Dai primi anni ‘70, da periferie anonime di Kansas City.
Sempre assieme. Sempre a suonare in quello stesso scantinato
orrendo.
Chiusi dentro come in un Conclave per Santità Rock, con
stormi di falene attorno e Buffalo Bill nascosto al buio, col coltello in mano.
Gloriosamente ignoti a tutti; addirittura inediti (I-N-E-D-I-T-I, 0 dischi, 0 singoli) fino alla metà degli anni '90, Paul
Grigsby (bassista), Jeff LIttrell (battersita) e Terry Swope (chitarrista) sono
i Supremi Invisibili.
Ben più di Zerfas o Granicus. Una band inesistente, oltre
perfino al cavaliere di Calvino.
Dimenticate Helios Creed e Randy
Holden. Dimenticate anche Keiji Haino, gli Sleep e gli Earth del
secondo album. Scordatevi il Neil Young di Dead Man.
E’ esistita, ebbene si, la JPT Sare Band.
A questi non fregava un cazzo di
fare canzoni. A loro interessava solo suonare.
I loro brani sono semplicemente continui, reiterati,
insistenti, logorroici, dementi assoli. All’unisono. Basso, batteria, chitarra.
Niente strofe, bridge, chorus. Una totale dedizione al free-form, spinta tanto
da fare invidia a un Braxton o ad un Roscoe Mitchell.
Immaginate un 45 giri dei Cream riprodotto con la levetta del
giradischi sul 33: gonfiato, esteso, deformato, piagato. Cantato con il
mellifluo menefreghismo di chi parla ad una folla di sordi rinchiusa in qualche
ospedale psichiatrico progettato dal Terry Gilliam dell’Esercito delle 12 Scimmie.
La JPT si materializza proiettata nel
tempo, come lo spaesato Bruce Willis che prova a salvare il mondo
dall’epidemia. Senza riuscirci.
Il totale di tante parti è quasi un live dei Grand Funk suonato attraverso gli Sleep di Holy
Mountain che succhiano avidi quella stecca di Quaalude rimasta nella tasca
dello zaino per oltre vent’anni. Il Mirror Man di Beefheart ricalcato da un
Hendrix più strafatto di baccano di quello che suonò a Woodstock.
Gli unici termini di paragone plausibili sono sauropodi come Amboss degli Ash Ra Tempel e sopratutto
Population II del “Vate” Randy Holden, ma del tutto privi del vagabondare
cosmico e dell'aura mistica da guru capriccioso in favore di un ghigno e una
siringa da teppisti da marciapiede. E con un basso elettrico che sembra veramente
percosso da un gigantesco Hartmut Enke del profondo sud, un Titano Mancino dell'onda
profonda che prende a prestito i giri più intontiti del Jack Casady di Saturday Afternoon per farne un bordone
che al tempo stesso è enorme di suono e
trascinante di ritmo: King Rat ne
è il testamento assoluto. Un Death Metal degli abissi deformato da fumo afgano
e LSD a litri, gettato impunemente nell’acquedotto dell’ultimo paese della
frontiera.
La batteria di Littrell si ritaglia con la forza un autopsia
di stonature in sottofondo; potrebbe stare in un’altra inquadratura, su un
altro set, dalla parte opposta del globo, per come divaga senza guinzaglio, per
come sbatte a destra e sinistra come una
cassa da morto che cade dalla tromba delle scale del World Trade Center.
Su tanta ritmica potrebbe parere facile per Terry Swope dispiegare una foga punk unita ad una
perseveranza acida dal volume ignoto e da un feeling blues di ispirazione,
assolutamente metal d'atteggiamento; che mai si nega il gusto del clichè ultra-macho,
ma sempre talmente verboso da sommergere ogni noia con valanghe tidali di
feedback esasperanti.
Brani di un quarto d'ora che passano rapidi e godevoli come una scopata sul retro di una Camaro; salvo
poi risvegliarti in uno sconosciuto motel dalla parte opposta dello stato,
mentre una grossa cimice trotterella allegra sulla tua pancia.
Wha-wha declinati in ogni forma, senza badare
all'opportunità, al tempo e senza alcun freno inibitore. La James Gang di Funk #48 rinchiusa in una campana di bronzo che affonda
nell’abisso, mentre i reduci dell’ Estate dell’Amore sono sbandati
accattoni che mendicano una dose all’ingresso del vecchio Fillmore. Ma la porta
è sprangata da anni. Non c’è salvezza per i reclusi nelle comuni rurali, per i
Guru dell’amore libero, per i teorici yippie; Billy e Capitan America se ne
sono andati da un pezzo col loro carico di “roba”.
Tracce di Black
Sabbath che si prostituiscono all’acido e rinnegano ogni Dio, soprattutto
quello più cattivo, anziano, con la barba bianca e un figlio pieno di problemi.
Una selva di corde metalliche come violino e Gibson degli High Tide intrecciati
assieme in un unico mefistofelico strumento, che nutre una jungla attraverso la
quale si procede solo con un machete che urli di languori funky e stupefacenti forse
ignoti perfino ai più estremi Funkadelic e al volante Reaper degli Guess Who.
E Jerrys' Blues
dovrebbe essere una specie di slow bianchiccio da west side Chicago? O solo
l'ultimo bootleg di qualche ramingo viso pallido perso in Maxwell Street?
Veramente questi vogliono farci credere di sapere cosa sia il blues? Con quei minuti finali in cui il brano degenera
in un altoforno di NWOBHM industriale?
Lo hanno ascoltato qualche volta, il blues, per radio, quando
Clapton, Bruce e Baker stavano ancora sullo stesso palco. Quasi dieci anni
dopo, sono ancora lì, sulla stessa stazione. Fantastico.
Ma quando attacca un insulto
musicale come Rape Of Titan's Sirens
lo stordimento è servito. Quando arriverete alla metà di Acid Acetate Excursion sarete irrimediabilmente persi in un dedalo privo
di uscita, forse senza Minotauro, sicuramente senza il filo. Sono gli echi della Fender dell’ultimissimo Hendrix, quello
più nero, quello intransigente; lo zingaro dell’iper-funky. Sono gli echi di
uno strumento sotterrato come il tomahawk di un capo indiano di cui il Ku Klux
Klan ha cancellato memoria e onore. Non
c’è melodia, non c’è nessuna idea musicale. Ma non c’è neanche il puro
rumorismo di Metal Machine Music o di
certi Fushitsusha. Non c’è la meditazione trascendente di Earth 2.
C’è l’espansione totale degli spunti più anarchici di un
Kaukonen bastardo, mischiato a qualche kraut-rocker atterrato bruscamente sulle
esigenze progressive dei Blues Creation o della Flower Travellin' Band. Questo,
ed un lercio pub di periferia in cui esibirsi due sere su tre, con le stesse
quattro puttane che ti ascoltano prima di iniziare il turno. Per terra chiazze
di birra, sangue e sperma.
E non cercate un senso dentro Time To Cry o Sleeping
Sickness. Perché non c’è. Spirali che lasciano quel retrogusto di chimica
marcescenza alle spalle; come nel sogno di una
Detroit decadente e senza salvezza, in cui la lotta per i Sacrosanti Diritti
ha lasciato il posto ad una scena frammentata di Fight Club clandestini in cui
yuppies precoci sfogano il testosterone senza causa né ideologia.
Quando il brano più corto nel mezzo di un catalogo che di
rado si abbassa sotto i 10 minuti, sono i 90 secondi di It's Too Late - follia backwords, incomprensibile, inutile,
nichilista, falsamente psichedelica - allora è chiaro.
Il suono è il messaggio.
Chi se ne frega dei contenuti.
We travelled to the edge of the Cosmic Universe and
returned semi-intact
Cosa sia la discografia della JPT
non è facile a dirsi.
Inediti per vent’anni, eppure imperterriti nel suonare sempre
assieme, nell’incidere su qualsiasi supporto a portata di mano, per decenni
sono circolati solo alcuni acetati, alcuni nastri; nulla di ufficiale.
Così, quando a metà anni ’90 la Monster Records compilò Acid Acetate Excursion, fu facile
ipotizzare di trovarsi di fronte a qualche degenerato terzetto stoner in
letargo tra il Mojave e la vecchia Seattle dei Melvins. In realtà i 4 pezzi del
LP furono registrati tra il 1974 e il 1976. Ma a quel punto tra brani vecchi,
nuovi, registrazioni live e chissà quant’altro era difficile raccapezzarsi. Non
che il fattore tempo importasse poi molto: la JPT si era conservata come
imbalsamata nell’ambra paleolitica e le jam di un tempo erano semplicemente
reinterpretate con un filo sottile di post-produzione in più.
Certo il fascino del sound vintage delle incisioni di metà
anni ’70 non teme il confronto con i brani più recenti. Perché nel frattempo,
all’alba del nuovo millennio, erano usciti anche i due album destinati a
diventare pivotali nel catalogo della Scare Band: Sleeping Sickness e Past is
Prologue. Tanto che il gruppo si era accasato con una nuova etichetta ed
era ritornato a sputare fuori vecchie jam nuove di zecca, tanto su Rumdum Daddy che su Acid Blues Is The White Man's Burden,
del 2010. Certo che il sound si è imborghesito un po’, compaiono perfino brani
di meno di 5 minuti…
Eppure quel fascino distantissimo da eremiti nel deserto
dell’acid jam mica lo hanno perso.
Acid Acetate Excursion - Monster Records - 1994
A1 Sleeping Sickness 14:18
A2 Acid Acetate Excursion 6:58
B1 Slow Sick Shuffle 6:11
B2 King Rat 12:44
Rape Of The
Titan's Sirens - Monster Records – 1998
A1 Rape Of
Titan's Sirens 4:43
A2 I've Been
Waiting 12:12
B1 It's Too
Late 5:35
B2 Time To Cry 12:43
Sleeping Sickness - Monster Records - 2000 (poi
ristampato dalla Kung Bomar Records nel 2009)
1 Sleeping Sickness 15:17
2 Slow Sick Shuffle 7:13
3 King Rat 13:17
4 It's Too Late 5:31
5 Acid Acetate Excursion 6:58
6 I've Been Waiting 12:12
7 Time To Cry 12:44
Probabilmente il disco definitivo della Scare Band. Fosse
uscito in vinile nel 1976 sarebbe l’Arca dell’Alleanza dell’hard rock
psichedelico. Tutti brani dell’Evo Arcaico, tra ‘74 e ‘76, registrati
ottimamente in presa diretta. Nessuna sovraincisione, nessun effetto;
distorsioni pazzesche, strumentali infiniti, deliri, confusioni, rumori, paure.
Settantatre minuti allucinanti.
Past Is Prologue - Kung Bomar Records - 2001
1 Burn In Hell
2 I've Been Waiting
3 Wino
4 Sleeping Sickness
5 Time To Cry
6 Titan's Sirens
7 Jerry's Blues
8 It's Too Late (Slight Reprise)
Altro ascolto consigliato. Qualche aggiunta rispetto a
Sleeping Sickness (Titan's Sirens,
fantastica e Jerry's Blues) e tre
brani registrati negli anni ’90 (i primi in scaletta) che potrebbero ben essere
usciti dalle fasi più letargiche degli Sleep: lentezze alla marijuana quasi
esasperanti, torpori serafici e, certo, un sound assai più radio friendly…
Jamm Vapour - Kung Bomar Records - 2007
1. Amazons
9:25
2. Ramona
6:52
3. Rainbow Bridge
7:45
4. Right Mind
8:20
5. Don't Count Me Out
8:31
6. Gello Jam 11:09
7. Hungry for Your Love 9:36
Rumdum Daddy - Kung Bomar Records - 2009
1
You Don't Wanna Know 6:35
2
Rat Poison For The Soul 6:11
3
Rumdum Daddy 7:06
4a
Intro 13:51
4b E
Minor Exploration
4c
Theme From The Monster's Holiday
5
I've Been Waiting 9:26
6
Bit Of A Minor Jam 9:20
7
Bookends Jam 5:42
Acid Blues Is The White Man's Burden - Ripple
Music - 2010
A1 Long Day 7:46
A2 Not My Fault 4:56
B1 Death Letter 2001 5:44
B2 Stone House Blues 10:39
C1 I've Been Waiting 9:27
C2 Acid Blues Is The White Man's Burden 8:25
D1 It's A Jungle
D2 All Lit Up
D3 Amy's Blue Day 9:43
Gli ultimi album della JPT, eccetto qualche persistente
percolazione seventies, presentano un
bello schieramento di “brand new songs”.
Produzione di buon livello, qualche concessione in più al radio-pop e in
generale un approccio più rilassato e d’estrazione maggiormente blues. Come dei
pigri Sabbath che si divertono sugli slow di Peter Green in un pub di provincia
al venerdì sera.
Ma roba come la suite E Minor Exploration / Theme From The
Monster's Holiday impressiona ancora.
Alla fine di tutto ciò, in questi anni di tirannia a marca “www”, quasi dispiace che l’intero
catalogo della JPT sia stato interamente riversato in digitale su i-Tunes,
Amazon e addirittura Spotify.
Si può davvero ascoltare con tanta facilità, con tale esorbitante
immediatezza, un reperto che per anni si è celato ad ogni orecchio, nascosto
sotto le argille di un tempo archeozoico?
Cosa abbiamo mai fatto per meritarci questo?
E’ il prezzo che si paga per aver scontato vent’ anni di
invisibilità, di inesistenza? Di mistero?
No! Sicuramente qualcuno voleva faticare molto di più.
Spendere cifre esorbitanti per frammenti di acetati irriproducibili. Seguire
gli indizi dell’ultimo Iniziato al Feedback Mistico “All’alba dell’anno in cui giunse l’ultima lettera del Killer dello
Zodiaco, sorse dal cuore del Sud una band fatta per suonare, ma non per
esistere…”
Inventarsi per caso questa Chicken Itza della distorsione
assurda.
A voi la scelta: fare finta di niente e giovarvi dell’aver
scoperto l’ultimo Graal della follia dei ’70.
O strappare il velo e godervi tutta questa abbondanza in coda
all’ennesima playlist condivisa su Twitter senza spendere un cent.
Links e riferimenti
Spotify:
Amazon:
i-Tunes:
7 commenti:
Dai pochi esempi sembrano veramente ottimi.
Strano che Scaruffi non se li impipi. Forse non gli funziona emule.
Hai mai pensato che possano essere un fake come certo krautrock di metà anni Novanta? Per carità, bravi lo stesso, ma non settantini.
No, questi sono reali! E' addirittura da anni che li sento in giro, su qualche blog, qui e là. Tutto sembra tornare (poi... se sono fenomeni della truffa sono veramente FENOMENI) Ma il fatto di non avere pubblicato nulla, nemmeno un demo, negli anni 70 e 80 praticamente li rende "trasparenti". Nemmeno Vernon Joyson ne parla, ma in effetti, e mi ripeto, non avendo nulla a catalogo... anche Scaruffi alla fine parla di ciò che è "esistito" come pubblicazione.
Un paio di CD sono impressionanti davvero, e si ascoltano anche volentieri.
Wow! Incredible review my friend. jeff littrell came across this dip into the cavern of our catalog. Paul g here and think your writing or at a minimum, the translation of this review is phenomenal! You guys blow the three of us clean away. Send me your snail mail address and i'll send you any discs you don't already have. We have a double LP coming out on the Ripple Music label in the near future and a video of a gig we did in 2011, if that's of any interest to you let me know. Until then, keep it up.
Wow Thanks Aug!
I'm Interested, yes. Send me an e-mail
De paura! Chissenefrega dei contenuti! Che poi, i contenuti li hai trovati tu. Grande post, letto ascoltando quell'inferno..
Anche a me viene il dubbio che non siano settantini..
No dai ragazzi... per me sono originali, ne sono convinto!!
E comunque... macchina del tempo a go go per questi! troppo forti!!
No dai ragazzi... per me sono originali, ne sono convinto!!
E comunque... macchina del tempo a go go per questi! troppo forti!!
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