 2° divisione; un” Indianhead”. Forse non ha
molta esperienza con il fucile ma penso che potrebbe spaccare a martellate un
computer e poi rimontarlo in neanche un’ora. Continua a lucidarsi un paio di
occhialetti rotondi e sottili. Mi sembra uno a posto.
“Tu sai qualcosa di questa…missione?”
“No. Non dicono niente. Sai lo fanno per darle più importanza. Così fa
tanto… Hollywood”
Ci facciamo una risata ma entrambi vorremmo sapere di più; per
calmarci ci convinciamo che ci sarà qualche convoglio da scortare sulla costa,
nella zona del Fujian, dove c’è una piccola testa di ponte gestita dei fanatici
del 3° Gruppo di Fort Bragg, Berretti Verdi in costante assetto da battaglia.
Male che vada un’incursione per sabotare una torre radar o cazzate del genere.
John è un esperto di telecomunicazioni e sistemi di reti; viene da Akron,
Ohio. Ha fatto per un po’ il DJ alla WONE 97.5, una radio di Classic Rock della
sua zona. Parla poco del perché sia entrato nell’esercito. Io non faccio troppe
domande. Non vorrei diventassimo troppo amici. C’è solo un lavoro da fare
insieme. Facciamolo e basta.
Ma ancora non riesco a capire perché hanno scelto me, quando ci sono
centinaia di rangers ultra addestrati e smaniosi di massacrare nemici. John è
un tecnico, è uno iperspecializzato. Se lui deve smontare qualche scatola nera
o analizzare qualche trasmissione via rete, allora c’è caso che io sia solo
carne da macello. Non ho specializzazioni, sono un soldato semplice del cazzo,
non un incursore o un Manhunter.
L’idea non mi piace e devo fare di tutto per scacciarla in fretta
prima che mi si annidi nel cervello e faccia una di quelle piccole ragnatele
bianche dove il ragno depone le uova.
Così adesso filiamo verso sud su questa Jeep blindata per
imbarcarci, accompagnati da un sergente
della MP, uno di quegli zombie muti che si esprime a gesti, ci chiede
cortesemente di non allontanarci dall’auto e di non fumare vicino ai
distributori nèp dentro il veicolo; è un’emanazione del comando di Kagoshima,
non ha volontà propria e forse il suo cervello è collegato con onde radio o con
qualche cavo invisibile al terminale nel CED di Camp Zama.
Io li odio. Così come gli infiltrati degli Affari Interni. Sono proiezioni
tentacolari e purulente di un cancro che percorre tutte le membra dell’esercito,
ne controllano i movimenti, ne tarpano gli slanci, ne condizionano il battito e
la respirazione, lasciando che degeneri in un ammasso fanatico di drogati a cui
sono ficcate a forza in bocca parole come Libertà,
Democrazia, Vittoria; una violenza orale che svende valori per mass media
compiacenti. Vittoria! Nessuno ha mai
vinto niente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Io li odio.
No escape from the mass mind rape Play it again
jack and then rewind the tape!
Costeggiamo il muro; ci fa ombra. Arrivati a Makurazaki siamo già in
zona check-point e la solita autocolonna serpentiforme di mezzi verdi e marroni
procede a passo d’uomo in attesa di ricevere il pass per il porto da cui
salpano navi e aliscafi diretti a Taipei. Sarà una cosa lunga, potrebbero
volerci quattro o cinque ore solo per salire a bordo, non parliamo della
traversata.
Così io e John ci sganciamo dal MP, andiamo a mangiare sushi e birra
sintetica “made in Japan” al Sunfish, una tavola calda con grandi piastrelle
rosse, assai anestetica, nel quartiere di Ebisucho; poi ci fumiamo qualche
sigaretta sugli scogli di Odaiba Park, che sono rimasti l’unico accesso libero
al mare.
Solo un paio di anni fa, Makurazaki era poco più di un villaggio di
pescatori dove si producevano quintali di katsuobushi,
una specie di fiocchetti di tonno essiccato e fermentato dall’odore orrendo e fortissimo
che ancora impesta quasi tutto il paese. Oggi, le nuove installazioni della
marina ne hanno fatto una cittadella costiera fortificata, arroccata attorno al
porto artificiale da cui partono le nave cargo per Okinawa e Taiwan; è come un
mastodontico casello autostradale galattico da cui si entra ufficialmente nel
teatro di Guerra Orientale. Una porta iperdimensionale che consente il
passaggio verso un mondo fatto di paradossi, guerre psichiche, segreti militari
e politici inviolabili. Il tramonto appena passato ha lasciato bagliori
sanguinolenti nell’acqua ma le grosse nubi grigie di ieri stanno marciando
verso l’entroterra e l’orizzonte è limpido, questa sera.
Tiriamo qualche sasso nelle onde
L’enorme corazzata BB-85 incrocia al largo, verso l’isola di Yakushima.
Parliamo di darci alla fuga, ipotizziamo una diserzione-lampo; fumiamo
un’altra sigaretta. John è un ragazzo a posto. Fa quasi buio quando torniamo alla
zona d’imbarco dove il sergentino della MP ci stava cercando, con gli occhi
sbarrati, già in preda al panico per averci parso. Non è raro che qualche
soldato a cui sono affidati incarichi che puzzano di prima linea se la dia a
gambe prima di arrivare al fronte. Ma perché scappare? In tutta questa enorme “Operazione
Primaria di Contenimento”, come la chiamano, neanche c’è un fronte; la maggior
parte di noi non conosce né i nemici, né i suoi superiori; siamo distanti tanto
dagli uni quanto dagli altri. Il puzzo orrendo di katsuobushi appesta veramente
l’aria.
La sirena arrogante dell’enorme traghetto che spalanca il portellone
un brivido lo mette sempre; entriamo come in una nera bocca di metallo, dietro
di noi un gruppo del 17° Fanteria che deve dare il cambio ai ragazzi del 2°
battaglione di stanza a Taipei. Ordinario turn-over. Non si regge per più di
tre mesi.
Il sergente ci marca strettissimo. Dormiamo all’aperto, sul ponte, in
mezzo a schizzi salmastri e agli zaini della 17°. Non ho più voglia di
scappare. Domani forse conosceremo questo nuovo incarico; sono impaziente di
sapere di morte dovrò morire.
So you wanna live now but it's only time to
die!
Una quiete oleosa si spande sul mare tutt’attorno, come l’enorme falla
di petrolio di qualche capodoglio arenato tra gli scogli. Pochi rumori. Poche
stelle.
Nessun commento:
Posta un commento