Strana cosa la felicità.
Diresti che i soldi non possono comprarla, che alla fine si trova
nelle piccole cose. Ma il mondo è sempre più banale e spietato di quanto ci
piaccia credere.
No satisfaction uguale no
happiness. E i soldi la soddisfazione te la comprano eccome. Che sia
reale, fittizia, chimica o in carne ed ossa.
Forse è vero che “Danny,
semplicemente, non era felice”. Altrimenti perché tutto quel valium,
quell’alcol. L’eroina. Era il 18 novembre del 1972. Lui aveva 29 anni e in
pochi sapevano realmente chi fosse quando qualche giornale riportò la notizia
tra le “brevi” nelle pagine interne.
Danny Whitten era un rocker. Quello con i capelli chiari, gli occhi
dolci, i folti baffi da cowboy della controcultura. Cresciuto a Columbus, in
Georgia, si ritrovò presto in quel di L.A. con qualche embrione musicale per le
mani… Con quei suoi amici freak, Billy Talbot e un oriundo portoricano, Ralph
Molina, formò un gruppetto di doo-wop: Danny And The Memories. Ma a metà anni
’60 quello non era certo nome dal grande appeal, in più tutta la gente più cool
era in viaggio su Maggioloni colorati verso San Francisco. Lì Danny e i suoi
amici ebbero vita facile nel riconvertirsi a band dalle ondeggianti movenze
psichedeliche. Imbarcati i fratelli Whitsel alle chitarre e il fiddle di Bobby
Notkoff, ecco i Rockets, una sestetto tremendamente affiatato, anche se dal
sound bastardo, schizofrenico, non sempre in linea con i comandamenti
dell’epoca. Eppure andavano forte, tanto che fu Barry Goldberg a produrli per
una piccola label indipendente, la White Whale Records.
Succede così che l’album omonimo di esordio diventa un piccolo classico,
seppur ignoto, di un genere “indie” veramente ante-litteram. Indipendente,
alternativo pure in quell’epoca. Sul gonfio basso di Talbot e il sicuro e
robusto mestiere di Molina, Danny compone, canta, schitarra senza freni,
accompagnato da violini folk e chitarre semiacustiche, con ritornelli
orecchiabili da cantare attorno al fuoco mentre i cavalli si riposano. Avrebbero
potuto essere una versione modernista degli Hot Tuna, ma anche una deriva folk
del power-pop per antonomasia, quello dei Big Star. E l’avrebbero fatto per
primi.
Quel mix di folk sferzante, psichedelia latente e nevrosi elettrica,
che trova la propria sublimazione in brani come Mr. Chips o Let Me Go o Pills Blues, ipnotizzò letteralmente un
irrequieto canadese appena uscito da esperienze controverse come Buffalo
Springfield e CSN. Neil Young fece di tutto per strappare Talbot, Molina e Whitten
ai Rockets; e tanto fece che il gruppo si sciolse, liberando quel fantastico
terzetto in tempo per seguire Neil nell’incisione di Everybody Knows This Is
Nowhere.
1969. Erano nati i Crazy Horse.
Anzi, era nato un “brand” destinato a segnare quarant’anni di leggenda
rockettara: Neil Young & The Crazy Horse.
Danny e Neil divennero amici; davvero. Mica roba da showbiz. Danny era
l’ombra musicale di Neil. Le loro chitarre, le loro voci, gli accordi, si
intrecciavano in jam torride, logorroiche, che proiettavano squarci di luce
nera in quelle subdole epopee di perdita e sconfitta. Everybody Knows This Is
Nowhere potrebbe essere un Beggars Banquet rimontato attraverso la visione di
un folksinger sgombro da misticismi in viaggio per i pianeti acidi dei
Quicksilver e le oltranziste maratone dei fratelli Allman. Eddie Vedder
ringrazia.
E cosa sia veramente Down By The
River, è difficile da dire. Un pezzo enorme, una “murder ballad”
crepuscolare, da autunno inoltrato. Una sepoltura cherokee tra le sponde del
fiume. Per non parlare della carica elettrica di Cinnamon Girl e di Cowgirl in
the Sand una Sad Eyed Lady of the
Lowlands all’epoca nelle nevrosi, delle sconfitte, dei rimpianti
dell’elettricità totale.
E chissà… forse già allora Danny
non era felice.
O magari le istanze più bieche e dogmatiche della “controcultura” lo
avevano convinto che la droga, lo sballo, il trip, fossero la risposta a tutto.
Non ci furono tante mezze misure. Fu subito un eroinomane
irrecuperabile. Tanto che tutti quanti i Crazy Horse furono messi all’angolo su
After the Gold Rush, ad appena un anno dall’album precedente.
Eppure, il Cavallo Pazzo, trovò ancora una volta il giusto colpo di
coda. Nel 1971 la Reprise pubblica il primo album tutto a nome di quello che
qualcuno credeva fosse “solo” il gruppo di spalla di Neil.
Semplicemente Crazy Horse.
Quel folk-blues tutto rock ed elettricità che è la “Grande Musica
Amerikana Bianca” per antonomasia. Quella che ti aspetti da The Band, dai
Little Feat, dai Creedence; mica da tanti altri. Un album fantastico, di cui
Danny è ancora il padrone assoluto, nonostante la benedetta presenza di gente
come Jack Nitzsche, il giovane prodigio Nils Lofgren e addirittura la slide di
Ry Cooder. Un LP che dimostra quanto il gruppo avrebbe potuto e saputo fare
anche senza la gigantesca figura di Young accanto.
Un altro unicum, dopo i Rockets…
Perchè poi… “basta”, vero Danny? Tutta quella sorridente malinconia di
brani come I Don't Want to Talk About It
o Look at All the Things allora, non
era casuale, vero? Era proprio così, allora? Ma magari, anche di quello non ne volevi parlare, eh?
Quanto cazzo è difficile la vita? Mica come suonare una chitarra, dove
ogni corda ha la sua nota, ogni tasto il suo accordo e tanti saluti. E’ pura.
Perfetta. E’ semplice.
La vita, invece, fa schifo. Life
is a bitch, lo diceva anche Luther Allison.
Una carriera “lunga” appena 4 anni, passata per metà a flirtare con
tutto quello che alla fine inevitabilmente ti uccide: fumo, alcol, eroina, sonniferi,
fantasmi. Depressione; solitudine. Infelicità.
La sua morte gettò Young in una spirale tremenda di nero rimorso e
malinconia. Aveva inciso The Needle and
the Damage Done pensando alla situazione di un amico alla deriva. Poi fu quasi
incapace di pubblicare nuova musica. Il funereo Tonight's the Night vide la
luce solo nel 1975 a due anni dall’incisione. Da allora Young non sarebbe più
stato lo stesso. Né la sua musica.
“Danny just wasn't happy”,
come ricordava anni dopo proprio Neil al suo biografo Jimmy McDonough.
Intanto Danny riposava sotto terra. Quasi ignoto al mondo.
Solo questo è stato Danny Whitten.
Mica un eroe di culto o una figura idolatrata a posteriori, come è
accaduto a tanti.
Un cowboy disteso nella sabbia, con i capelli sugli occhi e una
perenne mezza sigaretta in bocca.
***
In giro per la rete si trovano decine di discografie completissime. Inutile
riportarle anche qui.
Di seguito una sintesi un po’ ragionata dei luoghi dove potete trovare,
ancora oggi, Danny Whitten
The Rockets - The Rockets (LP) White Whale
label, 1968
In pieno boom acido, un piccolo album che già prelude a tutti gli
orizzonti propri del Cavallo Pazzo. Violini, intromissioni country, schitarrate
coi soliti effetti acidi appiccicati sopra, ma una gran senso di divertimento e
un ottima dose di pop robusto.
Everybody Knows This Is Nowhere - Neil Young
and Crazy Horse (LP) Reprise, 1969
Da qui parte un viaggio sonoro che negli anni sarebbe diventata una
delle più dirompenti macchine da artiglieria rock di sempre. Un album forse
ancora sottovalutato, anche nella megalitica discografia di Neil Young.
Crazy Horse - Crazy Horse (LP) Reprise, 1971
Ragazzi, benvenuti in Amerika!
Quella delle pianure e dei bisonti; quella della frontiera, dei treni
che vanno sempre da qualche parte, non importa dove. L’America di indiani e cowboy,
dei Sentieri Selvaggi e delle Ombre Rosse. Rock distillato dalle memorie e dai
suoni di una terra selvaggia. E con un pugno di brani destinati a diventare
classici, primo fra tutti la languida I
Don't Want to Talk About It di Whitten.
Live at the Fillmore East Neil Young &
Crazy Horse – (LP) Reprise, 2006 (registrato nel 1970)
Sei brani in tutto, tra cui la Come
on Baby Let's Go Downtown di Whitten, direttamente dal periodo di massimo
splendore dei primi Crazy Horse, di supporto a Neil nel tour promozionale di
Everybody Knows. L’unico documento live di Whitten, con una Down by the River di dodici minuti ed
una delirante Cowgirl in the Sand di
oltre un quarto d’ora.
I hit the city and
I lost my band
I watched the needle
take another man
Gone, gone, the damage done.
7 commenti:
il riposo ti ha fatto bene.da manuale.
Down by the river, Cowgirl in the Sand..che musica! I Crazy Horse sono l'anima crepuscolare, usando il tuo termine, di Neil Young.Un pezzo di quell'anima Danny non gliel'ha più restituita.
Recentemente ho postato Sleep With The Angel di Neil con i Crazy Horse.Change Your Mind, lungo e ipnotizzante mi ricorda i migliori momenti di questo sodalizio..
The king is gone but he's not forgotten.
Gran bell'articolo, Scimmia. E' stato un piacere leggerlo avendo in sottofondo "I Don't Want To Talk About It" (nella versione originale, mica quella di Rod ).
Un abbraccio.
Thankss guys!!
davvero strepitoso..complimenti..un incipit avvincente..
bentornato...
Senza parole. Splendido.
...di nuovo...thanksss!!
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