giovedì 24 gennaio 2013

7 volte Led Zeppelin 4



Si è chiusa con “il conformista” la mezza maratona degli Esercizi di Stile ed è necessario tirare le somme. In questo post riunisco tutte e sette le recensioni, in fila, una accanto all’altra per poterle meglio confrontare, considerarne le differenze e le affinità.
Ad esse aggiungo solo una piccola introduzione per contestualizzare un po’ il lavoro, introdurlo per coloro che non lo hanno seguito, fissare le regole, chiarire una volta per tutte la natura “fasulla” delle recensioni e dare qualche spunto di riflessione in più sul metodo e sullo scopo di questo “gioco”.
Inevitabilmente ne è risultato un post piuttosto lungo che dal link qui sotto è possibile scaricare in formato PDF. Potete trovare questi testi anche nella sezione Musiche Parallele, dove sono raccolti  tutti i “super post” pubblicati nel tempo su questo blog.



Un ultima considerazione, a posteriori, che era ampiamente prevista: si fanno molte più visite con finte recensioni dei Led Zeppelin che con vere recensioni di Granicus o Poobah.

Un piccolo ringraziamento a tutti coloro che hanno seguito il progetto, commentato e offerto riflessioni sempre interessanti.


7 volte Led Zeppelin 4

Un gioco di variazioni linguistiche per recensire un album, Led Zeppelin IV, in sette modi alternativi, come se fossero scritti da altrettanti “personaggi” con caratteri, punti di vista e linguaggi diversi. 
Ogni pezzo è caratterizzato da un lessico, una sintassi e una fraseologia specifici, assai differenti gli uni dagli altri, ciò non di meno coerenti con la consegna di recensire un famoso album di musica rock come Zoso, fornendo giudizi, informazioni sugli autori, l’epoca e le canzoni, almeno quelle più celebri.


Le regole del gioco

1- L’album da recensire è uno e uno solo.
2- Le recensioni, almeno dal punto di vista generale, devono essere favorevoli. Questa è una regola restrittiva ma necessaria per non ridurre il tutto a due schieramenti contrapposti: bello – brutto. Pur nelle loro diversità, pur nel loro personalissimo punto di vista, i sette recensori danno un giudizio di fondo positivo dell’album, ognuno di loro soffermandosi sui punti forza più coincidenti con la propria personalità.
3- Le recensioni devono essere verosimili e spendibili, se non per la stampa specializzata, almeno per una qualsiasi webzine. Quindi niente giochi linguistici, nessuna caricatura esagerata e tantomeno parodie di genere. I sette recensori scrivono testi buoni, sbilanciati secondo i differenti caratteri ma mai banalmente iper-caratterizzati. Altra regole restrittiva, che obbliga ad un certo lavoro di lima.
4- Le recensioni devono avere una lunghezza di una cartella circa, per uniformare ulteriormente i prodotti finali
5- Non si dicono bugie. Si possono riportare opinioni, pareri, impressioni ma non si possono scrivere volontariamente inesattezze evidenti nelle date, nei nomi, nei titoli.

Lo scopo del gioco

Non ci sono vincitori né vinti, non ci sono premi né classifiche. Il gioco si propone di indagare l’elasticità e le potenzialità che possiede la lingua anche quando si confronta con generi altamente stereotipati come la “recensione musicale”.

L’album 


Alcune notizie formali sul disco oggetto delle recensioni.

Artista: Led Zeppelin
Album: Untitled, IV, Zoso
Pubblicazione: 8 novembre 1971
Durata: 42 min, 39 s
Tracce: 8

LATO A
Black Dog - 4:57 - (Page, Plant, Jones)
Rock and Roll - 3:40 - (Page, Plant, Jones, Bonham)
The Battle of Evermore  - 5:52 - (Page, Plant)
Stairway to Heaven - 8:03 - (Page, Plant)

LATO B
Misty Mountain Hop - 4:38 - (Page, Plant, Jones)
Four Sticks - 4:45 - (Page, Plant)
Going to California - 3:31 - (Page, Plant)
When the Levee Breaks - 7:08 - (Page, Plant, Jones, Bonham, Minnie)

Etichetta: Atlantic Records
Produttore: Jimmy Page

I personaggi

Da un punto di vista psicologico e culturale, i sette personaggi si posso considerare come divisi in due gruppi: caratteri forti (gonzo, pedante e bastian contrario) e caratteri deboli (narratore, analitico e fanatico) con il conformista a fare da raccordo e sintesi tra i due schieramenti. Graficamente stanno un po’ come la carta del sette di denari nel mazzo piacentino: bella, simmetrica, ma “pitagoricamente” aperta, in cui due fazioni si fronteggiano a coppie e un elemento sta a metà tra i due gruppi.
I caratteri deboli sono succubi del disco e tendenzialmente privi di spirito critico, originalità se non addirittura di autostima, e cercano di mascherarlo ognuno a suo modo.


Il fanatico non si pone domande e vive di passione incondizionata e acritica che gli impedisce un’analisi accurata e obiettiva. Vive la musica come l’ultrà vive lo sport dalla curva dello stadio. E se alla fine si perde,  è colpa dell’arbitro.
Il narratore si nasconde continuamente dietro l’uso reiterato della prima persona, come a volere dichiarare in anticipo che ciò che scrive è solo ciò che lui pensa, senza quindi fornire alcuna garanzia di obiettività, anche solamente abbozzata. Sempre raggomitolato nel proprio personalissimo giudizio di gusto, si mette al riparo dalle critiche perché, tanto, de gustibus…
L’analitico abbonda di precisazioni oggettive (nomi, date, titoli…) senza però mai esprimere opinioni personali, se non stereotipate e di facciata. Il suo intento è puramente informativo, mai critico.
Al contrario i caratteri forti cercano di dominare l’album, di farne una personale materia d’indagine, spesso eccedendo in supponenza, volgarità e pignoleria.
Il gonzo parla in prima persona come colui che per anni ha vissuto di musica e quindi sa quello che dice, anche se ai più può sembrare quantomeno bizzarro. La garanzia sul suo giudizio è lui stesso, la sua esperienza, il suo vissuto.
Il pedante da sfoggio di cultura e memoria, salvo poi perdersi del tutto in esse, dimenticando che lo scopo di una recensione è presentare un prodotto, non dimostrare enciclopedica conoscenza.
Il bastian contrario, rigettando costantemente l’opinione comune, vive in un “mondo parallelo” di democrazia all’opposto in cui sono le minoranze e i vinti a scrivere la storia. Mirabile, ma spesso forzato.
Questi sei personaggi, presi a due a due, possono essere considerati due facce della stessa medaglia. Così da una parte sta l’analitico, con le sue puntuali precisazioni, dall’altra il pedante, con le sue fumose digressioni: entrambi parlano del superfluo.
Da un parte il narratore, nascosto dietro la prima persona, dall’altra il gonzo, che da sfoggio della prima persona: entrambi sono personaggi nel testo.
Da un lato sta il fanatico, che replica ed amplifica il pensiero comune più acritico e succube del mercato; dall’altro il bastian contrario che sta costantemente fuori dal coro. Entrambi sono dei succubi della democrazia.
E il conformista? E’ un carattere liquido, che si adatta alle situazioni e si piega facilmente al soffiare del vento; però lo fa con cautela, perizia e buona scrittura. Qual è il suo intento ultimo? E’ rifugiarsi costantemente nell’oggettività, o meglio in ciò che egli scambia per oggettività e che è invece il pensiero più condiviso, che può essere quello della maggioranza o quello degli esponenti più riveriti di una comunità (per Hume era il “consenso degli esperti”). In questo modo crea l’illusione dell’inattaccabilità, dell’esattezza e dell’obiettività, ma in realtà si schiera solamente dalla parte più numerosa o da quella con la voce più forte. Non fa che perpetuare una convenzione, cioè che la verità sta dalla parte dei più forti, cosa che nell’Arte, in cui il parlare di verità ha spesso poco senso, è di fatto un discorso vuoto.



In dettaglio…


Il Fanatico

Il fanatico non scrive una recensione, compone l’esegesi di un testo sacro, l’agiografia di eroi leggendari. Grammaticalmente sfrutta tutte le possibilità del superlativo relativo ed assoluto ed abbonda in iperboli tali da andare anche oltre la sfera musicale di competenza. L’analisi delle tracce è completa ma non troppo approfondita: non si sa mai che scavando troppo si trovi qualche difetto… La stessa cosa accade per i riferimenti a band analoghe: sono ammessi paragoni solo con altri Immortali. Piuttosto comune la “professione di umiltà” come introduzione.

L’analitico

L’analitico è un pignolo al primo stadio. Utilizza come massima espressione grammaticale l’inciso e la frase incidentale, definendoli tramite virgole, parentesi ma anche trattini, come fosse un discorso diretto finito per caso nel testo. La sua attenzione sarà massima verso i particolari e assai minore rispetto al contesto e al quadro d’insieme. Innamorato di nomi e date, non mancherà di informarci all’inverosimile sul superfluo, faticando a trasmettere calore e passione. Il suo è un intento puramente informativo.

Il narratore

Questo personaggio vi accompagnerà lui stesso nella recensione in quanto, oltre che autore, ne è anche narratore interno. Da qui il largo utilizzo della prima persona e di frasi ricche di pronomi e aggettivi possessivi a formare espressioni del tipo: “a mio parere”, “mi fa venir in mente”, “per me”… E’ comune il tentativo di dare un taglio più narrativo al testo, fatto ben evidente nell’utilizzo di introduzione e conclusione collegate e a tema autobiografico. Spesso il testo degenera in uno scolastico “simil-tema-del-liceo” a sfondo musicale.

Il gonzo

Nella migliore delle ipotesi è una narratore con cognizione di causa; nella peggiore, la più comune, è solo un fanatico che usa la prima persona del verbo. Adopera frequentemente inglesismi bizzarri (e italianismi, perché no?) e frasi fatte da critico; è un cultore di beat generation, Lester Bangs e Charles Bukowski; non rinuncia a parole o espressioni volgari e tratta spesso del proprio vissuto piuttosto che dell’album in questione; risulta sempre scettico, cinico e disincantato riguardo al carrozzone della musica rock, di cui per altro fa immancabilmente parte.

Il bastian contrario

Il bastian contrario è in disaccordo per principio; non è un critico, non è un analista o un libero pensatore. E’ uno statista: identifica la maggioranza e si schiera al suo opposto. E’ prigioniero, in modo contrario, delle convinzioni altrui. 
La logica sarebbe stata fare di questo pezzo una recensione negativa, ma ciò contravveniva alle regole del gioco e si è dovuto ripiegare su un profilo un po’ differente. Il bastian contrario è in accordo sul piano generale (Led Zeppeli IV gli piace!) ma è in perenne disaccordo nello specifico. 
Non lo nego, è stata una sfida!

Il pedante

Costui fa della digressione la sua arma segreta: meno preciso dell’analitico, più verboso dell’esaltato, il pedante ha grossi problemi nello stare entro i limiti di lunghezza. Abbonda di punteggiatura e perifrasi, evita le ripetizioni solo con estenuanti giri di parole. Il suo periodare è a volte involuto e sovente ipotattico. e proprio attraverso la sintassi passa la sua caratterizzazione. Spesso sull’orlo della supponenza, non riesce mai a cogliere nel suo testo il senso unitario di un album. Pur non andando fuori tema, la sua recensione, ad una lettura attenta, parlerà di tutto fuorchè dell’album in questione.

Il conformista

Un tipo subdolo; ottimo padronanza della lingua, testi equilibrati, lessico vario. Lo si riconosce, a volte, solo ad una seconda e più approfondita lettura. Raramente prende posizioni definitive, smorza ogni superlativo, è un virtuoso della compensazione e dell’equo bilanciamento. Politicante della musica, “veltroniano” della sintassi, predilige costruzioni correlative del tipo “non solo… ma anche”, “sia… sia”, “né… né”. Sfrutta forme avverbiali e dubitative che passano spesso inosservate come “forse”, “probabilmente”, “magari”, “quasi certamente”… Si fingerà in disaccordo sulle piccolezze ma è solo una strategia per sviarvi: sul piano generale, laddove le cose contano, sta sempre con la maggioranza o con il pensiero degli opinion leaders dominanti. Facile ai populismi, il suo fine è l’illusione dell’oggettività.


In conclusione…

Chiunque ha avuto a che fare, attivamente o solo passivamente, con la scrittura ad argomento musicale, si è dovuto confrontare, magari in modo indiretto, con stereotipi di questo tipo, che qui sono sette ma potrebbero benissimo essere il doppio… Stereotipi che si generano spesso a partire dalla lingua, dal lessico e dalla sintassi, per poi espandersi alle opinioni, ai giudizi fino alla critica vera e propria. Stereotipi utili per costruirsi categorie che facilitino la comprensione della sfuggente materia artistica ed estetica, utili per creare classificazioni che agevolano la formulazione di un giudizio. Ma che vanno sempre riconosciuti come tali: contenitori chiusi, poco malleabili e tendenzialmente assai pratici quanto però convenzionali. Occorre usarli, ma non lasciarsi usare da essi.
In molti si potranno riconoscere in qualcuno di questi caratteri, probabilmente in più di uno, magari in un intero schieramento. E’ la normalità.
Sfruttarli, analizzarli, sviscerarli è un buon modo per imparare a gestirli, impiegarli nel migliore dei modi e magari esorcizzarli. Imparare a spenderli con parsimonia e consapevolezza, per non abdicare mai il proprio gusto alle categorie altrui.


***


Il Fanatico 


Non so se sia possibile trovare le parole giuste per descrivere un capolavoro come questo; spero di essere in grado di farlo, ma l’importanza e la celebrità di questo disco fanno veramente venire i sudori freddi a chiunque provi a recensirlo.
Led Zeppelin IV è il quarto leggendario album di una band a sua volta leggendaria: i Led Zeppelin. Dopo avere gettato le basi per tutto l’Hard Rock e buona parte del Metal (merito condiviso con altri giganti di quel tempo: Black Sabbath e Deep Purple) la band del geniale chitarrista Jimmy Page si concentra per la realizzazione dell’album perfetto. E ci riesce, a partire dalla mitica copertina che ormai ha fatto storia. Dall’inizio alla fine, dall’intro di Black Dog alla dissolvenza di When The Levee Breaks, quest’album mantiene un livello musicale altissimo e costante, senza nessun cedimento, nessuna indecisione e picchi di vertiginosa bravura e virtuosismo. 
Black Dog è un opener coi fiocchi: giro di basso tiratissimo e vocals estroverse e potenti, in quel puro stile hard che ti sbatte nelle tempie. Segue Rock’n Roll, una traccia il cui solo nome già dice tutto: un concentrato di rock purissimo che parte da Good Golly Miss Molly e attraversa vent’anni musica scatenata, rivista sotto l’aura di ultrapotenza del combo di Page & Plant. Con la terza canzone, The Battle of Evermore, entriamo in un regno di magia e suggestione affascinante, misterioso, sia per la delicatezza degli strumenti acustici sia per la presenza, come seconda bellissima voce, di Sandy Denny, che duetta con Plant su un testo che cita Angeli di Avalon e Regine della Luce: un mondo pagano e antico collegato al sorprendente utilizzo di quattro antiche ed indecifrabili rune che sostituiscono i nomi dei componenti della band. Un incredibile voltafaccia al marketing.
Ma ecco che arriva il pezzo che più di ogni altro rappresenta un modo di fare rock ormai scomparso: un modo epico, che affianca ad un virtuosismo fantastico l’ispirazione e la gioia stessa della musica. Quel pezzo è Stairway to Heaven, massimo testamento artistico del dirigibile e ballata dall’aura mistica che fa letteralmente sognare ad occhi aperti, fissandosi in modo indelebile nelle memoria. Page inizia con un arpeggio sul manico della dodici corde, Jones lo segue con le sue tastiere flautate. Quando, a metà del brano, si aggiunge la possente ed inimitabile batteria di John Bonham (R.I.P), ecco che la canzone decolla verso vette inconcepibili per noi umani. Il lungo assolo di Page è uno dei tre o quattro più famosi pezzi per chitarra di sempre assieme a quelli di Hotel California e Bohemian Rhapsody dei Queen. Alla fine di questa strepitosa canzone non ci sarebbe altro da aggiungere, ma i quattro fenomeni non hanno ancora finito il loro trattato sulla perfezione in ambito Rock. Ed ecco che le tastiere introducono Misty Mountain Hop, una canzone assai ascoltabile e ritmata. Poi viene il curioso esperimento di Four Sticks in cui Bonzo suona addirittura con quattro bacchette! La penultima song, Going to California, è una canzone acustica che apparentemente rinuncia al furore hard, sulla falsariga di certi pezzi dell’album precedente: una dolce ballata che ci dimostra come questo gruppo fosse composto da artisti veramente completi e difficilmente etichettabili in maniera univoca.
Chiude l’album When The Levee Breaks, con la più imponente batteria mai incisa su disco che apre un lungo brano che ci chiarisce le profonde e più autentiche radici blues del quartetto.
Per concludere, chiunque ascolti questo album sa di trovarsi di fronte ad un’opera immortale, un disco epocale, un inossidabile masterpiece di tutta la musica, come adesso non se ne fanno più; composto da musicisti completi che hanno saputo trovare la via alla perfezione della musica rock lassù, su una scala verso il paradiso.



L’analitico 


Led Zeppelin IV, o Zoso (cioè la trascrizione della runa che identifica Jimmy Page in copertina), è il quarto album del celebre gruppo inglese. Pubblicato nel novembre 1971 senza che sulla busta comparissero i nomi dei musicisti, per volere del gruppo stesso, è per questo spesso identificato anche come “Untitled”. Può essere considerato il coronamento del primo periodo della band, fondamentale e seminale, cominciato con Led Zeppelin I (pubblicato nel 1969) e proseguito negli altri due dischi successivi (II e III).
Musicalmente gli Zeppelin spaziano dall’hard rock alla ballata acustica, fino al blues, dimostrandosi ben capaci di affrontare con scioltezza e padronanza perfetta stili anche così diversi tra loro. 
La prima traccia, “Black Dog”, derivata da un giro di basso scritto da John Paul Jones, apre le danze con una struttura “stop & go” che ricorda “Oh Well!” dei Fleetwood Mac (su Then Play On, 1969). 
La seconda traccia, “Rock and Roll”, comincia con una citazione di una vecchia canzone di Little Richard del 1958, “Good Golly Miss Molly”, e prosegue come un omaggio scanzonato al vecchio rock n’ roll di fine anni ’50, quello di Chuck Berry, Elvis Presley e Jerry Lee Lewis. Un pezzo veramente scatenante. 
Nella terza traccia, il cui titolo è “The Battle of Evermore”, compare, come seconda voce, Sandy Denny, la cantante di un gruppo folk, i Fairport Convention, piuttosto famosi all’epoca e freschi dei successi di Liege & Lief (1969) e Full House (1970). E’ una delicata ballata di quasi 6 minuti in stile medioevale in cui Robert Plant cita riferimenti alla vecchia tradizione pagana inglese. E’ un pezzo molto affascinante, mistico e in grado di trasmettere un’aura misteriosa all’ascoltatore anche grazie al mandolino suonato da Jones. Jimmy Page non aveva in effetti mai fatto mistero di avere un grande interesse per la figura di Aleister Crowley, un occultista vissuto in Inghilterra tra il XIX e il XX secolo: anche a lui si ispira la copertina interna, con la figura dell’Eremita (carta n° 9 dei Tarocchi). 
Questi tre brani forniscono una sorta di introduzione al capolavoro del disco e probabilmente di tutto il Rock dell’epoca e non solo: “Stairway to Heaven”. È questa la canzone più trasmessa in assoluto dalle radio statunitensi che la mandavano spesso in onda in contemporanea con il funerale di qualche giovane fan della band; già da questo possiamo capire l’importanza e la considerazione, del tutto meritate, che ha assunto nel tempo. Inizia con un arpeggio leggero di Page sulla chitarra a dodici corde, mentre le tastiere di Jones, che imitano il suono di un flauto, la accompagnano con una melodia di grande mestizia. Poi arriva la voce di Plant ad introdurre il tema della “scala dorata”, un testo che il cantante sosteneva di avere scritto come in trance; a metà del brano si aggiunge anche la batteria di John Bonham, che conduce al famosissimo assolo alla sei corde di Page, un momento di altissima tecnica strumentale.
Il brano seguente, “Misty Mountain Hop”, presenta un interessante riffing “multi-layer” per piano elettrico doppiato dalla Les Paul. 
Intrigante anche “Four Sticks”, che Bonham interpreta con quattro bacchette (due per mano) per tenere un tempo dispari in 5/8. 
Nei 3 minuti e mezzo di “Going to California”, il gruppo ritorna esattamente al sound del terzo album, (“That's the Way” in particolare) con un soffice brano acustico che rappresenta un omaggio di Robert Plant all’amata California e in particolare alla cantante Joni Mitchell. 
“When the Levee Breaks”, ultimo brano, è la cover di un vecchio blues composto da Memphis Minnie nel 1929: l’introduzione di batteria è monumentale tanto da essere in seguito stata campionata da numerosi gruppi hip-hop tra cui i Beastie Boys di “Rhymin' & Stealin” (da Licensed to III, 1986); la canzone è un torrido blues in 12 battute con chitarre ruggenti ed armonica incisa in modalità “backwords”, al contrario, con un bell’effetto straniante.
L’album venderà qualcosa come 23 milioni di copie (23 dischi di platino) facendo delle sue canzoni, e di “Stairway to Heaven” in particolare, manifesti intramontabili del rock classico degli anni ’70.
Voto: 9,50/10



Il narratore 


Mi accingo a scrivere questo pezzo mentre il CD ancora gira nello stereo. E’ passato ormai parecchio tempo da quando ho acquistato Led Zeppelin IV per la prima volta, ma ne è passato poco dall’ultimo ascolto. Questo è uno di quegli album che riesce sempre a trasmettermi qualcosa di profondo, che ogni volta mi regala emozioni nuove e differenti dalle precedenti. Voglio mettere subito in chiaro le cose dicendo che, a mio parere, questo è uno degli LP che si merita il titolo di capolavoro. E mentre il mio stereo è a tutto volume, incurante delle orecchie di chi sta al piano di sotto, voglio anche tagliarla corta coi preamboli.
Immergiamoci allora insieme nell’ascolto del mitico Zoso!
E che inizio! Non c’è il tempo di rilassarsi un attimo che siamo subito inseguiti dal cane nero di Black Dog, un classico hard rock come gli Zeppelin ci hanno abituato nei precedenti lavori.
Rock n’ Roll, non c’è niente da fare, mi fa sempre scatenare: una canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry rivisitata dalla potenza del quartetto inglese. Con una accoppiata di tracce del genere la strada sembra segnata. Ma ecco uno di quei cambi di umore che segnalavo all’inizio: Battle of Evermore è una ballata lenta, in cui ogni volta ci sento dentro qualcosa di nuovo. La prima volta che l’ascoltai, devo ammetterlo, rimasi delusa; ma col tempo, ho cominciato ad apprezzarla di più: sarà per gli intrecci acustici di chitarra e mandolino o per la bella voce della cantante Sandy Denny che duetta con Plant? Un brano, a mio parere, ancora da scoprire a pieno nel catalogo degli Zeppelin.
Ma ecco che ci siamo; alzo appena il volume, spengo la luce. E’ il momento di Stairway to Heaven. Una canzone per cui proprio non ce la faccio ad essere oggettiva; perché? Forse perché non è una canzone ma è la canzone; quella che mi ha fatto scoprire il Rock, quello con la “r” maiuscola, quello degli anni ’70, quello che mi ha accompagnato nei momenti più esaltanti e mi ha sorretto in quelli più deprimenti. Non ho tante parole per descrivere questo brano: ascoltatelo voi, in silenzio, magari in penombra; ascoltate l’assolo di Page. 
Il tempo sembra fermarsi per un momento… ma il CD gira e l’album è incalzante. Misty Mountain Hop è una canzone che ho sempre ritenuto sottovalutata, forse sarà il fatto che segue un mostro come Stairway o che magari manca un po’ di “personalità”; io la trovo accattivante, robusta nel riff ma affascinante nelle liriche un po’ lisergiche e surreali. Ma a proposito di fascino vorrei spostare per un attimo il discorso sulla copertina di quest’album, misteriosa ma piena di significati, in cui il gruppo ha voluto rappresentare, nel contrasto tra il vecchio e la città, il contrasto planetario tra “natura” e “umanità”. 
Fra tutti i brani dell’album, Four Sticks è sempre quello che mi ha preso di meno: riconosco la bravura di Bonzo a destreggiarsi in una ritmica così complessa, ma la melodia non mi ha mai convinto più di tanto. Poco male perché il brano seguente, Going to California, con la sua dolcezza acustica è sempre stato uno dei miei preferiti nel catalogo “Zeppelin Unplugged”. Una canzone che a tratti ricorda i brani migliori di Led Zeppelin III e che è un’ode del gruppo all’amata west-coast.
Un paio di secondi si silenzio, ed ecco che una batteria veramente statuaria ha riempito la mia stanza: è When the Levee Breaks, ultimo pezzo, un ritorno all’amato blues dell’album d’esordio. Un brano che mi richiama alla mente certi passaggi di How Many More Time o addirittura di Dazed and Confused, altro capolavoro che ho amato alla follia.

Non resta molto da dire; anche il mio stereo si è spento, dopo l’ultimo giro vorticoso di un CD da considerarsi immortale. Ancora un ascolto, e mi sento pieno di qualcosa di nuovo. Credo che ogni disco si possa amare od odiare, credo che ognuno di noi abbia un capolavoro che qualcun altro detesta. Forse questo è l’album che ci può veramente mettere d’accordo tutti; almeno su cosa sia il Rock, quello vero.
Alla prossima!



Il pedante 


Non si può certo dire che nel 1971 la ribalta della scena rock mondiale non fosse ricolma di grandi nomi e grandi dischi: Sticky Finger degli Stones, L.A. Woman dei Doors, Fragile degli Yes, Who's Next e tanti altri. Fu in questo notevole momento di creatività diffusa che i Led Zeppelin, i quali già da qualche anno avevano scosso la scena musicale prima con l’esordio hard blues di “I” e soprattutto con la vera e propria invenzione di un nuovo sound, l’hard rock, con il cosiddetto Bombardiere Marrone, arrivano con la loro quarta uscita a raggiungere quella perfezione formale che stabilirà un nuovo canone per tutto il classic rock e l’AOR dell’immediato futuro. Cosa sarebbero Aerosmith, Bad Company, Foreginer, ma forse anche Styx e Kansas senza gli Zeppelin e soprattutto senza questo album?
Un album che già dalla copertina detta le regole: in questo caso la regola di rinunciare in toto al marchio; rinunciare all’immagine, quel logo che per tanti gruppi è sinonimo di commerciabilità e vendibilità, che magari i progressivi più sofisticati si facevano disegnare da qualche illustratore famoso (magari Roger Dean?), perfino quel nome, quello stesso che stava stampato sui primi tre album degli Zeppelin, è quello stesso nome che scompare da IV, che per questo, non senza ragione, viene spesso identificato con l’appellativo di “Untitled”. Come se la Apple rinunciasse alla “mela” o Google al proprio nome colorato. Eppure in quel periodo, pur così denso di dischi che sarebbero presto diventati classici, questo album fu immediatamente riconoscibile poiché portatore di un messaggio che non poteva essere facilmente travisato.
Quel messaggio, che oggi è giustamente riverito come uno dei massimi testamenti musicali dell’epoca, ma non solo, è Stairway to Heaven. Il brano che inizia con un dolce arpeggio di Page alla dodici corde, presto accompagnato dalle tastiere da favola di Jones, prosegue come una “power ballad” da manuale che sfocia finalmente in uno degli assoli più celebri della storia del Rock. E qui è necessario aprire una parentesi per considerare quanto questi pochi minuti strumentali abbiano colpito i giovani americani infatuati di rock nei primi anni ’70, quelli che magari già strimpellavano qualche strumento al college e che dal giorno in cui ascoltarono questo pezzo ebbero chiara la strada da percorrere. Pensiamo a Montrose, Blue Oyster Cult, Boston, di nuovo ad Aerosmith, Bad Company, Foreginer: anche qui forse c’è la ragione della loro esistenza.
E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di certo la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca.
Chissà se Chuck Berry, nello strimpellare Johnny Be Good o Roll Over Beethoven, aveva immaginato che quel suo nuovo sound un giorno avrebbe partorito brani come Rock n’ Roll, che da sola riassume tutto quanto un genere, o come Black Dog con le sue sfuriate rumorose degne del metal.
Ma gli Zeppelin non sono solo chitarre elettriche spianate o batterie rombanti come in When the Levee Breaks; anzi forse parte del cuore di questo “IV” sta ancora nello sperduto e romantico cottage di Bron-Yr-Aur dove Page e Plant, appena un anno prima, in compagnia di qualche “roadie” e poco più, misero a fuoco un approccio musicalmente differente, fatto di ascolti acustici e antiche suggestioni britanniche. E furono in effetti abili a sapere come mantenere con naturalezza il gruppo su due binari, perché è certo innegabile, ci mancherebbe, che i Led Zeppelin abbiano coniato il primo vero suono duro della scena rock (certo, non da soli, ma insieme a ad illustri colleghi come Cream, Hendrix, Sabbath, Jeff Beck…), ma hanno anche contribuito alla ricchezza di quel folk britannico che tra gli anni ’60 e ‘70 ha dato prova di grande creatività e freschezza, con gruppi come Pentangle, Incredible String Band, Fairport Convention, guarda un po’ la band dell’illustre ospite Sandy Danny che canta in The Battle of Evermore; e perché no, allora anche Led Zeppelin, quelli di Going to California e soprattutto del pezzo succitato, con i suoi duelli acustici di chitarre e mandolini che almeno risparmiavano a Bonzo l’ennesimo tour de force. Certo, niente paura, perchè poi ci sono anche canzoni come Misty Mountain Hop o Four Sticks, ma soprattutto brani come l’ultimo del disco, quella When the Levee Breaks, in realtà un vecchio blues del Delta, ormai celebre per la figura di batteria più imitata in campo hard, che riallaccia il filo non più con la tradizione folk di altri brani, o di interi album come III, bensì con un’eredità di blues elettrico, Waters, Willie Dixon, Wolf, che è poi quella originale da cui gli Zeppelin avevano pescato a piene mani per i primi due album.
Quindi, in conclusione, quello che qui abbiamo per le mani è un album di sintesi assai riuscito: sintesi tra due, o forse anche tre o quattro, anime che sin dall’inizio convivevano nel gruppo conferendogli un’ecletticità che mancava ad altri grandi come Who o Yes; un album uscito apparentemente indenne dalla prova del tempo, cosa che a molti mostri sacri mai è del tutto riuscita; un album che è stato in grado di fondere tradizione folk, radici blues e ispirazione rock. Un album, e vado a concludere, il cui ascolto è di fatto un obbligo per chiunque abbia l’ambizione o il desiderio di parlare e scrivere di musica.



Il gonzo 


Queste redazioni virtuali non sono certo quelle di una volta; almeno dieci anni fa qualcuno mi attaccava un post-it minuscolo sullo schermo: “G.B. serve pezzo P.I.L. x venerdi 12!”. Dodici; venerdì sarebbe stato il 14, ma comunque… 
Ora invece arriva la mail! Inchinatevi oh voi sottoredattori pulciosi alle parole del grande capo! Rigorosamente via mail. Elenco pezzi disponibili, poche pippe e rispondere in fretta (fretta: cioè smettetela di farvi le seghe, chiudete Youporn e ditemi i pezzi che volete). 
Ma per fortuna per me non funziona così; che culo essere una penna ricercata! G.B. si cucca il quarantesimo anniversario di Zoso, eccheccazzo! Mamma mia! E non tanto per la settima recensione che scriverò su questo disco in 27 anni di carriera. 
Quarantesimo anniversario. Certo che il tempo scappa veloce.
Non ricordo esattamente quando comprai l’album, anzi non ricordo esattamente nemmeno quanti ne abbia comprati di L.Z. IV: un paio di vinili (di cui uno è una bella english press), poi la cassetta, un CD che ho prestato a Joe Marozzi nel ’92 (e mai me l’ha ridato, l’infame…). Lo confesso: mi esce dalle orecchie.
Ma facciamo pure ‘sto pezzo. 
Da dove si parte a scrivere di Zoso? Tutti hanno già detto tutto. E allora non resta che ribadire l’ovvio. Si parte da una considerazione banale: questo è un grande platter; e Stairway to Heaven è un gran pezzo. Mi sarei anche stancato di sentire certi damerini ultracool, iperalternativi, che giocano al piccolo cinico gettando da anni merda su ogni disco uscito prima del ‘76. 
Ok, ci siamo ascoltati tutto il punk di questo mondo, abbiamo sopportato Johnny Rotten, Anarchy in Inghilterra e perfino Sid Vicious; ci siamo vestiti come Joey Ramone, abbiamo goduto come mandrilli per ogni rumorosa cazzata post punk. 
Adesso basta.
Basta revisionismi radical-chic del cazzo.
Altrimenti la prossima volta che mi fanno scrivere di Sticky Fingers andrà a finire che dovrò sostenere che l’olocausto non è mai esistito e che Richards non si faceva di eroina.
E’ roba per cui si va in galera!
Quindi, stop con le pose originali-indie-alternative: Stairway è una signora canzone! 
Bene, detto questo sfogatevi pure su quel testo balordo (il più sopravalutato di sempre, s-e-m-p-r-e!) ma non andate oltre, perché ormai anche Johnny Rotten è roba da museo. E non c’è bisogno di travestirsi da panda del WWF per la raccolta fondi in favore dei preraffaelliti sul dirigibile più famoso d’Inghilterra. Badate bene: quelli sono veramente capaci di pisciarvi in testa e farvi credere che è acquerugiola di dolce primavera precoce. Quale altro gruppo riuscirebbe a farvi credere che Four Sticks è una genialata? Quali altri quattro bastardi metterebbero mai assieme cocci vecchi di vent’anni per farci Rock n’ Roll? E tutti a gridare al miracolo: “…canzone che potrebbe essere uscita dalla chitarra di Chuck Berry!” Wow! Non mi dire. Addirittura c’è ancora chi pensa che le visioni da fotoromanzo di Artù e Ginevra in Battle… siano autentiche concezioni culturali! 
Let me say: questi vi fregano! Lo hanno sempre fatto da quando hanno rubato Dazed and Confused a quello sfigato di Jake Holmes. Vi hanno sempre fregato, ma volete sapere una cosa? Lo hanno fatto con una grande classe! Ve lo hanno messo di dietro eppure vi hanno fatto godere. Mai provata quella sensazione? Bè ci si rimane male, aftermath. Ma mentre ascoltate quel drumming, quella cazzo di chitarra, quel pennellone tutto capelli che canta come una checca in calore: mentre ascoltate tutto questo, allora pregherete per averne ancora. Di più, datemi tutti i centimetri del vostro amore, bastardi! 
E non ve ne fregherà niente se è paglia o oro, perche i Led Zeppelin possono tramutare l’una nell’altro come nessun ha mai saputo fare.
Ma se volete un consiglio dal vecchio G.B. andatevi ad ascoltare due pezzi, solo due. Il cane nero: perché quelle chitarre sono veramente selvagge e non sfigurerebbero a Detroit. Poi When the Levee Breaks perché, occhio, è il migliore tra tutti i blues travisati nei secoli dagli Zeppelin; è la travisazione somma, la più fantasiosa, la più approfondita, senza paccottiglia psichedelica di contorno: solo stupore, casino e strafottenza ritmica. E’ anche l’ultimo grande blues di un gruppo destinato a sprofondare con Houses of the Holy da lì ad un paio d’anni. 
Visto? Vi hanno fottuto ancora, ma lo hanno fatto alla grande!



Il bastian contrario 


Dopo un trittico di successo imponente e notevolissimo spessore artistico, per i Led Zeppelin sembra giunto il momento della riflessione e addirittura del ripensamento. 
L’album numero quattro della serie, a posteriori, è stato il più celebrato, il più popolare, il più redditizio. Tale sovraesposizione, legittima e in buona parte meritata, è però dovuta esclusivamente a Stairway to Heaven, il brano feticcio di tutta quanta un’epoca che oggi pare piaccia identificare come “classic rock”, quasi a volerne sottolineare una quantomeno dubbia supremazia su tutto il resto.
Stariway è il preferito dei fans, delle fans (…in netta minoranza…), il preferito dalle radio, soprattutto il preferito dei recensori apocrifi. Ma cos’è realmente questa canzone? Una ballata affascinate, senza dubbio, maliziosa, costruita per piacere senza stupire né “shockare”. Una grande prova di maturità e di mirabile costruzione musicale, ben più cerebrale di quanto non sembri.
E se immaginiamo, per assurdo, di togliere questa ballata dalla tracklist dell’album, cosa resta? Possono gli hard-rock di Black Dog e Rock n’ Roll tenere testa ai pezzi migliori del secondo album? Possono le pur pregevoli distorsioni blues di When the Levee Breaks essere paragonate a Dazed and Confused o How Many More Time, quelle sì realmente foriere di stupore e incredulità? 
Quello che i Led Zeppelin avevano seminato nei primi tre LP, viene qui sintetizzato, condensato e raccolto in due ottime facciate; ottime ma, scendendo nei particolari, non al livello dei singoli capolavori precedenti. E se consideriamo quanto sia comunque spettacolare anche questo Zoso, possiamo capire veramente la grandezza di questo complesso, troppo spesso relegato all’arcinoto e stantio ruolo di “patriarca dell’heavy metal”. In realtà erano ben altri i gruppi che stavano partorendo le mostruosità metalliche definitive: Gun, Black Widow, poi Blue Cheer, Grand Funk e Bloodrock in terre oltreoceano. I led Zeppelin non furono gli inventori di nulla, ma i precursori di molto, e questa è forse la reale grandezza anche di questo album.
E il bello di Zoso sta nelle pieghe e negli interstizi, più che nelle celebrazioni postume. Tralasciando quindi i “soliti noti”, ecco che una canzone minore come Misty Mountain Hop dispiega, nella semplicità di un riff elementare ed ostinato, tutta la mistica tanto cara ai componenti del gruppo, riproponendo una visione tardiva, distorta e naif di quell’ Alice in Wonderland che tanto piaceva ai Jefferson Airplane. Ecco che la scheggia epic-folk di The Battle of Evermore dischiude scenari celtici per mandolini ed eroismi assortiti, dove non è tanto l’ospite Sandy Denny a brillare, quanto la cristallina intesa acustica tra le corde di Page e Jones. Ma soprattutto la sempre bistrattata Four Sticks, colpevole solo di un titolo infausto che attira l’attenzione laddove non ce n’è bisogno; e così si finisce per dimenticare quel bell’arrangiamento di stampo mediorientale, quasi un anticipazione di Kashmir, che sarà rivalutato pienamente solo vent’anni dopo, quando Page e Plant si riuniranno per No Quarter, il più misconosciuto dei progetti post-Zeppelin.
E pazienza se Rock’n Roll è un collage citazioni scolastico, pazienza se la voce di Plant non è eroica come un tempo, perché la produzione in studio di Page sopperisce ampiamente ad un materiale che per la prima volta comincia a dare segni di ripetitività; lo fa trovando nuovi equilibri, nuove raffinatezze ed una precisione sonora che mancava nelle prove precedenti, basti a sostegno di ciò il sound di batteria che apre l’ultima traccia.
Questo non è l’album migliore dei Led Zeppelin e forse non è nemmeno sul podio: eppure ascoltandolo è lampante il germe di un’ecletticità, perfino di una modernità per l’epoca addirittura rischiosa. Non un “Testo Sacro”, ma un vademecum da mettere a memoria, tanto per i residuati hippie folk, quanto per i più sofisticati stregoni del AOR di fine decennio.



Il conformista 


Non so se il volume di popolarità possa di per sé costituire, o almeno ispirare, un giudizio critico. Credo possa almeno fornire un criterio di valutazione con cui, perché no, tentare la classificazione di un lavoro artistico.
Se la “qualità” fosse decisa in democrazia, in quella dei mercati almeno, album come Thriller o Hotel California sarebbero indiscussi capolavori; come Led Zeppelin IV, come Dark Side of the Moon…
E alla fine, forse, lo sono davvero. E non solo in quanto il giudizio delle masse che li hanno idolatrati per anni ha sentenziato così. 
Nel caso di Zoso, sembra che un clamoroso successo commerciale si accoppi con un innegabile valore artistico, tratto su cui pur spesso si è discusso, ma che, anno dopo anno, pare rafforzarsi, consolidarsi, mettendo radici perfino nella moderna musica rock di generazioni spaurite che a volte guardano al passato come fosse fonte inesauribile di ispirazione e magari di sicurezze perdute.
E allora Led Zeppelin IV è uno di quegli scogli che si erge sicuro, non certo solitario, ma impassibile e solido. Prodotto del 1971, annata che potrebbe veramente essere considerata come definitiva di quel rock (Sticky Fingers, Who's Next, At Fillmore East…), fu, almeno nelle intenzioni, apice formale della prima parte di carriera del quartetto britannico.
Forse è vero che una Dazed and Confused fu più sbalorditiva, che sia Whole Lotta Love sia  Immigrant Song codificarono definitivamente un genere (con il benestare di Deep Purple e Black Sabbath); forse un blues come Since i've been loving you gli Zeppelin non l'avrebbero mai più scritto né interpretato.
Però, concediamoci per una volta ai ragionamenti semplici e abbandoniamo le pose artatamente alternative, revisioniste e intellettualoidi; diciamo che se mezzo mondo trovò in Stairway to Heaven il proprio vangelo musicale, un motivo deve esserci. Diciamo che la sicurezza, l'autocompiacimento e la sintonia del gruppo sono tali che numeri, per ogni altra band “di routine”,  come Rock and Roll e Black Dog trasmettono tutta questa strafottenza e questo strapotere auto celebrativo direttamente nella testa di chi ascolta; una medicina per le orecchie e il cervello. E’ il bello di una semplicità non banale, che arriva dritta al centro del bersaglio.
Jimmy Page, l'eremita con la lanterna nella busta interna del disco, stava cercando. Cercando il risultato ultimo, quello non più migliorabile; quello perfetto. La sintesi tra qualità del prodotto e successo di pubblico. Regge la lanterna assieme ad un cantante magari non più mitologico di voce ma ancora fresco, ispirato, a modo suo coraggioso nella propria infantile visione favolistica del reale. Assieme ad un percussionista che fu il vero fulcro della band, e con cui, in When the Levee Breaks, ha semplicemente inciso “la batteria” per antonomasia, se non da una prospettiva prettamente tecnica, almeno per la memoria collettiva degli appassionati. Con un polistrumentista, arrangiatore, bassista che fa tutto quanto il resto, a partire da quel richiamo flautato col quale  incomincia quella che con ogni probabilità è la prima, reale ballata rock per il popolo. Forse un popolo di ragazzini; ma di una generazione curiosa. Forse una ballata a tratti scontata, ma che è riuscita a non essere effimera. 
E poi, proviamo ad ammetterlo senza troppi pregiudizi, ci sono volute, ahimè, superstar come queste per mettere a nudo il sistema-Rock, per riversarlo nelle torri del capitalismo sfrenato. Ci sono voluti questi preraffaelliti intoccabili, corrucciati e irraggiungibili sul loro boeing da Mille e una Notte per dare il colpo di grazia definitivo al 45 giri, alle interviste pilotate, alla stampa specializzata, alle copertine con foto in chiaroscuro. 
Per assurdo, ci sono voluti loro, ebbene sì, anche per fare deflagrare la bomba del punk. Tra le pieghe dei bizantinismi fantasiosi di Misty Mountain Hop o The Battle of Evermore, nelle periferie ritratte sul retro della copertina, sta la miccia di quell'esplosivo che avrebbe portato alla ribalta  un’ideologia risoluta, chiassosa, ma a suo modo fondamentale per lo sviluppo futuro di tutta la  musica popolare.
Nessuno all'epoca la vide; e come fare d'altronde?
Ma in molti recepirono un messaggio che oggi, a oltre quarant'anni di distanza sembra rimasto immutato; un'eco di fondo, costante a tutta la musica dei decenni successivi, che viaggia in parallelo ad altri enormi intoccabili come Pink Floyd,  Rolling Stones, Who, Doors…
Led Zeppelin IV, che allora probabilmente rappresentò un punto d'arrivo, oggi sembra essere il punto di partenza migliore per esplorare il cielo del Dirigibile.


11 commenti:

Viktor ha detto...

Monkey, mi congratulo una volta di più per questo tuo affacinante lavoro, ricco di utili e interessanti punti di riflessione. Mi è piaciuto molto l'interesse che hai riposto non solo nell'analisi semantica e sintattica della lingua, ma ti sei spinto ad indagare alcuni risvolti di linguistica pragmatica e psicolinguistica, tracciando un profilo del recensore che va oltre il suo approcciarsi alla recensione musicale.
Ancora non mi è chiaro dove potrei collocare il mio stile, forse un po' in tutte le categorie trattate, essendo io tendenzialemte un moderato e non sopportando gli estremi, soprattutto in fatto di giudizi, ma restando aperto a punti di vista alternativi e opposti, purchè costruttivi. In questo senso forse potrei pensarmi come il "Conformista", che è una sorta di via di mezzo, ma per come è stato descritto direi che, paradossalmente, è il"tipo" più lontano dal mio modo d'essere e di scrivere. Ecco, se c'è un'osservazione che posso fare direi che la prospettiva di descrizione delle tipologie analizzate, è sempre venata da una negatività di fondo e in modo particolare il Conformista, già dalla sua "etichetta", tradisce un'accezione negativa. Ovviamente la tua mano non è invisibile in queste analisi, che son sì assolutamente attente, pertinenti e condivisibili, ma comunque risentono forse ancora di un tuo soggettivismo che probabilmente è giusto ci sia ed è impossibile da evitare completamente. Il punto è che si avverte forse troppo la tua volontà di distaccarti dai modelli proposti, anche se riconosci comunque a te stesso una tua appartenenza a quei modelli talvolta più criticati che descritti. Insomma, si percepisce la tua volontà, per quanto possibile, di affrancarti da ciò che scrivi e non so se questo sia fattibile o se faccia sempre bene all'analisi, che comunque, ripeto, è svolta a livelli invidiabili. Dovresti forse aggiungere un'ottava tipologia trasversale nel quale poterti collocare: il "Meta-recensore Analitico". ;)
Bravo Monkey!

Viktor ha detto...

Ps: a giudicare dal mio uso delle "forme avverbiali e dubitative", sono proprio un Conformista incallito, anche se io mi vedo più come Moderat-Cagakazz!

Unknown ha detto...

Grande Viktor! Grazie per questo e per gli altri commenti!
Sì, non c'è dubbio che io non "dal vero" non scriverei nessuna di queste recensioni; questo influisce sulla scrittura stessa ma riuscire ad essere "totalmente esterni" al lavoro non è facile e certamente si può far meglio (perchè no, magari con un altro ciclo di testi...).
All'inizio ero molto tarato sulla presentazione e la sfilata dei caratteri, poi col tempo mi sono accontentato di arrivare a parlare di una album super recensito in maniera credo abbastanza originale, di questo sono abbastanza contento.

Però ti dirò che tra poco partirà un altro lavoretto che in parte andrà a limitare la questione "soggettivismo"... esternalizzando il tutto (non è del tutto vero, anzi forse non lo è per niente...comunque vedremo)...quindi, se ti farà piacere, continua a dare un occhiata.

Sul conformista mi sono presto reso conto della difficoltà di rappresentare un carattere del genere sulla breve dimensione di una singola recensione: quello forse è un carattere che si valutra bene solo sul lungo periodo.

Un saluto e di nuovo grazie x i contributi!

Vogliamo leggerti di più su RN!!

Nella Crosiglia ha detto...

Caro Monkey , non ho seguito dall'inizio tutto il tuo tragitto...
... un vero peccato...
Ho letto e riletto tutte le categorie ma non saprei dove collocarmi, forse in quella degli sralunati...ma vedo che manca!
Un radioso anno caro amico!

Gianluca Chiovelli ha detto...

Leggere questi esercizi è come leggere l'Enciclopedia Medica. Ho tutti i sintomi.

La firma cangiante ha detto...

Io comunque aspetto quella definitiva, la recensione che esce dagli schemi e dagli stereotipi, quella che secondo te si può considerare una recensione degna d'esser letta che non si incaselli in uno di questi archetipi (che forse non è la parola adatta ma spero di essermi spiegati).

Io sono roso dalla curiosità :)

Unknown ha detto...

"Definitiva" è una parolissima!
Non mi sottrarrò, ma ho bisogno di staccare un po' dai LED...
Poi, potrò tutt'al più scrivere la migliore recensione nelle MIE possibilità!))

Elle ha detto...

Intanto confermo il sospetto di essere un Narratore, io mi trincero dietro il de gustibus anche nella vita, figurati, va da sé che quando scrivo di libri che ho letto, già nel titolo dico che si tratta di una non-recensione.
Granicus e Poobah attirerebbero visite solo tramite errori di digitazione di qualcos'altro (battuta scema di una che non li ha mai sentiti nominare)
Ma veniamo a te: in effetti sono proprio dei personaggi, non è solo una questione di lingua, in quel caso come hai detto si sfocerebbe nella parodia, qui sei dovuto entrare nei vari ruoli per dire la "tua", che potrebbe essere sempre la stessa (e di base lo è, visto che la recensione deve essere positiva), ma a modo loro. Come ti ho detto, le variazioni linguistiche mi piacciono, mi ci vorrei esercitare anche io, ma è una faticaccia, perciò hai tutta la mia ammirazione. E ho preso il pdf, naturalmente.

Unknown ha detto...

@Elle (e anche @ tutti gli altri..)
Grazie!

La firma cangiante ha detto...

Poi, potrò tutt'al più scrivere la migliore recensione nelle MIE possibilità!))

Ma è tutto quello che chiedo :)

Giovanni Gagliano ha detto...

Grande Evil Monkey! ;)
(ci vuole una settimana per leggerlo tutto con cura :P)

ShareThis

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...