venerdì 13 gennaio 2012

Eddie Hazel - I once had a life…n° 3


A oltre sessant’anni dalla sua nascita, la storia dell’unico solista afroamericano che poteva rivaleggiare con Hendrix; Eddie Hazel, figura mitologica della chitarra elettrica, è oggi un eroe dimenticato di un tempo eroico per la Black-Music.



Nel 1977 la nuova svolta: è il momento del primo ed unico album solista, prodotto da Clinton con l’aiuto della sterminata truppa dei redivivi Parliament, tra cui i vecchi amici Nelson e Worrel.  Hazel raccoglie materiale sufficiente per almeno 3 LP: quello che ne esce è “Game, Dames and Guitar Thangs” (Warner Brothers, 1977) un tour de force strumentale su è giù per il manico della Fender. Sulle solidissime basi funky dei vecchi colleghi, il chitarrista dispiega tutti gli sterminati colori e distorsioni della sua Stratocaster. Se il songwriting non è sempre a fuoco, gli estesi assoli sono fantasiosi, personali e soprattutto mai trite imitazioni di “Maggot Brain”. L’ispirazione è in parte ripulita dalla ruvidità dell’ hard e del funk; Hendrix è sempre il Nume, ma non più l’Hendrix di “Izabella” o della “Band of Gypsys”, piuttosto quello rilassato e morbido di “Little Wing” e “Waterfall”; da qui Hazel si avvicina anche ai territori quasi jazzati dell’ultimo Peter Green o del Jeff Beck di Blow by Blow.
Se non che, Eddie è rimasto un solista puro, un virtuoso dell’assolo che necessita di produzione “autoritaria” e di strutture armoniche scritte per supportare i suoi voli; nell’album si avverte che il solista si getta senza rete e i brani girano perpetui attorno a figure ultrafunky a volte mancanti di sviluppo coerente. Un senso di “precarietà” che però giova a dare ulteriore risalto alla straordinaria tecnica del protagonista. Dai ricami di “Frantic Moment” al funk-blues di “So Goes The Story”, “Game, Dames and Guitar Thangs” è uno dei grandi guitar-album dimenticati degli anni ’70, degno di stare alla pari dei lavori dei tanti discepoli di Hendrix sparsi per il mondo da Robin Trower a Ritchie Blackmore a Frank Marino.
Ma fu anche, ahimè, un unicum; emarginato di nuovo nei P-Funk, che ormai allineavano una line-up sterminata necessaria al loro circo live, Hazel non seppe riciclarsi come band leader, né tanto meno come artista solista. La copertina, in pieno stile P-Funk, indulgeva ancora in iconografie da pellicola di Gordon Parks, con il musicista in vesti sgargianti che imbraccia la chitarra come fosse un fucile; ma l’album era arrivato fuori tempo massimo. Il 1977 spaccò l’America in due: da una parte il boom commerciale della Disco, dall’altra il rock alternativo della Sire Record con Ramones, Dead Boys e Talking Heads: il poco spazio rimasto per i guitar-hero se lo prese tutto Eddie Van Halen.



Le collaborazioni di Hazel con Clinton divennero sempre più sporadiche anche perché il suo stato di salute andava peggiorando: dolori allo stomaco, problemi al fegato, anni di alcol, droghe e Falsi Dei che ritornano, tremendi, a chiedere il conto. E’ la strenua e scontata lotta della rockstar di turno contro una Morte prematura e già scritta, che ad Eddie Hazel non concede nemmeno la grazia di una glorificazione postuma, concessa a tanti altri sconosciuti spettri come lui. Non fu una carriera fulminante e la sua fiamma si spense lentamente, “goin’ down slow” come cantava Jimmy Oden.
Morì l’antivigilia di Natale del 1992, dopo anni di dolorosa malattia, per emorragia interna dovuta a complicazioni epatiche. Aveva 42 anni.

Dopo la sua morte apparvero sul mercato alcune compilation che raccoglievano inediti del periodo di “Game, Dames and Guitar Thangs”. Prima un EP, “Jams From the Heart”, poi un CD di stampa giapponese, “Rest in P” (P-Vine, 1994), difficile da reperire ma di valore veramente alto che aggiunge ai 4 brani dell’EP altri 6 pezzi; oltre un’ora di musica forse ancora migliore dell’album ufficiale. Il suono è etereo e atmosferico, a tratti uno smooth-funk di gran classe, a tratti uno space-rock coloratissimo e interstellare. I brani cardine sono tre sterminate jams: “Juicy Fingers”, “We Three”  e  “No, It's Not!”.
I 14 minuti di “Juicy Fingers” sono un’ emozionante, ininterrotta cascata di blues ipersonico, la sponda opposta di “Maggot Brain”: quanto quello era estemporaneo, meditativo e pieno di feeling, questo è estroverso, molto tecnico, pulito: Hazel è fluido, veloce, nitido; “We Three” è un esteso soul con una lunghissima coda strumentale in cui il chitarrista sfrutta tutto il suo arsenale elettronico per creare vortici di echo e delay che avvolgono lo spazio e risalgono altissimi la stratosfera. “No, It's Not!” si lancia fino a corazzarsi di metallo pesante nel lungo delirio finale.
Nel 2004 la Rhino ristampa “Game, Dames and Guitar Thangs” con 4 bonus track (cioè i 4 pezzi di “Jams From the Heart”); poi, a parte una trascurabile raccolta di demo (“At Home”, 2006) di nuovo il silenzio.

Progenitore della debordante scena funk-metal di Los Angeles, da Hillel Slovak (Red Hot Chili Peppers) a Tom Morello, dai Fishbone fino a Lenny Kravitz, Hazel non è riuscito a squarciare le ombre e ad imporsi veramente per quello che avrebbe meritato. Un fuoriclasse oscuro, misterioso; uno dei tanti portenti dimenticati di una musica con poca memoria e senza riconoscenza. Di lui non ci restano interviste, solo pochissime foto. Uno spettro; che lasciò sempre la parola al suo strumento. “Can You Get To That”, una canzone di Clinton datata 1971, dice più o meno: “Una volta ho avuto una vita, o meglio, la vita ha posseduto me”; questo accadde ad Eddie Hazel. Il suo talento fu a volte il posacenere per i mozziconi di droga e tabacco che gli divorarono il cervello proprio come larve d’insetto; ma da quelle larve spiegarono le ali meravigliose farfalle sonore, librate su cascate di note.
Fu il più grande. Almeno per un giorno. Accadde in un’ epoca lontana, in una sala d’incisione come tante. Da qualche parte, nella Detroit dei primi anni ’70. Neon tubolari; vapori urbani e pioggia leggera. 

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