Costui fa della digressione
la sua arma segreta: meno preciso dell’analitico, più verboso dell’esaltato, il pedante ha grossi problemi nello stare
entro i limiti di lunghezza. Abbonda di punteggiatura
e perifrasi, evita le ripetizioni
solo con estenuanti giri di parole. Il suo periodare è a volte involuto e
sovente ipotattico. Spesso sull’orlo
della supponenza, non riesce mai a cogliere nel suo testo il senso unitario di
un album. Pur non andando fuori tema, la sua recensione, ad una lettura
attenta, parlerà di tutto fuorchè dell’album in questione.
Non si può certo dire che nel 1971 la ribalta della scena rock
mondiale non fosse ricolma di grandi nomi e grandi dischi: Sticky Finger degli
Stones, L.A. Woman dei Doors, Fragile degli Yes, Who's Next e tanti altri. Fu in
questo notevole momento di creatività diffusa che i Led Zeppelin, i quali già
da qualche anno avevano scosso la scena musicale prima con l’esordio hard blues
di “I” e soprattutto con la vera e propria invenzione di un nuovo sound, l’hard
rock, con il cosiddetto Bombardiere Marrone, arrivano con la loro quarta uscita
a raggiungere quella perfezione formale che stabilirà un nuovo canone per tutto
il classic rock e l’AOR dell’immediato futuro. Cosa sarebbero Aerosmith, Bad
Company, Foreginer, ma forse anche Styx e Kansas senza gli Zeppelin e
soprattutto senza questo album?
Un album che già dalla copertina detta le regole: in questo caso la
regola di rinunciare in toto al
marchio; rinunciare all’immagine, quel logo che per tanti gruppi è sinonimo di
commerciabilità e vendibilità, che magari i progressivi più sofisticati si facevano
disegnare da qualche illustratore famoso (magari Roger Dean?), perfino quel
nome, quello stesso che stava stampato sui primi tre album degli Zeppelin, è
quello stesso nome che scompare da IV, che per questo, non senza ragione, viene
spesso identificato con l’appellativo di “Untitled”. Come se la Apple
rinunciasse alla “mela” o Google al proprio nome colorato. Eppure in quel
periodo, pur così denso di dischi che sarebbero presto diventati classici,
questo album fu immediatamente riconoscibile poiché portatore di un messaggio
che non poteva essere facilmente travisato.
Quel messaggio, che oggi è giustamente riverito come uno dei massimi
testamenti musicali dell’epoca, ma non solo, è Stairway to Heaven. Il brano che
inizia con un dolce arpeggio di Page, presto accompagnato
dalle tastiere da favola di Jones, prosegue come una “power ballad” da manuale
che sfocia finalmente in uno degli assoli più celebri della storia del Rock. E
qui è necessario aprire una parentesi per considerare quanto questi pochi
minuti strumentali abbiano colpito i giovani americani infatuati di rock nei
primi anni ’70, quelli che magari già strimpellavano qualche strumento al
college e che dal giorno in cui ascoltarono questo
pezzo ebbero chiara la strada da percorrere. Pensiamo a Montrose, Blue
Oyster Cult, Boston, di nuovo ad Aerosmith, Bad Company, Foreginer: anche qui forse
c’è la ragione della loro esistenza.
E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per
gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia
sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se
non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel
sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di certo
la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli
d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca.
Chissà se Chuck Berry, nello strimpellare Johnny Be Good o Roll Over
Beethoven, aveva immaginato che quel suo nuovo sound un giorno avrebbe
partorito brani come Rock n’ Roll, che da sola riassume tutto quanto un genere,
o come Black Dog con le sue sfuriate rumorose degne del metal.
Ma gli Zeppelin non sono solo chitarre elettriche spianate o batterie
rombanti come in When the Levee Breaks; anzi forse parte del cuore di questo “IV”
sta ancora nello sperduto e romantico cottage di Bron-Yr-Aur dove Page e Plant,
appena un anno prima, in compagnia di qualche “roadie” e poco più, misero a
fuoco un approccio musicalmente differente, fatto di ascolti acustici e antiche
suggestioni britanniche. E furono in effetti abili a sapere come mantenere con
naturalezza il gruppo su due binari, perché è certo innegabile, ci mancherebbe,
che i Led Zeppelin abbiano coniato il primo vero suono duro della scena rock (certo,
non da soli, ma insieme a ad illustri colleghi come Cream, Hendrix, Sabbath, Jeff
Beck…), ma hanno anche contribuito alla ricchezza di quel folk britannico che tra
gli anni ’60 e ‘70 ha dato prova di grande creatività e freschezza, con gruppi
come Pentangle, Incredible String Band, Fairport Convention, guarda un po’ la
band dell’illustre ospite Sandy Danny che canta in The Battle of Evermore; e
perché no, allora anche Led Zeppelin, quelli di Going to California e
soprattutto del pezzo succitato, con i suoi duelli acustici di chitarre e
mandolini che almeno risparmiavano a Bonzo l’ennesimo tour de force. Certo, niente paura, perchè poi ci sono anche
canzoni come Misty Mountain Hop o Four Sticks, ma soprattutto brani come
l’ultimo del disco, quella When the Levee Breaks, in realtà un vecchio blues
del Delta, ormai celebre per la figura di batteria più imitata in campo hard, che
riallaccia il filo non più con la tradizione folk di altri brani, o di interi
album come III, bensì con un’eredità di blues elettrico, Waters, Willie Dixon,
Wolf, che è poi quella originale da cui gli Zeppelin avevano pescato a piene
mani per i primi due album.
Quindi, in conclusione, quello che qui abbiamo per le mani è un album
di sintesi assai riuscito: sintesi tra due, o forse anche tre o quattro, anime
che sin dall’inizio convivevano nel gruppo conferendogli un’ecletticità che
mancava ad altri grandi come Who o Yes; un album uscito apparentemente indenne dalla
prova del tempo, cosa che a molti mostri sacri mai è del tutto riuscita; un
album che è stato in grado di fondere tradizione folk, radici blues e
ispirazione rock. Un album, e vado a concludere, il cui ascolto è di fatto un
obbligo per chiunque abbia l’ambizione o il desiderio di parlare e scrivere di
musica.
5 commenti:
Du-u-unque:
già 'sto album qui mi piace piuttosto poco (recensione laconica: "é il primo album non bello degli Zeppelin")("Stairway to Heaven" già era inascoltabile trent'anni fa, figuriamoci oggi), se continuo a leggere recensioni entusiastiche va a finire che lo odio proprio...
:)
"Marco di dischi lui fa la collezione
e conosce a memoria ogni nuova formazione"
E così ero io, prima che (il primo accenno) Mr.Alzhaimer iniziò ad impedirmi anche solo di ricordare il nome del batterista degli Who. :))
Fossi stato un pochetto pedante anch'io ?
Un .... un ..... ecco, si.... un....un abbraccio.
albert einstein,ha sentenziato.
Tutto e niente.
"E’ poi opinione comune per chiunque si trovi, per lavoro o solo per gioco, a commentare quest’album, che Stairway to Heaven, da sola, sia sufficiente a giustificare lo status di “capolavoro” per Led Zeppelin IV. Se non che, la stessa opinione comune di cui sopra è comunque in accordo nel sostenere che le restanti canzoni, pur nelle loro diversità, non abbassano di certo la qualità di un’ opera che, nel suo complesso, si assesta su livelli d’ispirazione che non hanno molti eguali nella scena rock dell’epoca."
Questo passaggio indica molto bene i livelli mitologici di pedanteria del recensore. Neanche la lingua tedesca ha così tante relative e subordinate. Lo si può leggere cinque volte e il senso ne rimane un mistero.
Oh, me lo vendi sto disco?.. ;)
Sai Viktor che quella è proprio la "frase cardine" della recensione, quella di cui sono più soddisfatto!
E' il nulla puro; ho cercato di imitare certe dichiarazioni in puro "politichese".
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