domenica 22 aprile 2012

Randy Holden – Un pioniere oltre il muro del Suono - Pt.2


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Randy era di nuovo senza lavoro ma a questo punto l’incontro tra i Blue Cheer e il Virtuoso Solitario fu l’inevitabile happening tra due mostri sonori: erano i musicisti che avevano fama di utilizzare il maggior numero di amplificatori sulla costa Pacifica e il loro matrimonio pareva celebrarsi in cielo. Randy raggiunse i Blue Cheer nel 1968 in tempo per incidere il lato B di New! Improved!, un album che segnò il distacco del furibondo trio di Dick Peterson dallo stoner motociclistico degli esordi. Alla chitarra, al posto di un esausto Leigh Stephens, un altro Stephens, Bruce e in più il pianista Burns Kellogs. Il lato A del LP diventò un’ educata collezione di bozzetti west-coast, tra il folk elettrico di Dylan e le divagazioni soffuse di Jerry Garcia (ma l’appeal “southern” di Aces & Heights non è male). Con l’ingresso in scena di Holden il tono cambia drasticamente: tre brani, due molto estesi, concepiti come una suite lunga tutto il secondo lato che si riallaccia idealmente alla What Can I Do for You degli Other Half, privilegiando al mordente rock n’ Roll  una solennità contemplativa e a tratti ridondante.
Introdotto da una lunga assolvenza di gong in feedback, il tono profondo e rilassato di Holden traccia uno dei grandi classici dell’Hard-Psych, definendo forse per primo la fusione tra i due stili che si sarebbero presto avvicendati al top delle chart transatlantiche. Dopo un delicato e ciclico arpeggio orientaleggiante di placido torpore, gestendo con perizia le sovra incisioni, Holden termina la solenne Peace of Mind con una ragnatela di chitarre baritonali e pensose. Lo stesso tono domina anche il suo cavallo di battaglia Fruit and Iceburgs: un Hard-Rock che si avvolge ad un riff elicoidale discendente e sinistro doppiato dal rintocco del basso e sferzato da una linea di canto semplice ma sottilmente ambigua. Chiude con grazia acustica e pastorale Honey Butter Lover un frammento di “adagio” che sa di Prog ed è la faccia nascosta della strafottenza sonora di Holden, segnando un pattern “Hard-Soft” che presto sarà dogma per molti gruppi AOR. Il sigillo finale del gong di Paul Whaley è anche il sigillo sulla permanenza di Holden con il terzetto di San Francisco.
La relazione coi Blue Cheer durò giusto lo spazio di circa 15 minti di musica su disco e di un travagliato tour per gli Stati Uniti; di nuovo incapace di trattenere buoni rapporti con un gruppo già consolidato, lasciò la compagnia nel 1969. New! Improved!, di fatto un’opera spuria e di transizione tanto per Holden quanto per i Blue Cheer, sarebbe stato solo l’anteprima del successivo, definitivo, lavoro del chitarrista: quel Population II che è il suo massimo testamento artistico e album oggi di culto assoluto per collezionisti e appassionati di estremismi da fine anni ’60.



Inciso nel ventre di un teatro dell’opera deserto, con uno schieramento di 20 amplificatori Sunn collegati in parallelo, sintetizzando ulteriormente il formato del power-trio rinunciando al bassista, quindi in sola compagnia di Chris Lockhead, batterista già coi Kak, Holden pesca a piene mani dal repertorio Hendrixiano pur con un plettro lento e a tratti flemmatico che sbatte e rimbomba sui tocchi profondi delle corde gravi, manovra la leva e i pedali con sapiente mestiere e dilata ulteriormente riff e linee melodiche. E’ lui che inaugura il formato minimo e dipolare “chitarra-batteria” riportato in auge in anni recenti da Black Keys e White Stripes. La foto sul retro della copertina, in tremendo nero-bianco, bicromatica, ritrae il chitarrista di fronte al muro di amplificatori che si stagliano come una fortezza sonora alle spalle dei musicisti: 1600 watt di potenza incanalati nella nuova Stratocaster di Randy, ora tramutata in una vera arma di distruzione di massa musicale, con un timbro ed un “ingombro sterico” irriconoscibili in una Fender.


Nei 30 minuti del LP, anche grazie all’originale binomio Strato - Sunn, Holden forgia il più potente e profondo sound di chitarra mai inciso fino al ’69. Guitar Song, una opener che è un Programma, è una vibrazione tellurica, rotonda, plumbea, zeppa di armonici, che emana onde di ampiezza sempre più dilatata, dal tono bollente che emerge come dal nero di un Big-Bang acustico tonante. Un paio di anni prima dei Black Sabbath, questo è vero e proprio Doom in tutta la sua stordente solennità. Holden riprende Fruit & Iceburgs che qui si espande, tremenda, su svisate di feedback dinosaurini e riff monocordi di basso: una versione horror di Hall of the Mountain King, che riecheggia in un antro di vastità insondate. Il tempo è ulteriormente dilatato e il passo della batteria rievoca l’avanzare di un esercito invasore di SS nel territorio della Moderazione e della Decenza. La voce è un puro accessorio che insiste su visioni e toni ormai quasi disperati. Between Time potrebbe essere una fosca memoria di Jumpin’ Jack Flash in forma catacombale, che dondola come un Golem per il ghetto di una pellicola espressionista. Holden dà fondo a tutto il suo mestiere distorcendo ed elevando a potenza le raffinatezza elettriche del primo Jeff Beck, adoperando la sua chitarra come un’ apparecchiatura futuribile per deviare, forgiare e plasmare le onde sonore che stanno attorno a lui. Un unico profondo lamento che si leva da un golfo mistico deserto fin oltre le quinte spoglie del teatro.
Questo chitarrista genera un sound che è realmente titanico, anche nel senso mitologico della parola. Un Prometeo finalmente libero dalle catene che riversa la sua rabbia sottoforma di maree di tetro, livido vibrato. La sparuta batteria di Lockhead, sommersa da tanto tsunami, si limita a definire i contorni di figure che Randy puntualmente deforma e riscrive. Con Population II, Holden inventa il primo modello di guitar-hero solitario, cacofonico e volumetrico, una forma primitiva di Helios Creed, Keji Haino, Caspar Brötzmann o qualche integralista “Kraut” della prima ora in stile Manuel Göttsching. Sarà anche per questo che l’entusiasta germanofilo Julian Cope riserva per Holden parole di esaltato elogio.

POPULATION 2 is a legendary album for several reasons, but none more so than because it’s the most strung out, wrung out ambient hulk of metalwork to rise from the mystic portals that crossed the 1960s over into 1970. When Andrew Marvell wrote about ‘desarts of vast eternitie’ in the 17th century, he was for sure anticipating Randy Holden’s POPULATION 2, deffo the most aptly-titled record ever. For it sounds like the musical equivalent of two loners in the Belfast shipyard, working heads down and wall-eyed during afterhours to create a solo aircraft carrier of Howard Hughes-ian proportions. That big, that lonely, that singular – a friendless featureless musicscape that rivals Skip Spence’s OAR and Klaus Schultze’s CYBORG for sheer doing-my-thing-till-I’m-damned proportions.

Blue My Mind procede stentorea e strafottente (I don’t mind, I don’t care…) come un Classic-Rock notturno in grado da solo di spazzare via quasi tutto Master of Reality e le sue finte visioni sataniche. Ma il vero mostro arriva solo alla fine con Keeper of My Flam: oltre dieci minuti di maratona in quello che di lì a poco diventerà lo stile dei primi Grand Funk Railroad; un continuo esercizio di assoli e contro assoli con ripartenze fulminanti, sustain esasperati, silenzi improvvisi, intermezzi spaziali che massacrano una platea di zombie fatti di Valium e acido.
Fine.
Perché poi, da buon sciamano, Randy Holden, scomparve nel nulla.
Population II fu, teoricamente, l’uscita n° 5002 della Hobbit. Una post-produzione disastrosa costò addirittura la perdita del master originale, l’album non ebbe nessuna distribuzione e fu stampato in un numero ridicolo di copie, peraltro non autorizzate. Il resto lo fece il furto di tutto il mastodontico equipaggiamento tecnico, fatto che lasciò Holden sul lastrico, deluso e depresso. Di fatto, lì finì la sua carriera. Passò gli anni seguenti sempre meno interessato alla musica, dedicandosi quasi a tempo pieno  alla pittura, ambito in cui ancora oggi è attivo (con risultati discutibili…).
Riemerse un paio di volte negli anni ’90 con album di hard-Rock “alternativo” tutto sommato buoni (pezzi Dark Eyes o Scarlet Rose…)ma dai titoli deliranti come “Guitar God”. Certo che se dopo AC-DC prima, Kyuss o Motorpsycho poi, queste uscite segnano inevitabilmente il passo, è pur vero che l’ultra-reggae I Sail On Love, montato su assoli à la Stairway to Heaven, è un brano di notevole impatto emotivo. Così come l’immane anthem di Prayer To Paradise, oltre venti minuti di esercizi di stile che ripassano enciclopedicamente trent’anni di chitarra elettrica da Dick Dale a Hendrix, da Page a Van Halen, da Blackmore a Slash; una prova di dedizione assoluta che anche nel nuovo millennio desta un’enorme impressione sonora e si colloca a buon diritto tra le massime maratone chitarristiche della musica pop.


Sons of Adams e lo psycho-surf, Other Half e la psichedelica pesante; i Blue Cheer con il metal classico e quasi mistico. Population II: la sperimentazione oltre la sfera del suono, oltre il volume o la distorsione. Uno dei primi grandi affronti del Rock alla Fisica e all’ Acustica. 
Randy Holden resta una figura mitologica. Deve esserlo. Un’ eco di un tempo antico che ancora rimbomba tra pachi vuoti, spettrali.
I suoi contorni sfumati, incerti, vagamente messianici, circondati dalla candida aureola stellare sulla copertina cosmogonica di Population II restano la sua più perfetta iconografia.


Ref.:

IMMAGINE: Randy Holden - Psychedelic Lion Fish

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3 commenti:

La firma cangiante ha detto...

Ieri ho iniziato a leggere il tuo blog dal primo post (Nazareth), vediamo se riesco a mantenermi costante e recuperare tutto :)

Unknown ha detto...

Lusingato!!)))

Anonimo ha detto...

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