“Categorie
calviniane” applicate alla Popular Music - La Leggerezza - Pt. 1
La
leggerezza, nel suo significato più esteso e distante dalla definizione che ne
da la fisica meccanica, dovrebbe essere una caratteristica intrinseca e
importante della musica Popolare. Potrebbe addirittura considerarsi una
discriminante rispetto alla musica così detta colta. Tanto quest’ultima è complessa, orchestrata, formalizzata e,
perché no, pesante, tanto il Pop dovrebbe servire a veicolare emozioni di
immediata comprensione e sentimenti di piacevole svago. L’espressione tipicamente
italiana “musica leggera” eleva la qualità a categoria. Ma se questo pur
generico assunto trovava buoni riscontri nel primo decennio di dominio del Rock
n’ Roll, tra il 1950 e il ’60 su per giù, la via percorsa dal Pop e dal Rock
degli anni successivi fu ben diversa. Cercando l’approvazione delle masse, ma ambendo
allo stesso tempo allo status di artisti a tutto tondo, (e non più solo entertainer) cantanti e strumentisti
hanno lavorato per colmare la distanza tra “musica popolare” e “musica colta”,
cercando di uscire dall’adolescenza della forma-canzone e del 45 giri, per
giungere ad una fase più matura costruita attraverso l’album, la poesia, il
live show sempre più perfezionati e complessi. Non è più così scontato oggi applicare
la categoria “leggerezza” al Pop e tantomeno al Rock, che anzi ha trovato nella
scientifica ricerca della durezza prima, del peso poi, una redditizia linea
evolutiva. Non esistono reali opposti ad “Hard Rock”, “Power Pop”, “Hardcore”
e, soprattutto, “Heavy Metal”; se quindi il peso entra così prepotentemente non
solo nelle singole canzoni, ma addirittura nei generi codificati, forse la
leggerezza è oggi una qualità in estinzione. Forse non sarebbe nemmeno sbagliato
leggere parte dell’evoluzione della musica Popolare degli ultimi 50 anni come
un succedersi di addizioni di peso: aggiunte di db al volume, aggiunte di piste
sul mixer, aggiunte di strumenti e sovraincisioni.
Se
dovessi qui indicare un manifesto per la leggerezza in musica sarebbe una
canzone remota e forse poco nota ai più: Buzzin’Fly
di Tim Buckley è la prima che mi salta alle orecchie. In questo pezzo del 1969
tutto congiura a favore della leggerezza: dalla meravigliosa linea melodica
della chitarra di Underwood che sale e scende in barba alla gravità esplorando
tutta l’estensione dello strumento; alla semantica stessa del testo in cui
compaiono sostantivi lievi come honey,
sand, seabird ed espressioni verbali altrettanto chiare come l’iterazione
float away nonché il titolo stesso,
con quell’essere per metà onomatopea e per metà dichiarazione di intenti
musicali. La mancanza di una sezione ritmica lascia che il brano si sviluppi
come un duetto tra chitarra e la voce controllata ed, eccezionalmente, radiosa
di Tim Buckley, cantante abituato a registri ben più mesti. Una leggerezza
ottenuta attraverso la scrittura della musica e la fluidità dell’esecuzione,
oltre che dall’uso delle parole.
E’
una leggerezza matura, ben diversa da quella più ingenua, tanto da sconfinare a
volte nella superficialità, così tipica di certi anni ’50. Gene Vincent, per esempio,
uno dei primi imitatori di Elvis, deve la sua iniziale fortuna allo stratagemma
di togliere peso alle interpretazioni della superstar di Memphis. Con una
presenza fisica ben diversa da quella Presley, Vincent punta su un sound di
compromesso tra il Country e il nascente Rock n’ Roll e anche in questo caso è
la perizia di un chitarrista a fare la differenza: Cliff Gallup fu uno dei
massimi virtuosi del periodo e le sue brevi e velocissime scorribande soliste
garantivano il salto di qualità ai brani di Vincent: Blue Jean Bop, Jump Back,
Race With The Devil, tutte scatenate,
ritmate e velocissime, riescono a mantenere una lievità preclusa alla carica
sessuale e sociale del baritono di Presley. Una leggerezza costruita con la
fantasia, la velocità e una vocalità tenue e scoppiettante allo stesso tempo.
Dello
stesso periodo mi ha sempre incuriosito la moda tipica dei gruppi vocali di attribuirsi
nomi di uccelli: Cardinals (cardinali), Penguins (pinguini), Flamingos
(fenicotteri), Ravens (corvi), Larks (allodole), addirittura Orioles (rigogoli)
quasi come se il nome potesse essere il propellente per un sound facile e
veramente leggero, melodioso come il canto dei pennuti. In effetti gli intrecci
di falsetti e baritoni di sfondo faranno da trama importante per slanci
tenorili memorabili, primi tra tutti quelli di Tony Williams dei Platters.
Ben
diverso l’apporto che da alla nostra categoria una piccola canzone del 1968,
leggera per elezione semantica sia del testo sia del nome del gruppo: Light On Your Windows è emblematica di
quella speciale connessione che la lingua inglese ha tra il luminoso e il
leggero. Light come sostantivo, luce,
diventa light come aggettivo, cioè
non pesante. Luce come mancanza di massa e dunque sola energia, un po’ come la
musica stessa. Poco importa che il testo dei Quicksilver Messenger Service si
riferisca a stanze luminose: il soffice tessuto musicale a base jazzistica
alleggerisce ulteriormente l’impalcatura di un brano “elettromagnetico“ proprio
nel senso che il fisico Maxwell diede del termine nelle sue 4 equazioni.
Inevitabile un’ultima considerazione sul nome che il gruppo di Mill Valley
scelse in omaggio a Mercurio (in inglese quick
silver, argento veloce), messaggero degli dei e portatore dei sandali
alati: la divinità volante e veloce per eccellenza.
Tra
i protetti di Ermes, l’eroe Perseo si distinse per l’uccisione di Medusa, una Gorgone
con il potere di pietrificare con lo sguardo. Un mostro in grado di rendere
pesanti anche le più lievi delle creature. Numerosi furono i musicisti in grado
di esercitare lo stesso potere, ribaltando la leggerezza e la mobilità in massa
e ponderosità. Alcuni esempi ci vengono dai Nazareth, sempre in grado di
rileggere brani, anche acustici, come potenti corazzate metal: Ballad of Hollis Brown, This Flight Tonite, Shape of Things tra le altre; eppure il loro non fu un potere del
tutto malvagio in quanto conferirono un certo fascino ritmato a canzoni che di
per sé così leggere non lo erano del tutto (la ballata di Dylan su tutte); il
loro fu un personale tentativo di trapiantare la tipica matrice Rock
anglosassone in territori da boogie sudista. In realtà la vera Gorgone del Rock
anni ’60 furono senza dubbio i Vanilla Fudge. Un gruppo che letteralmente si
nutriva di covers: delle 32 canzoni che compaiono sui 5 album pubblicati tra il
’67 e il ’70, qualcosa come 24 pezzi sono cover. Questi eterotrofi del Rock
avevano il dono di tramutare in piombo qualunque onda sonora, che si trattasse
dei Beatles, di You Keep Me Hangin' on
delle Supremes, di Sonny Bono o della allucinante versione di Season of the Witch di Donovan. Ritmi
rallentati, batteria rimbombante, organi da chiesa e cantati gregoriani;
impossibile definirla “musica leggera”, eppure avranno proseliti,
fortunatamente con idee più personali, nel Progressive e nel Rock da arena di
fine ’70.
Eppure,
nonostante questo tenace lavoro di appesantimento, il reale manifesto della
sconfitta della leggerezza arriva, con l’immagine ancor prima che la musica,
dal primo album dei Led Zeppelin: la tragedia dell’Hindenburg, in cui il
fluttuante dirigibile viene distrutto da una nuvola di fuoco, segna il
definitivo tramonto dell’era del volo leggero.
Se
questo processo di pietrificazione ha fatto la fortuna di alcuni gruppi Hard
& Heavy, il suo apparente opposto ha contribuito alla fortuna di Mtv in
anni più recenti: il procedimento dell’ ”unplugged”
è tanto più coinvolgente, quanto più arrabbiato e violento è in origine il gruppo
che si propone senza elettricità. Ma la ”sottrazione i peso” in questo caso è
meramente di facciata e soprattutto di volume. Smell Like Teen Spirit non perde tutta la sua pesante emotività
staccando il jack, e vedere i Kiss senza trucco o i Korn senza amplificatori sembra
più il (buon) divertissement di una
sera piuttosto che l’inizio di un nuovo corso. Almeno l’”unplugged” chiarisce una volta per tutte come non basti il solo
dato dei decibel a decidere sulla pesantezza di una canzone, o di un intero
genere.
Un
tentativo curioso di spogliare il Metal della sua eponima “heaviness” lo tentò
un insospettabile Mark Kozelek, già leader dei Red House Painters, quando
pubblicò nel 2001 Who’s Next to the Moon, album acustico composto interamente
da vecchie canzoni degli AC/DC. A chi si chiede come il taccuino da bassifondi
di Bon Scott possa adattarsi allo spleen
di Kozelek potrà sembrare strano che proprio i testi sono la cosa che meglio
funziona nel progetto. Un tentativo di sconfiggere la Gorgone senza guardare
nel riflesso che riesce solo a tratti (Love
Hungry Man, What's Next to the Moon)
e altrove viene pietrificato all’istante. Ma forse era un’impresa troppo ardua
anche per un Artista come Kozelek, già avvezzo a costruire con la leggerezza la
base per ben altre introspezioni. Almeno la prima fase della carriera dei Red
House Painters è la ricerca costante del più tenue supporto per i più gravosi
pesi di malinconia, depressione, solitudine, abbandono. Un “togliere” che in
questo caso è vera e propria mancanza, e la raffinatezza delle canzoni sta
proprio nel continuo meravigliarsi di come una suono così etereo, addirittura
rarefatto, possa farsi carico di tali oneri. Sempre sul punto di rottura, la
loro musica è come la tela su cui si dondola l’elefante delle filastrocche per
bambini; un paradosso fisico che trova la sublimazione in brani come Katy Song o Mother talmente eteree da scomparire letteralmente in lentissime
dissolvenze, che sono poi il continuo disfarsi del ricordo nella mente dell’Autore.
Marc Chagall – Promenade (1917-18)
Giambologna – Mercurio volante
Esplosione
del dirigibile Hindenburg (1937)
Renè
Magritte - La battaglia delle Argonne (1959)
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