A oltre sessant’anni dalla sua nascita, la storia dell’unico
solista afroamericano che poteva rivaleggiare con Hendrix; Eddie Hazel, figura
mitologica della chitarra elettrica, è oggi un eroe dimenticato di un tempo
eroico per la Black-Music.
Nel
1977 la nuova svolta: è il momento del primo ed unico album solista, prodotto
da Clinton con l’aiuto della sterminata truppa dei redivivi Parliament, tra cui
i vecchi amici Nelson e Worrel. Hazel
raccoglie materiale sufficiente per almeno 3 LP: quello che ne esce è “Game,
Dames and Guitar Thangs” (Warner Brothers, 1977) un tour de force strumentale su
è giù per il manico della Fender. Sulle solidissime basi funky dei vecchi
colleghi, il chitarrista dispiega tutti gli sterminati colori e distorsioni
della sua Stratocaster. Se il songwriting non è sempre a fuoco, gli estesi
assoli sono fantasiosi, personali e soprattutto mai trite imitazioni di “Maggot
Brain”. L’ispirazione è in parte ripulita dalla ruvidità dell’ hard e del funk;
Hendrix è sempre il Nume, ma non più l’Hendrix di “Izabella” o della “Band of
Gypsys”, piuttosto quello rilassato e morbido di “Little Wing” e “Waterfall”;
da qui Hazel si avvicina anche ai territori quasi jazzati dell’ultimo Peter
Green o del Jeff Beck di Blow by Blow.
Se non che, Eddie è rimasto un solista puro, un virtuoso dell’assolo
che necessita di produzione “autoritaria” e di strutture armoniche scritte per
supportare i suoi voli; nell’album si avverte che il solista si getta senza
rete e i brani girano perpetui attorno a figure ultrafunky a volte mancanti di sviluppo
coerente. Un senso di “precarietà” che però giova a dare ulteriore risalto alla
straordinaria tecnica del protagonista. Dai ricami di “Frantic Moment” al
funk-blues di “So Goes The Story”, “Game, Dames and Guitar Thangs” è uno dei
grandi guitar-album dimenticati degli anni ’70, degno di stare alla pari dei
lavori dei tanti discepoli di Hendrix sparsi per il mondo da Robin Trower a
Ritchie Blackmore a Frank Marino.
Ma fu anche, ahimè, un unicum; emarginato di nuovo nei P-Funk, che
ormai allineavano una line-up sterminata necessaria al loro circo live, Hazel
non seppe riciclarsi come band leader, né tanto meno come artista solista. La
copertina, in pieno stile P-Funk, indulgeva ancora in iconografie da pellicola
di Gordon Parks, con il musicista in vesti sgargianti che imbraccia la chitarra
come fosse un fucile; ma l’album era arrivato fuori tempo massimo. Il 1977
spaccò l’America in due: da una parte il boom commerciale della Disco,
dall’altra il rock alternativo della Sire Record con Ramones, Dead Boys e Talking
Heads: il poco spazio rimasto per i guitar-hero se lo prese tutto Eddie Van
Halen.
Le collaborazioni di Hazel con Clinton divennero sempre più sporadiche
anche perché il suo stato di salute andava peggiorando: dolori allo stomaco, problemi
al fegato, anni di alcol, droghe e Falsi Dei che ritornano, tremendi, a
chiedere il conto. E’ la strenua e scontata lotta della rockstar di turno
contro una Morte prematura e già scritta, che ad Eddie Hazel non concede
nemmeno la grazia di una glorificazione postuma, concessa a tanti altri
sconosciuti spettri come lui. Non fu una carriera fulminante e la sua fiamma si
spense lentamente, “goin’ down slow” come cantava Jimmy Oden.
Morì l’antivigilia di Natale del 1992, dopo anni di dolorosa malattia,
per emorragia interna dovuta a complicazioni epatiche. Aveva 42 anni.
Dopo la sua morte
apparvero sul mercato alcune compilation che raccoglievano inediti del periodo
di “Game, Dames and Guitar Thangs”. Prima un EP, “Jams From the Heart”, poi un
CD di stampa giapponese, “Rest in P” (P-Vine, 1994), difficile da reperire ma
di valore veramente alto che aggiunge ai 4 brani dell’EP altri 6 pezzi; oltre
un’ora di musica forse ancora migliore dell’album ufficiale. Il suono è etereo
e atmosferico, a tratti uno smooth-funk di gran classe, a tratti uno space-rock
coloratissimo e interstellare. I
brani cardine sono tre sterminate jams: “Juicy Fingers”, “We Three” e “No,
It's Not!”.
I 14 minuti di “Juicy Fingers” sono un’ emozionante, ininterrotta cascata
di blues ipersonico, la sponda opposta di “Maggot Brain”: quanto quello era
estemporaneo, meditativo e pieno di feeling, questo è estroverso, molto
tecnico, pulito: Hazel è fluido, veloce, nitido; “We Three” è un esteso soul
con una lunghissima coda strumentale in cui il chitarrista sfrutta tutto il suo
arsenale elettronico per creare vortici di echo e delay che avvolgono lo spazio
e risalgono altissimi la stratosfera. “No, It's Not!” si lancia fino a corazzarsi
di metallo pesante nel lungo delirio finale.
Nel 2004 la Rhino ristampa “Game, Dames and Guitar Thangs” con 4 bonus
track (cioè i 4 pezzi di “Jams From the Heart”); poi, a parte una trascurabile
raccolta di demo (“At Home”, 2006) di nuovo il silenzio.
Progenitore della debordante scena funk-metal di Los Angeles, da
Hillel Slovak (Red Hot Chili Peppers) a Tom Morello, dai Fishbone fino a Lenny
Kravitz, Hazel non è riuscito a squarciare le ombre e ad imporsi veramente per
quello che avrebbe meritato. Un fuoriclasse oscuro, misterioso; uno dei tanti
portenti dimenticati di una musica con poca memoria e senza riconoscenza. Di
lui non ci restano interviste, solo pochissime foto. Uno spettro; che lasciò
sempre la parola al suo strumento. “Can You Get To That”, una canzone di
Clinton datata 1971, dice più o meno: “Una
volta ho avuto una vita, o meglio, la vita ha posseduto me”; questo accadde
ad Eddie Hazel. Il suo talento fu a volte il posacenere per i mozziconi di
droga e tabacco che gli divorarono il cervello proprio come larve d’insetto; ma
da quelle larve spiegarono le ali meravigliose farfalle sonore, librate su
cascate di note.
Fu il più grande. Almeno per un giorno. Accadde in un’ epoca lontana,
in una sala d’incisione come tante. Da qualche parte, nella Detroit dei primi
anni ’70. Neon tubolari; vapori urbani e pioggia leggera.
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