mercoledì 2 aprile 2014

Out of Blue - Il testo integrale


E' per completezza, e pure un po' per vanteria, che pubblico l'integrale di Out of Blue, le libere conversazioni tra bloggers sulla musica blues.
Un ringraziamento dovuto ai partecipanti:

Massimiliano Manocchia (Massi)

Vlad

Bartolo Federico (Bart)

Mr. Hyde


Qui sotto una playlist derivata dai nostri scambi di vedute, e un link da cui scaricare un "tascabile" formato PDF del (lungo) testo che troverete di seguito.
Ma ora bando alle ciance!
Buona lettura e buon ascolto!

OUT OF BLUE



***

OUT OF BLUE
LIBERI PERCORSI NELLA MUSICA BLUES




Conversazioni con:

Evil Monkey (E.M)

Massimiliano Manocchia (Massi)

Vlad

Bartolo Federico (Bart)

Mr. Hyde



Ovvero: out of blues
Uno sguardo trasversale e rigorosamente “eterodosso” sul blues, prodotto di un collage fatto di libere conversazioni tra blogger, sempre aperte a nuovi contributi e scritte nella speranza di sfuggire al solito nugolo di luoghi comuni e slogan superficiali che ammorbano questo genere musicale.
Percorsi non segnati, lontani da piantagioni, incroci e piedi caprini, che si intromettono in anfratti inesplorati e cercano di origliare a qualche porta nascosta.


E.M.

Out of Blue – Una conversazione

  



Don Van Vliet
China Pig (1986-‘87)
Olio su tela - 260 x 193cm


E.M.:    Curioso iniziare una conversazione sul blues con un quadro astratto.
Ma questo “China Pig” è di un certo Don Van Vliet, pittore già apprezzatissimo in vita, che all'occasione faceva musica sotto lo pseudonimo di Captain Beefheart.
China Pig, prima di essere dipinto, fu anche titolo di un brano del famigerato Trout Mask Replica: un brano che è uno dei grandi blues "eterodossi" del dopoguerra. Primordiale, rupestre come il quadro, razziale, finanche ironicamente razzista e politicamente scorrettissimo. Una Trouble Every Day al contrario?
Procede a cadenza acustica, con quel tempo elastico di chi batte il piede a terra tanto per darsi una regola bella da infrangere più che da seguire. Nella sua eresia, finisce per essere l’idea stessa di blues che abbiamo nella testa, prima che nelle orecchie.
E' il prodotto di un musicista bianco, senza dubbio. Nessun vecchio bluesman di colore avrebbe potuto riprodurre quella “esternalità” di cui vive il brano, quella voluta de-voluzione, quello studiatissimo primitivismo. Non è certo la sublimazione della tecnica che piaceva agli appassionati britannici post-Yardbirds – post Mayall del periodo, nè la parodia un po' oscena di Bring it on Home dei Led Zeppelin o le schitarrate sublimi ma calligrafiche dei Fleetwood Mac. Credo sia il risultato analitico dell'occhio del pittore; che osserva la natura e la musica attorno a sè, quella bruciata dal sole, quella che preferisce. E la ridisegna e la ricostruisce filtrandola attraverso una personalissima sensibilità. Potrebbe esser un manifesto “indie” con 20 anni di anticipo, una visione di “alternative rock” da manuale.
China Pig, il quadro, la canzone.
Il blues, quello che nell'immaginario è tradizione, continuità e immutabilità, che si presta alla travisazione e alla riscrittura con un’elasticità nascosta, tanto da divenire, nelle mani giuste, veicolo di innovazione.

Massi: Questa elasticità nascosta, più che gli stereotipi diavoleschi, è il vero elemento, o meglio qualità esoterica del blues. Riconoscibilissima in ogni sua multiforme diversità. La sparo grossa: è possibile che esista un filo occulto (e spinosissimo) che collega Robert Johnson ai Death In June? Facilissimo scorticarsi, lungo quel filo…
Una sola eretica nota aggiunta a una miserrima scala pentatonica e la musica è cambiata per sempre. A volte quella nota non viene nemmeno suonata, eppure ciò che ascoltiamo sa di blues. Se questa non è magia, cosa lo è? Mi spingo oltre: si può vedere il blues nel quadro di Van Vliet. E si può sentire il blues in Blood Of Winter dei succitati Death In June. Ed è blu(es) anche l’orrore dipinto sui volti dei puristi che stanno leggendo queste righe e che presumo si aspettino che io arrivi a concludere che ‘tutto è blues’. Ahi loro, non è questa la conclusione cui voglio arrivare. In realtà, non voglio arrivare a nessuna conclusione. Anche perché il blues, sotto qualsivoglia forma, non “conclude” mai, essendo la “sospensione” una delle sue caratteristiche – anche tecniche – precipue. Il che mi porta a dire che trarre conclusioni sul blues significa non aver compreso il blues. Con buon pace di LeRoi Jones (o Amiri Baraka, se preferite), che peraltro è passato a miglior blues il 9 gennaio di quest’anno. “Il Popolo del Blues” - pur nella sua blacknessintegralista – rimane forse uno dei testi migliori per cominciare a comprendere il tema, un punto di partenza quasi perfetto per chi voglia seguire un percorso lineare, limitato, tuttavia, alla tradizione.
Ma qui non è di tradizione che vogliamo occuparci. Qui rifuggiamo, pur riconoscendola,  la tradizione intesa come unica forma di verità pura. Qui rifuggiamo il blues come tradizione. Congelarlo entro rigorosi limiti espressivi e storici significa ucciderlo. Ciò che Van Vliet/Beefheart aveva compreso benissimo. E lo aveva compreso benissimo anche Zappa, il quale, dalla vetta dell’”esternalità”, seppe tendere fino all’impossibile l’elastico blues senza mai romperlo.

E.M.:    Zappa, Beefheart, Death in June da una parte. Il buon Amiri Baraka dall’altra.
Ma c’è una sintesi possibile tra il bianco e il nero?
O meglio: dopo anni di commistione - interpretativa sul palco, di ascolto tra il pubblico - i bianchi possono suonare il blues? Certo che si, quella è forse la cosa più facile.
Ma possono anche ascoltarlo senza, anche involontariamente, lasciarsi andare a quell’oppiaceo sonno paternalistico di chi ascolta l’espressione musicale, se non artistica, di una “razza” differente; che ha conosciuto schiavismo, umiliazione e che ancora non ha ricomposto quella frattura epocale?
L’ottimista risponderebbe “si”, anche se spesso, quando ascoltiamo i vecchi brani di Son House, Leadbelly e compagnia bella, spesso dimentichiamo o rimuoviamo, o NON vogliamo riconoscere che si tratta del prodotto di ubriaconi attaccabrighe, a volte perfino assassini, avanzi di galera analfabeti che hanno appreso quei tre accordi e poco altro e su quel poco altro hanno costruito tutto. Esagero?
Il blues revival dei primissimi anni ’60, un fenomeno che ha imposto all’attenzione del pubblico che conta (cioè quello che compra) un genere altrimenti “morente”, è stato fomentato dall’interesse un po’ morboso e snob di giovani borghesi bianchi dei college che ritenevano “alla moda” ascoltare in religioso silenzio qualche vecchia e cadente gloria da juke joint cantare sguaiatamente con una chitarra scordata.
Eppure… quella scordatura, quella sguaiatezza, quel vendersi prontamente a qualsivoglia pubblico per qualche spicciolo… Quella “sospensione” – come la chiama Massimiliano - quella fatidica nota incerta e perennemente in bilico: sono loro che fanno tutto il lavoro sporco e rappresentano anche una discriminante importante tra libertà interpretativa e rigore esecutivo. Il blues sta dalla parte della prima, e non c’è ipertecnicismo claptoniano che possa farmi cambiare idea.
Due grandi visionari hanno dato “definizioni” della loro musica che pur non essendo blues, penetrano il cuore della questione.

Quell’ultima frase non andava perché I’avete suonata giusta. Dovete suonarla sbagliata, appena in anticipo. È molto efficace. È così che suonavano i vecchi jazzisti. Suonavano appena in anticipo, poi i musicisti di Chicago decisero di suonare appena in ritardo, il che non è facile. Appena in anticipo o appena in ritardo. E poi c’è la musica suonata perfettamente a tempo. Be’, quello possono farlo i bianchi
Se è a tempo ti vengono a dire: «Quella è roba mia!» Se anticipi o ritardi quelli là parlano di te e dicono che quella non è mica musica, perché non la sanno suonare. Se suonate a tempo siete spacciati, non troverete un lavoro. Perciò anticipate, senza contare.

Sun Ra

Fu quando mi accorsi che facevo degli errori che mi resi conto che ero sulle tracce di qualcosa di nuovo

Ornette Coleman

Cosa significa?
Non so; almeno non so dirlo a parole. Ma se ascoltate Lonley Woman capirete senz’altro.

Vlad:    Dobbiamo definire il blues?
Secondo me è necessario. Non per averne un concetto giusto; o accademico. Solo per capire di cosa parliamo. Per comprendere, in tale discorso, cosa NON è blues.
Ho letto Jones, e La Musica del diavolo e Lomax e, al di là della meritoria ricchezza dei testi e delle ricerche effettuate, musicali e culturali, ne sono rimasto un po’ sbalestrato. Non riuscivo a cogliere l’essenza profonda. Oltretutto l’esame del blues (del fenomeno afroamericano del blues) mi sembrava riduttivo.
Così ho raffinato una personale gerarchia di concetti che, per me ovviamente, definiscono il blues. Un blues internazionale, onnicomprensivo, ed esclusivo. Onnicomprensivo perché include ANCHE il blues afroamericano; esclusivo poiché esclude certe concrezioni sonore che, pur apparentemente blues, ne sono estranee.
1. TRADIZIONE. Sì, il blues è nel sangue. Immediato. Cola giù dagli antenati. Ce lo portiamo appresso. È prima dell’accademia. È la terra; un gesto che conserva la storia. Attraverso esso possiamo capire un popolo. È musica, ovvero un concetto senza parole.
2. IL BLUES OPERA IN TERRA STRANIERA. Quasi sempre un canto dell’esule. I neri americani, gli immigrati. I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues. I canti degli Americani bianchi costretti a emigrare durante la Depressione sono blues. Guthrie è blues. È blues anche il canto di chi rimane straniero nella propria terra: Aztechi, Incas, Guaranì; Tibet, Palestina.
3. IL BLUES APPARTIENE AGLI SCONFITTI. Gli sconfitti dalla storia: indios, africani, culture schiantate dal capitalismo di rapina. Il blues, spesso, è canto di nostalgia operato con linguaggio non proprio. Garcilaso de la Vega ha scritto poesie blues in cui rievocava con nostalgia i propri antenati Inca: le ha scritte in spagnolo, però. Leadbelly in inglese. I brasiliani in portoghese. I vietnamiti in francese. Molte volte si è blues senza saperlo. Dai canti blues, scritti nella lingua dei conquistatori, traspare la cultura del sangue, antica e inestinguibile.
4. IL BLUES ALL’OPPOSIZIONE. Contro il potere, inevitabile. Se passa al campo avverso, compiacendosi, non è più blues. Sarà un’altra cosa, pur bella, ma un’altra cosa. Attenzione! Non ne sto facendo una questione estetica. Steve Ray Vaughan, Gary Moore, Eric Clapton e compagnia sono bravi, bravissimi, ma non sono blues.
5. IL BLUES È ANTISPETTACOLARE. Non va in televisione. È retrogrado. Non va su facebook, twitter e non si lascia registrare dalla Virgin. Non perché sia snob, ma perché individua da subito il nemico. Al massimo, come detto, si serve della lingua e dei costumi dei conquistatori e dei tiranni, ma solo perché questi hanno distrutto e disperso la sua cultura.
Attraverso questo setaccio si opera un filtro da cui si ottengano risultati bislacchi, ma originali.
I bluesman afroamericani degli anni Dieci blues, va bene. Anche molti jazzisti sono blues. Non è un fatto razziale, però. Guthrie è più negro di Obama, secondo me. I canti tradizionali sono blues. La world music mainstream no. Una lavandaia italiana che canticchia è blues, certe blues singers leccatissime no, anche se blueseggiano a tutto spiano. Le jug band sono blues, il Live Aid no, anche se canticchiavano per l’Africa. Il talking blues bianco è blues. Il rap disco di Afrika Bambaata è blues; Snoop Dogg no. I tamburi rituali giapponesi buddisti sono blues; Haino è blues; i Rolling Stones e i Led Zeppelin no. Leadbelly è un ignorante e un assassino, ma è blues; BB King che suona con gli U2 no. Hendrix è blues, la disco music nera no. Eduardo Galeano è blues; i Blues Brothers no. E così via … Antonio Ligabue e van Gogh sono blues, Mario Schifano e Magritte no.

Massi:  La risposta a una “sintesi possibile tra bianco e nero” su cui s’interroga Evil credo sia in parte stata già fornita da Vlad (quanto meno dal punto di vista concettuale), e la citazione di Sun Ra è una conferma illuminante del fatto che il blues sia soprattutto “libertà interpretativa” e non “rigore esecutivo.” Sotto il profilo tecnico (e non solo), questa è la ragione per cui tantissimi bluesmen, soprattutto bianchi, non sono affatto bluesmen.
Nell’istante in cui si cerca di suonare inseguendo il rigore stilistico della tradizione e i canoni più o meno accademici delineati nel corso del Novecento (le 12 battute, la sequenza armonica I7-IV7-V7,  le blue notes, ecc.), il blues sfugge, sparisce, non si fa trovare.
Il blues è una puttana. Non di mestiere. Di natura. Il concetto di “appena in anticipo o appena in ritardo” di cui parla Sun Ra non è formalmente codificabile ma è proprio in quella frazione di secondo, in quel varco spazio-temporale tra la nota suonata in anticipo o in ritardo e il punto esatto in cui dovrebbe essere suonata che accade la magia blues. Ed è lì che vivono i perdenti, gli sfruttati, gli emarginati, gli esclusi; non sono mai perfettamente a tempo, non sanno esserlo, non vogliono esserlo. Ed è sempre lì, in quel microscopico vuoto che sa quasi di antimateria, che nascono le novità, le intuizioni e le diversità. In una parola, la Libertà. Quando Sun Ra afferma, “E’ così che suonavano i vecchi jazzisti,” incita alla libertà espressiva chiamando in causa la tradizione. A ben pensarci, non è quello che hanno fatto anche i Kraftwerk? Trans-Europe Express non è forse blues europeo futuribile?
Mi piace molto il “setaccio” costruito da Vlad; ha un retino a maglia finissima e il suo utilizzo potrebbe contribuire a una ridefinizione del concetto di “blues” senza pregiudicarne l’essenza.






Out of Blue – Un collage


E.M.:    La precedente conversazione si è chiusa con una proiezione futurista del blues sulle autostrade dei Kraftwerk.
Riprendo dunque il filo quindi dai territori impervi del kraut-rock, ma lo faccio in modo meno fantasioso di Massi e mi limito a citare un brano da Schwingungen degli Ash Ra Tempel, Light: Look at your Sun, uno dei massimi esempi di blues incisi al di qua dall'Atlantico. E' il pezzo che Morrison e Buckley avrebbero sempre voluto cantare; e a dirla tutta ci sono andati vicino, (sopratutto Tim). Eppure quella vocalità dimessa, fatalista, di John L. accompagnata da quel notevole chitarrista che fu Gottsching, genera una foschia violacea ammantata di blue a cui ogni appassionato faticherà a resistere.
Non vado oltre, perchè in realtà vorrei rileggere l'intervento di Vlad, perentorio quanto chiaro nelle definizioni.Lo condivido in buona parte, mi piace l'ardire di citare Afrika Bambaata, Galeano e la “lavandaia italiana”. Cos’è per lui il blues:

“È prima dell’accademia. È la terra.
I canti degli italiani immigrati; degli europei immigrati in America ad esempio nordici, irlandesi, ebrei, est europei: sono blues.
Il blues appartiene agli sconfitti.
Il blues all’opposizione. Contro il potere, inevitabile.”

Scrivi blues, leggi folk.
Ma non sarà - e risparmiatemi le critiche per la superficialità dell'assunto - che il blues sia il folk dei neri, e il folk il blues dei bianchi?
Se gli orizzonti culturali, geografici e l'estrazione sociale degli esecutori sono così sovrapponibili, allora per trovare una discriminante dobbiamo davvero tornare al pentagramma?Le blue note, le 12 battute, la struttura AAB…
Alla fine dipende magari da come si afferra uno strumento. Nella presa del manico sta tutto. Del simpatico Big Jim Courier dicevano che impugnava la racchetta da tennis come fosse una mazza da baseball; con violenza e scarso talento tecnico. Il nero strappa chitarra e armonica dalle mani degli europei e le suona sovrapponendo la sua cultura musicale a quella per cui quegli strumenti erano stati fabbricati. Folklore sovrapposto ad hardware sonoro. Si direbbe d'istinto, senza metodo;con scarsa tecnica, inventando per necessità.
Mother of invention?
Lo strisciare un coltello sulle corde per riprodurre i miagolii degli strumenti monocordi tribali. E se non c’è il coltello? Va bene anche il collo di una bottiglia. Ecco l’invenzione. E la necessità.
Soffiare in un armonica diatonica per riprodurre una scala cromatica. E le note mancanti? Si soffia in modo da piegare appena l’ancia, ed ecco fatto. Alla lunga lo strumento si rompe, ma la nota si trova.
Necessità, invenzione.
Sarà così, o stiamo ancora perpetrando il mito del buon selvaggio che bambinescamente soffia coi sui labbroni nella Marine Band della Hohner e la trasforma in un piccolo sax tascabile? E’ davvero frutto di un approccio infantile, sregolato, estemporaneo e un po’ bizzarro? Chi si azzarderebbe a dire lo stesso del jazz?
Queste sono riflessioni che facevo mentre mi rigiravo tra le mani alcuni vecchi LP della gloriosa serie Folk della Fonit-Cetra,quella collana diretta da Giancarlo Governi per cui nei tardi anni '70 sono stati pubblicati numerosi album, tra cui senza dubbio ci sono anchele canzoni della “lavandaia” citata da Vlad.
Non so se quelle pubblicazioni siano mai state ristampate in CD; i vinili a volte li potete reperire in qualche negozio di seconda mano, forse anche a qualche vinylmania, pur se non sono considerati oggetti molto “cool”.
Tra i vari che ho soppesato ho optato per Gli alberi crescono alti (canzoni di lavoro, d'amore di guerra e di lotta delle Isole Britanniche) di Fred Lane e Kjell Westling, con una bellissima cover illustrata dagli Arcani Maggiori da farlo sembrare qualche oscuro progressive mistico.
Che c'entra col blues? Forse nulla, è un grande album involontariamente freak come fossa la Incredible String Band. Però è tutto quello che Vlad cita come "essere blues" e con cui sono d'accordo.

Vlad:    Allora: un esempio.
Gli africani se ne stanno nella loro terra; qualcuno suona con strumenti indigeni; altri con strumenti influenzati dalla matrice araba islamica…
La loro musica può essere vincente, dolorosa, di vittoria, celebrativa, ma rimane la loro musica.
Gli africani vengono razziati, la loro cultura, di fatto, distrutta.
Essi cercano di ripristinarla in condizioni avverse, culturali, sociali, riadattando gli strumenti e formalizzando il tutto secondo le teorie dei conquistatori.
La lama del coltello, il collo della bottiglia, le scale…
Ecco il blues.
Allo stesso modo: Pizarro distrugge gli Incas; la loro cultura è di fatto dispersa.
Settant’anni dopo un discendente di Atahuallpa (ultimo sovrano Inca ucciso da Pizarro), il grande poeta inca (ma spagnolo naturalizzato) Garcilaso de la Vega, cerca di evocare la propria terra con gli strumenti linguistici, culturali e politici del conquistatore.
Una operazione blues.
Non so che chitarre o flauti  avessero gli Incas. Sorge una domanda: i peruviani oggi fanno il blues? Ricreano in terra ostile, con strumenti stranieri, le melodie Inca?
E i messicani fanno lo stesso con gli Aztechi?
E gli aborigeni australiani? E i persiani?
E i calabresi che suonano la pelle della capra che fanno? I calabresi, i Greci, la tragedia (detta canto del capro) … che musica avevano i Greci nella tragedia? Cosa sopravvive oggi delle culture sconfitte, cancellate, e viene riproposto (anche involontariamente) con diversi mezzi, quelli attuali, quelli dei vincitori?
C’è da indagare per decenni … Siria, Sardegna, Normandia, Yemen, Australia, Galles …
Il blues afroamericano è così famoso solo perché vicino a noi e miracolosamente vicino ai registratori vocali di Lomax e compagnia. In caso contrario (afroamericani razziati nel 1500 e peruviani sin nel 1800 e passa) non avremmo mai avuto Blind Lemon Jefferson o Leadbelly, ma una pletora di sudamericani che suonava strumenti Inca riadattati … Eric Clapton avrebbe schitarrato col suo nuovo gruppo: Balseros del Titicaca …
Il blues (quello classico e riverito) ha avuto una fortuna sfacciata.

Massi: Ah, gli Ash RaTempel: mi hai colpito in un punto debole… che mi strappa ovvietà adolescenziali: è una delle mie band preferite (l’ho detto, chiedo venia). E quel John L. che nella vocalità somiglia non poco a un altro John L., arrivato quasi un lustro dopo a minacciare l’anarchia nel Regno Unito, per poi trasformarsi in un muezzin che intona cupi mantra psicotici.
Inevitabile che si debba parlare anche di folk. Nessuna critica per la “superficialità dell’assunto”, poiché anche un’eventuale definizione di folk deve per forza possedere i connotati delineati da Vlad. Forse in parte sì, dobbiamo tornare al pentagramma, a patto che si comprenda che il blues non è trascrivibile. O meglio, lo sarebbe anche, ma se provassimo a suonare un blues eseguendo pedissequamente, vale a dire col “rigore esecutivo” cui si accennava, la trascrizione, il risultato sarebbe tutto fuorché blues. Mi spingo oltre: se inseriamo un brano qualsiasi, anche di musica classica, in uno dei tanti software che “suonano” i pentagrammi, avremmo un risultato ottimo: per quanto mancante di feeling (e questo può metterlo solo un esecutore “umano”), l’output sarebbe comunque ottimale. Ma se proviamo col blues, questo non accade; si ha quasi l’impressione che esso non si lasci “catturare” in modo definitivo, che non sia mai uguale a se stesso, che si nutra di micro-variazioni di ritmo, shifting di accenti non codificabili sul pentagramma; a volte il blues sembra essere quel tipo di tensione emotiva che sfugge a qualsiasi tentativo di codifica.
Il tentativo di riappropriazione della propria cultura da parte di un popolo ‘deportato’ in terra straniera risente necessariamente delle “influenze” culturali e sociali della terra che lo “ospita” (sfruttandolo), e il blues non fa eccezione. È vero, come afferma Vlad, che  ha avuto una fortuna sfacciata, avendo in qualche modo tratto vantaggio dalla tecnologia, ma credo sia l’ultima grande forma di musica folk prodotta dall’umanità. Posto che si tengano fuori dal discorso la house e la techno, col suo corollario di cosiddetta “cultura rave” che, personalmente, considero altrettanto “folk.” Scontato, allora, ma da sottolineare, il collegamento precedentemente accennato ai Kraftwerk, ormai indiscussi precursori (consentitemi un luogo comune, per una volta) della techno.
E forse, oggi, il blues non lo si fa più “strisciando coltelli sulle corde”, né mettendo bene in evidenza le blue notes o la struttura AAB, e a dire il vero già alcuni bluesmen appartenenti alla “classicità” – mi viene da citare ad esempio Lightnin’ Hopkins, benché non sia il solo – avevano fatto più di un tentativo per rivitalizzare la loro musica uscendo, ancorché di poco, dagli stereotipi sonori e strutturali già consolidatisi da qualche decennio.
Ecco quella che mi sembra una buona domanda: come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?

E.M.: “Come si fa il blues oggi che non esistono più le lavandaie?”
Ma io credo che quelle sono almeno 40 anni che non ci sono più. Non c’erano più già quando Clapton clonava l’assolo di Otis Rush su All your lovin’.
Però non per questo manca autenticità. Che magari non è sempre sinonimo di grande musica.
“Autentico è ricreare originalmente”, scrive Carmelo Bene citando Foscolo.
Alcuni dei blues migliori – e autentici - li ho sentiti per strada, tra i buskers.
Uno era un giapponese enorme che suonava una fantastica National Steel. Si faceva chiamare The Fujii e vendeva il suo CD autoprodotto su un marciapiede sotto il portico di una banca, 10.000 lire: Anyway What Time Did You Get Up This Morning. Uno di quegli slide solitari e stonatissimi, tirate di sei setti minuti, trombettisti free, bordoni di armonica, registrato per strada.  Una favola… Crecatelo in giro, ne vale la pena.
Gli altri erano un trio di svizzeri con un batterista che batteva su una specie di bidone del rusco e uno che suonava un manico di scopa infilato in un secchio. L’unico che aveva uno strumento era il chitarrista. Si chiamavano Hell’s Kitchen e suonavano quei groove ipnotici alla John Lee Hooker.
Ecco questi due esempi sembrano proprio schegge di qualche cultura mista, di rifugiati, di evasi. Apolidi. Cari a Vlad.
Eh, sì, il blues è stato fortunato. Ma si è meritato tutto quanto.


Corollario

Mr. Hyde: Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio. [Jack Kerouac – nota su Mexico City Blues].

E’ vero: il blues è un’entità spirituale che vaga tra un’anima e l’altra. Ne sceglie una a caso e comincia a tormentarla. Aleggia nell’aria, preferisce quella mefitica delle metropoli, città abbandonate come, per fare un esempio, Detroit, un tempo capitale dell’auto, oggi deserto urbano. Ma anche gli acquitrini, il Mar Nero, i giardini di arance sommersi dalla lava dell’Etna. Desolazione. Passato. [Hyde]

Nobody know the other side of my house, my corner where I was born, dusty guitars. [Jack Kerouac –Mexico City Blues, framm. da 127h Corus].

Sono convinto che la beat generation ebbe come riferimento il blues e lo Zen. Forse non ne fu consapevole... Kerouac però scrive: Charlie Parker Assomogliava a Buddah. [Jack Kerouac –Mexico City Blues, framm. da 239h Corus].

Ma c’è un altro lato non proprio Zen, del Blues, sanguigno e terreno:
“Il blues è un uomo in una notte gelida, che cammina per un’eternità, di luogo in luogo, Sutton Place o Bowery, vivendo. No! Non vivendo. E’ quella memoria viva ma non condivisa, che vive la vista che vediamo viva e vivente. Contenuto? Perché ridicolo? Donne su cuscini abbracciati in piscio pisciato, piscio schizzato nel rigagnolo non o perfino non come il suo disconoscente getto che imbeve l ’inguine vestito e filtra attraverso i suoi resti abbigliati. Puzzando nel suo angolo moccioso che si trasforma in carta raramente in cambio della sua ragione, alcool, risposte della vita agli onniscienti, le audacie con le donne, il vino, i canti, le danze e gli stordimenti. Risuonano vecchie azioni fredde, egli respira e vive momenti no, di stravaganti momenti benedetti d’amore detti d’amore, tutte menzogne, menzogne di non-verità reciproche che sfortunatamente si sono unite e hanno odiato le verità universali, dentro e fuori, a seconda che si presuma che lui non è una lei. Dannazione a tutto blues; Avvitato al gelido marciapiede fondente di pietra audacemente abbracciata, erezione di cemento, immaginato morbido solo per ritardate erezioni di solitudine che sono diventate femminili e ti rispondono umide, calde lacrime,non troppo allontanato dal suo comune denominatore, urina ghiacciata che fonde alla audace morte bollente che si aggrappa alla vita per amore al pensiero di una risposta, sia sulla creta, sulla terra o sull’asfalto io osservo nella mia ebbra febbrile ricerca di un vero inguine femminile, che mi vuole come io voglio lei,senza mai odiarmi perché abbiamo trovato rifugio e soddisfazione come due pietre ubriache che si riscaldano fianco a fianco dentro e fuori della nostra debilitata idea della scopata di lati opposti.” [da “Peggio di un bastardo”– Charles Mingus]

E.M.:    C'è una musica blues. Ma c'è anche una “prosa” blues? Cosa la rende così? Il lessico, o meglio il “gergo”'? La (mancanza di) punteggiatura? I soggetti? Più ecumenicamente, tutte e tre le cose? La letteratura blues è la letteratura beat. O meglio il beat è blues “sotto copertura”'o assomiglia di più all' improvvisazione di un bopper fatto di droga?
Mr. Hyde: Blues genere letterario? Prova a dirlo ad uno di quei diavoli ciechi ! Piuttosto linguaggio blues usato in letteratura. Blues trasversale. (che brutta parola..) Potremmo parlare di elementi blues inseriti nella prosa.
Però quello che piace del blues è che non è completamente definito e definibile. Il poter aggiungere qualcosa di personale, come in un racconto non scritto. Certo, il linguaggio, gli argomenti (girovagare, donne, alcool, droga, la notte) gli stati d’animo (rabbia, tristezza,rassegnazione) i luoghi, sono elementi caratterizzanti, ma è il ‘colore’ (non so come definirlo)quell’oscuro affascinante disagio che avverti anche ascoltando Pretty As You Feel dei Jefferson Airplane, che non è dichiaratamente un blues. Forse un blues in acido…



Out of Blue – Sulle tracce di Ulisse


Bart:     Il blues è refrattario come gli anarchici.
Nella scrittura, duri e puri, lo sono stati Cèline, Bukowski.
Nella musica, Captain Beefheart è quello che, tramite la ruvidità del blues, ha mostrato al mondo il suo delirio interiore. Per questi artisti potete usare qualunque aggettivo, insolenti, provocatori, eccessivi, geniali, vedrete che gli calzerà a pennello.
Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.
È la sua reazione a quello stato che non sopporta più, che genera il blues. Il blues non è la lista della spesa, i buoni o i cattivi, il bianco o il nero. Il blues è la desolazione senza sbocco, il sapere che nessuno oltre te, può fare qualcosa per la propria esistenza. Per questo il blues non è di sinistra. Come invece hanno cercato di farci intendere i critici musicali di quell’area politica, mettendone in risalto solo la condizione sociale, da cui scaturiva. Il blues si è sempre abbeverato nella disperazione, nel pessimismo. Il blues è abdicazione al potere. Il blues non è rivoltoso. Chi lo ha pensato si è sbagliato di grosso. Un tempo ho fatto anch’io questo errore. Può arrivare da qualunque parte, il blues. Ma chi lo canta ha bisogno di cose materiali, ha bisogni veri. Perché è in quel momento che ha cessato di essere rispettabile all’occhio del mondo. Il blues del Delta è musica pura, di uomini puri, che ancora non si sono massificati, perché suonavano se stessi. A quel tempo il blues era tutto istinto. E l’istinto è poesia. Almeno per quanto mi riguarda. Poi il blues come ogni cosa che cammina, è diventato qualcos’altro. Ma non sta a me giudicare.
Safe As Milk, ha dentro di se quella purezza primordiale.

E.M.: Cosa c’è veramente di primordiale nel blues?
Ripenso ad Ulisse, a Schwingungen degli Ash RaTempel; e ad una riga scrittami da Mr. Hyde per mail “Mi sono lasciato suggestionare da Omero e dai contenuti 'blues' dell'Odissea, il girovagare, le donne, il vino e il loto”.
A suo tempo scrissi qualcosa sul disco degli Ash RaTempel:
“Quando la melodia getta finalmente l'ancora, i naufraghi del cosmo trovano la loro casa. Una voce suadente, fascinosa, carezzevole; che non è più il subdolo canto della Canzone delle Sirene di Buckley, ma la melodia che Odisseo udì appena poggiato il piede sulla spiaggia sassosa di Itaca.
Il canto di casa.”
Empatia?
Allora, quanto è “blues” questa Odissea? C’è il vagabondare: con una meta, ma senza una strada. C’è una donna da ritrovare, che lungo il percorso però viene tradita, perché le circostanze sono forti e la carne eternamente debole. C’è il vino, c’è l’oblio, i compagni di viaggio.
Eppure faccio un’enorme fatica ad associare in qualche modo la mitologia classica alla mitologia blues, che affonda le radici in un passato molto più prossimo e in un territorio che tutt’al più può essere quello del bacino del Congo, piuttosto che del Mediterraneo.
Non è la “primordialità” di Odisseo la stessa del blues, con buona pace di Tales Of Brave Ulysses dei Cream, una minima coincidenza puramente accidentale.
Forse è primordiale per tecnologia (o non tecnologia), anzi forse è quel suo essere intrinsecamente anti tecnologico.
O magari è primordiale nella voce, nella forma più che nei contenuti, nell’espressione, nel lessico con la sua fissità da fossile vivente.
O forse abbiamo solo scelto l’Ulisse sbagliato.(Massi gradirà questo assist…)
E poi c’è una cosa che vorrei sapere da Bart: è possibile un blues svincolato dal “sud”?
Di qualunque “sud” si tratti: geografico, politico, sociale. Dovunque si trovi.
South Side Blues Jam di Junior Wells suonerebbe altrettanto bene come North Side Blues Jam?
Il profondo “sud del Sud dei santi”.
E’ lì che nasce tutto, anche nella nostra piccola penisola?

Bart: Il blues ha tempi lenti, dilatati. A dispetto dei suoi esecutori, si muove poco è pigro, sonnecchia svogliato di fronte alla palude, o al grande fiume, o scrutando il mare. È nelle corde di chi nasce, dimenticato dal mondo nei luoghi dove il tempo sembra non esistere, dove tutto viene rimandato a dopo, dove non c’è molto da fare, che il blues è nato. Nella polvere del sud, nelle comunità rurali della gente di colore. Il nord è solo la terra promessa. Dove c’è lavoro pagato per tutti (una volta)…
“Il blues è nato nei campi di cotone dove si lavorava duro e il padrone non pagava”. (Sonny Terry)
Il blues per come lo sento nella mia anima, resta ancorato ai paesaggi, ai colori, alle sensazioni, che solo il sud possiede. Poi è possibile anche un blues fuori da quei luoghi. Certo che è possibile. Ma suona in un altro modo. E’ un'altra cosa.  Vlad la scorsa volta ha fatto la differenziazione tra quello che per lui è blues, è quello che non lo è. Parlava in prevalenza di bianchi, se non erro. Ma chi è più blues tra: Blind Willie Mctell, e Sleepy John Estes?
Il blues del delta è musica ostica ,difficile da digerire, non è adatta al mercato radiofonico. Non tutti hanno la pazienza di ascoltare quei suoni sghembi, ossessivi, che non seguono alcun tempo,e vanno a ruota libera. Quando si parla di blues, si parla sempre del blues elettrico, per giunta fatto dai bianchi. Ma quella è la Musica Blues. Non è il Blues. Il blues tradizionale non si può trascrivere, è strano, dopo tre pezzi ti rompi i coglioni. Certo se non c’erano i musicisti bianchi, anche Robert Johnson non sarebbe diventato una leggenda. Ma quanti fruitori di musica hanno davvero ascoltato Robert Johnson? Il blues tradizionale è quello meno conosciuto, il più declassato.
Per questo è nato Dustyroad. Scrivo i miei racconti con la speranza che chi legge, si possa innamorare di quei pezzenti, e andare anche per un solo attimo ad ascoltarli. Il mio compito è questo. In nome del Blues. Del sud.

Massi: Eccome se gradisco l’assist, caro Evil. Vorrei prima però soffermarmi su un’affermazione di Bart che trovo tanto sorprendente quanto vera: “[…] il blues non è di sinistra.” Sorprendente perché va senza dubbio contro corrente rispetto alla convenzione (o luogo comune) che vorrebbe la cultura appannaggio della sinistra; vera perché se oggi, nel 2014, siamo ancora qui a parlare di blues - e non, ad esempio, di ragtime o di twist - la ragione va forse ricercata proprio in quel suo non essere ideologico che lo rende universale: pur mutando, o meglio, proprio in virtù della sua capacità di mutare, il blues va nutrendosi della propria continuità, della propria “adattabilità” al momento, ben lontano dalle banalizzazioni modaiole del carpe diem o da certo “compassionismo” estetico, tanto in voga in una società come la nostra dove il politically correct è ancora d’obbligo. Il bluesman – il vero bluesman, intendo – se ne fotte del politically correct e se ne fotte anche della legge. Cito ancora Bart: “Il blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.”
Ed è qui che raccolgo l’assist fornitomi da Evil per spostarmi su un terreno che mi è caro tanto quanto quello della musica: la letteratura.
Splendide le suggestioni omeriche di Mr. Hyde, e forse il collegamento tra “mitologia classica” e “mitologia blues” potrebbe trovarsi in quello che ritengo essere il libro più importante del Novecento e che delle peregrinazioni di Ulisse dà una lettura parodistica, ricostruendo in chiave modernista l’intera epopea omerica. Una delle innumerevoli chiavi di lettura di Ulysses è il neanche troppo velato sberleffo al vittoriano “eccesso di civiltà.” Mr Bloom è un outsider, è l’eroe moderno colto “nella sua reale miseria.” Umana, aggiungo io. Joyce recupera un mito classico (quello, appunto, di Ulisse), ne decostruisce l’ellenicità e lo trasforma - parodiando un altro mito, quello dell’ebreo errante - nell’eroe moderno. Lo sottopone a continue umiliazioni, sfide e derisioni; lo colloca in situazioni complicate e fastidiose; ce lo mostra nei suoi momenti più vulnerabili, umani, ordinari (mentre defeca leggendo il giornale, ad esempio) e ci regala il flusso costante dei suoi pensieri, guidati dal bordone di una malinconia incessante e, a tratti, dolcissima. Come il suo creatore, ebreo di origini ungheresi in terra d’Irlanda, Mr Bloom è un esiliato in patria. I continui richiami alla fascinazione per l’oriente nei suoi monologhi hanno la stessa profondissima essenza delle “lamentazioni” del delta del Mississippi.
Costretto a soffrire il trauma emotivo e psicologico del tradimento della moglie, dell’antisemitismo, di un’esistenza vissuta ai margini della società, Mr Bloom sostituisce lo stoicismo greco con l’umana imperfezione. Joyce ne dettaglia le più banali attività quotidiane e mette in evidenza, talvolta con tocco di compiaciuto feticismo, peccati e tabù dell’essere umano: defecazione, minzione, golosità, masturbazione, voyeurismo, alcolismo, sadomasochismo, ecc.
Se – in aggiunta a quanto teorizzato nelle precedenti conversazioni – il blues è anche uno stato d’animo, allora Mr. Bloom è uno dei personaggi più blues di sempre.
Non credo sia possibile un blues “svincolato dal sud,” se per “sud” intendiamo i confini connotativi tracciati in precedenza da Vlad, e condivido l’acutissima distinzione di Bart tra “blues” e “musica blues” (bellissimo tema, peraltro, da sviluppare); tuttavia un blues iperboreo è possibile, ma sarà sempre derivativo, e gli Ash Ra Tempel sono lì a dimostrarlo.
Alla stregua dell’apprendista che, all’inizio del suo percorso iniziatico, viene posto davanti al bivio tra “via umida” e “via secca”, Il blues(man) rappresenta l’eterno dubbio dell’uomo che non ha ancora deciso se seguire il “canto di casa” o lasciarsi avvolgere nel dolce oblio del “canto delle sirene.”

Vlad:    il blues non è di sinistra. Bene. Il blues non è rivoltoso, non è di sinistra. Non è attivo. Son d’accordo: infatti appartiene a chi ha già perso. Come ho già detto: si cerca di riguadagnare la propria patria (la propria cultura) nelle terre del vincitore; spesso con gli strumenti stessi del vincitore. I canti di guerra non sono blues; le trombe dell’attacco di cavalleria nemmeno; gli inni di vittoria neanche. Al blues appartiene la sconfitta, inevitabile. In un certo senso: il blues si crogiola nella sconfitta e nell’elegia; non gli è indifferente, tuttavia, lo sberleffo per il vincitore.
Blues e sud. Nei limiti tracciati sopra: se al blues appartiene la sconfitta, per Sud occorre intendere gli sconfitti, gli esiliati, gli immigrati, i senza patria. I nordici emigrati a Pittsburgh avevano i loro canti di lavoro blues: erano Sud anch’essi. Andrew Kurely (operaio slovacco immigrato autore di American land) è Sud e blues; i Blues Brothers no. Andrew Kurely, come Robert Johnson, è blues; i Blues Brothers fanno musica blues.
Odisseo. Ulisse alla corte di Circe o di Nausicaa ha improvvisato sicuramente canti blues. Ne ho la certezza. Appena rientrato a Itaca avrà deposto l’elegia e cantato un inno di guerra: era a casa, infatti.
I Greci, distrutti dall’economia di rapina, esiliati in patria, suoneranno blues. Presto intoneremo blues anche noi.
A margine di Odisseo. C’è un libercolo interessante in giro: Felice Vinci, Omero nel Baltico. Più che un libro è una affascinante congettura. In esso l’autore ipotizza che l’Iliade e l’Odissea fossero originariamente ambientate nella regione baltica (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia) e quindi, dopo la migrazione dei popoli nordici verso il Sud (lungo le direttrici dei fiumi russi), riadattate al contesto mediterraneo. Omero sarebbe, perciò, un bluesman situato a Sud che rimpiange elegiacamente il Nord; e in tal caso il Nord sarebbe davvero un Sud.
Una proposta: considerare il blues come l’elegia cantata dei poveri, dei diseredati, dei senza patria, dei nostalgici. Dei sudisti dell’anima.


2 commenti:

mr.Hyde ha detto...

grazie per avermi dato l'opportunità di partecipare a questo raid musical-letterario-filosofico, in ottima compagnia..

Unknown ha detto...

Ottimissima!

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