"Categorie
calviniane” applicate alla Popular Music - La Leggerezza - Pt. 2
Non
che l’estrema rarefazione corrisponda forzatamente ad estrema leggerezza; sotto
quest’ottica l’opera omnia dei Sigur Ros potrebbe essere considerata un’ode alla
nostra categoria. Questa è piuttosto la leggerezza della “piuma di Valery”, una
leggerezza che è incerta e in balia di ogni brezza; diversa, per l’autore
francese la leggerezza dell’uccello: “Il
faut être léger comme l'oiseau et non comme la plume”.
Ad
un terzo tipo di qualità, mediana rispetto agli estremi del poeta francese, si dedicò
un illustre antenato di Mark Kozelek, quel Nick Drake che oggi è di moda citare
come fonte d’ispirazione, ma che nel 1974 morì solissimo e ignoto ai più. Già
il titolo dell’esordio, Five Leaves Left, riassume parte della sua poetica
autunnale: la sua è la leggerezza della foglia che cade lieve ma dritta al
suolo alla rottura del picciolo. Un momento in cui anche il peso di qualcosa
ormai morto è troppo gravoso da sostenere: Drake è il cantore di quell’istante.
Se il suo primo album fu illuminante, il terzo e ultimo, Pink Moon, è il
tentativo struggente di non fare precipitare a terra quella foglia. Già dalla
bellissima copertina surrealista, con oggetti improbabili che galleggiano nel
cielo notturno. Ma se la “luna rosa” si può solamente guardare da lontano,
tornano spesso parole come ground o floor: è la fragilità di un’anima che si
allontana sempre più dalle cose del mondo. Distantissimo appare poi Drake nella
voce che incide su disco. Una lievità sepolcrale e notturna; dunque, sia lieve
anche la terra allo sfortunato artista.
Per
riemergere da questo lato oscuro vorrei tornare ad un contesto già accennato
parlando dei Quiciksilver, ovvero la grande stagione della West-Coast. Due
gruppi in particolare hanno saputo cogliere una sfumatura essenziale:
l’eleganza della leggerezza, quel fascino mai ostentato che trae il suo
magnetismo dalla perfezione del prodotto. Spirit e Love furono complessi che
della “grazia” e della classe strumentale fecero i propri cavalli di battaglia.
Il gruppo di Randy California e Joy Ferguson ebbe un inizio di carriera
folgorante con Fresh Garbage e per
esteso tutto il primo album: cinque musicisti diversi ma complementari e
intimamente affini, amalgamati da quel grande batterista che fu Ed Cassidy:
alle sue ritmiche, complesse eppure immediatamente accattivanti, si deve quel
misto di giovane impudenza e di elettricità controllata che pervade Straight Arrow o Girl In Your Eyes .
Ancor
più perfetti, elastici, ritmicamente impeccabili e musicalmente nitidi furono i
Love, l’unico gruppo che riusciva a coniugare la carica del garage con la
perfezione degli arrangiamenti in stile Brian Wilson. Forever Changes è il
capolavoro formale di quell’arte quasi neo-classica ma vorrei qui soffermarmi
su un brano dell’album precedente, Da Capo, che riesce a scrollarsi di dosso le
pastoie dei luoghi comuni sulla canzone d’amore e restituirci un bozzetto caldo
e intimista sulla relazione di coppia: Orange
Skyes. Piccole apparizioni come l’usignolo, lo zucchero filato e
soprattutto i cieli arancioni, a cui
il flauto toglie ogni materialità, tanto da lasciarle libere di fluttuare come
bolle di sapone.
Il fluttuare è verbo soave e quasi
musicale, una conseguenza della sottrazione di peso e materia a cose e idee. Da
un punto di vista letterale i campioni della “fluttuazione” dovrebbero essere i
musicisti più prossimi a quello strano genere che è lo “Space Rock”; in realtà,
almeno nel mondo anglosassone, raramente questa forma Rock riesce a decollare
veramente. Ben più ampio l’ultimo vero volo del qui già citato Tim Buckley che
in Starsailor, offre la sua visione di un viaggiatore spaziale perso in verità
più nell’inconscio che nel cosmo. Più facile incontrare veri esploratori stellari
nell’Europa continentale: moti musicisti cosmici tedeschi hanno esplorato lo
spazio profondo ma sempre a bordo di pesanti astronavi elettroniche.
Anzi,
è paradossale che “Planet Caravan”, piccolo
brano acustico dei Black Sabbath, i sovrani della materialità in Rock, riesca
meglio di tanti altri a perforare l’atmosfera con tanta semplicità musicale.
Trent’anni dopo i Kyuss renderanno omaggio al brano con una cover di concetto, Space Cadet, estesa fino a 15 minuti,
acustica come un mantra dei primi Amon Duul. Più o meno nello stesso periodo
anche gli Sleep diedero la loro versione del viaggio spaziale con Inside the Sun: uno dei brani più
pesanti di uno dei gruppi più pesanti sulla scena.
Questa
irrimediabile fatica di volare, così perennemente connessa alla gravità, trova
in una produzione minore degli Helloween una allegoria involontaria ma
intrigante: If i could fly fu un singolo
di terza fascia all’inizio del 2001 e nel videoclip la scena chiave era
rappresentata dal cantante Andy Deris che, appeso a due enormi e rigide ali di
cartone, recitava una parte a metà tra Icaro e un rapace. Il bello della
canzone stava proprio in quel periodo ipotetico (If i could) che frustrava ogni tentativo di librarsi in volo;
tentativo vanificato anche dalla musica stessa (e qui sta il bello dell’involontarietà…)
non propriamente memorabile se non per una efficace introduzione di pianoforte.
Un’evoluzione interrotta rispetto ai cieli sovrani di Eagle fly free?
Un’
immagine simile, ma dalla resa molto migliore, ce la fornisce Roger Dean,
l’illustratore britannico la cui attività è sempre stata tangenziale al Pop (ma
il suo ruolo nei successi degli Yes non va dimenticato). Gli elefanti volanti
sulle copertine disegnate per il gruppo Africano Osibisa sono la migliore celebrazione
antigravitazionale che si possa trovare in un LP: sono gli “elefanti rosa” di
Dumbo con la prerogativa tipica del protagonista. Da non dimenticare che lo
stesso Dean fu anche l’architetto di quelle Floating Island, memori della Laputa di Swift e di molto Magritte, che forniranno ben più di una semplice ispirazione
agli ideatori di Avatar.
La
verità è che in epoca moderna i campioni del fluttuare senza dubbio sono gli
Spiritualized sia nella musica che nelle immagini dei testi. Pur carica di
orchestrazioni stratificate e tecnologiche, il Rock di Ladies and Gentlemen We
Are Floating in Space è sempre etereo e leggero come l’elio, pervaso di soffice
candore e privo di una meta precisa. Quella degli Spiritualized è in effetti
una vera “macchina soffice” dove il suono è onnicomprensivo e pervasivo come la
droga per la poetica di Burroughs.
Dal
canto suo la “macchina soffice” più famosa della storia del Rock non era certo
un esperimento Soft, anzi il gruppo di Wyatt, Hopper, Ratledge (e anche di
Ayers, e Daevid Allen) radunò alcune delle menti più argute e a loro modo
sovversive nel panorama Pop. La musica dei Soft Machine ha molti più legami con
il jazz e con l’arte astratta del primo ‘900 che con i fervori di fine anni ’60
che li videro comunque protagonisti. Una apparente leggerezza che è in realtà
sintesi tale da arrivare al minimalismo e a suo modo è l’opposto degli orpelli
barocchi e ponderosi di “equivalenti” sonori come gli Emerson, Lake and Palmer
di Tarkus o Pictures at an Exibition. Il breve assolo di tastiere di Priscilla vale in questo caso più di
tante parole.
Ripercorrendo
questo vagabondare alla ricerca della leggerezza perduta mi sono imbattuto in
diversi fili conduttori di questa categoria; una leggerezza che è qualità e
ispirazione di una canzone (Tim Buckley, Love); una leggerezza che è
sottrazione di peso (anche psicologico e culturale) e che spesso si confonde
con la più facile fruibilità (Vincent, Penguin, Orioles); una leggerezza sonora
che è una maschera per veicolare i più bui recessi di un’anima in sofferenza
(Drake, Kozelek e a modo suo anche Tim Buckley); una leggerezza che è stile,
perizia strumentale ed eleganza (Love, Spirit); infine eccone una “antinewtoniana”
che è puro desiderio di volo, di levitazione, di viaggio antigravitazionale.
Concluderò
ricordando due espressioni di leggerezza pura: un autore e una canzone.
L’autore è Ray Davies, il musicista che più di tanti altri ha dato linfa a
questa categoria, l’unico in grado di coniugare satira sociale, riflessioni sul
cambiamento dei tempi e ironia ad una infinita semplicità e levità di scrittura
(anche musicale); Sunny Afternoon, Johnny
Thunder, Celluloid Heroes sono
pesi piuma di densità culturale elevatissima.
La
canzone è The Weight, che chiude
idealmente il cerchio con Buzzin’ Fly
citata in apertura. Questo brano di Robbie Robertson, così perfetto da essere
un piccolo hit nell’affollato 1968, è anche uno dei migliori ossimori del Rock
Americano, con la A maiuscola. Una ballata soffice in cui il peso del titolo
viene svuotato di tutta la sua massa dalla meravigliosa batteria “a levare” di
Levon Helm e dal pianoforte di Garth Hudson.
Take a load off Annie, take a load for free;
Take a load off Annie, And you can put the load right
on me.
Se
aiutati dalla musica, anche i gravi affanni della vita e dei suoi personaggi possono
essere portati dentro uno zaino.
NOTA: Negli ultimi 60 anni, la musica
popolare, o meglio la “musica commerciale” ha prodotto un’infinità di canzoni,
album, artisti e gruppi. Un oceano sterminato impossibile da censire in modo
esauriente. Quella qui proposta è una delle infinite rotte possibili in
quest’oceano, tracciata sulla base di una categoria, la leggerezza, che sarà
filo conduttore all’articolo. Una delle migliaia di varianti possibili di
questo percorso che a sua volta è solo uno delle migliaia di percorsi possibili.
IMMAGINI
Renè
Magritte - Le Chateau des Pyrènèes (1959)
Renè
Magritte – Avenir des Voix (1927)
Pink Moon – Copertina (1972)
Pink Moon – Copertina (1972)
Roger Dean – Floating Island
Galileo Chini – Icaro (1901)
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