domenica 22 gennaio 2012

PAGANESIMI ELETTRICI - Il Naufragio di Atlantide - Pt. 3


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La barca faceva ora rotta verso la Fusina dove era agevole l’accesso alle foci della Brenta Vecchia, ultime ramificazioni naturali dell’antico corso fluviale da cui era possibile inoltrarsi nell’entroterra veneto. In una rete fittissima di cavi, scoli, meandri morti e canali, tanto intricati da avere richiesto in passato la consulenza tecnica di Leonardo, la bragagna infilò il Naviglio di Brenta, che portava dritto verso Padova.

Ocean è diviso con regolarità quasi simmetrica in 4 parti, due canzoni per lato: due suite enormi e due pezzi più brevi, in uno schema rigoroso ABBA.

Poseidon’s Creation, il brano d’apertura è un’intricata vicenda cosmogonica che attinge a piene mani da un’ apocrifa religione Olimpica passata al vaglio di Platone e Campanella ma illustrata come fosse un fumetto di fantascienza, o qualche vecchio B-movie: Clash of the Titans in musica.
La storia di un tempo remoto in cui i figli degli dei camminavano sulla terra. Poseidone, divinità degli oceani e dei terremoti, regnava sull’isola di Atlantide, una sorta di Eden incontaminato che il Dio popolò con i figli avuti da Kleito. Qui, in pace e distante armonia, protetti da una muraglia dorata e da una legge suprema, condussero una vita di perfezione e felicità.
Il brano inizia con un crescendo strumentale come i Pink Floyd di Meddle fino ad assestarsi su un semplice riff da barcarola con l’ organo rinforzato dalla chitarra, un suono che potrebbe stare tanto su Vanilla Fudge quanto su Machine Head: è contagioso, ritmico; molto rock. Dopo la lunga recita di Borenmann che sfoggia un accento teutonico imbarazzante, è il basso che con una linea intricata e piena di staccato segna l’inizio di una nuova sezione strumentale: il chitarrista, sul proscenio, sfodera un lungo assolo fluido e striato di arabeschi mediorientali e arabeggianti, che disegnano glifi contorti sulla ritmica e sul tenue ma ampio sottofondo delle tastiere. Il tutto approda nel mezzo di uno stormo di gabbiani meccanici migranti nello spazio, verso nebulose punteggiate da oceani freddi; la chitarra geme languidamente, si intreccia con la sua stessa eco su di un fondo di voice synth ponderoso e orbitante. Una banalizzazione di un certo modo di suonare alla Gilmour, forse. Ma l’effetto nel suo complesso è notevole.
Già da qui si delinea l’ampiezza dell’architettura musicale di un album che risuona come nell’abside di una cattedrale neoclassica dai candidi stucchi rifiniti con striature dorate. Il suono pulito e levigato come un marmo, i molteplici livelli di tastiere adornano una concezione semplice, ripetitiva come un salmo.

Intanto la barca aveva attraversato l’antico borgo fluviale di Mira, che dal medioevo controllava gli accessi al padovano. Le campagne dintorno odoravano ancora di alghe e sale e folti stormi di gabbiani si appollaiavano chiassosi sui rami bassi dei salici grigi.


La narrazione riprende con Incarnation of Logos, e siamo in pura Genesi Eretica che nulla ha a che spartire con la filosofia di Giovanni: una voce distante a metà tra il Dio che parla nei film di Cecil B. DeMille e le comunicazioni in sub spazio di Star Trek, elenca i passi della creazione del genere umano. Il brano, aperto da un sinistro accordo di tastiere, è privo di ritmo e tempo per tutta la prima parte. Poi, quando è annunciato il compimento della “procreazione primaria”, è di nuovo il basso a segnare una transizione ritmica che accelera improvvisamente e vira di nuovo verso l’Hard Rock. E così degenera anche la condizione e forse la natura stessa dell’uomo: vige la legge del più forte, della sopraffazione, del potere individuale. Hobbes a fumetti.

Le prime pagine di Decay of Logos sono il momento più spiccatamente Kraut dell’album: tocchi rotondi di basso e loops di synth che procede con il solito fluttuare tidale; una semplice batteria motorik e arpeggi aperti di chitarra. Una piccola ouverture che introduce il solito salmo a cappella di Borenmann. La canzone prova a recuperare i Tangerine Dream di Fedra e Rubycon e le loro tessiture elettriche ma già “ballabili”.
Qualcosa è compromesso. L’uomo è la creatura imperfetta per eccellenza. E’ la preghiera vendicativa dell’ultimo dei giusti che invoca la punizione della Divinità sull’umanità. Un intermezzo di tastiere distorte fino ricordare gli Amon Dull II di Riding on a Cloud: ma il brano è ormai deragliato in un vorticoso Hard Rock in stile Uraiah Heep. Solo la conclusione riporta un respiro più mistico e sofferto allo stesso tempo. La voce si fa più lamentosa, pur mantenendo il solito impassibile rigore teutonico. Borenmann non canta mai in effetti; pare più la lettura di un giovane pastore protestante.
Ma la fine è ormai vicina, appare ineluttabile annunciata dai versi migliori di tutto il lavoro:

Rainy dead end street,
Hanging deep above the vaporing sea!


Ancora qualche accordo di chitarra e la voce che si dissolve sull’oceano in un’eco profonda.


Detlev Schmidtchen, il tastierista del gruppo, teneva ancora tra le mani il mini-moog superstite accarezzando i tasti come ripensando alla musica.
Dopo un altro breve tratto risalendo il Brenta, il Principe Viaggiatore aveva fatto cenno al timoniere di infilare il Canale della Brentella, un antico scavo medioevale che a metà del XII secolo fu addirittura al centro di una guerra tra Vicenza e Padova per i diritti di passaggio sulle vie d’acqua. Quella deviazione consentì ai viaggiatori di evitare la turbolenta Padova per immettersi nel corso della Tesina, torrente che scorreva presso la villa del Principe.

L’immane Atlantis' Agony nasce sicuramente come un’enorme sinfonia elettronica di atmosfera, che si sforza di citare tutte le suggestioni di colossi come Zeit o The Marilyn Monroe-Memorial-Church, cercando di trasportarli in un contesto maggiormente Rock, aggiornandoli alla languente scena Prog che andava disfacendosi alla fine dei ’70. E’ una quinta teatrale coperta da un mastodontico fondale dipinto. Sembra il lancio di un’arca spaziale destinata e salvare quella giovane umanità dall’onda definitiva. Ma qualcosa va storto. La struttura collassa, c’è una sirena nascosta che si fa sempre più inquietante. Poi, dall’alto, un organo suona nella cattedrale marmorea. Va ingrandendosi sempre più, assimila il ritmo e gli altri strumenti, si mangia tutto il brano. Attorno a lui paura e distruzione. Quella stessa voce sintetica, impacciata, cosi “tedesca”, che all’inizio fa giusto sorridere per la sua ingenuità, acquista, ripetizione dopo ripetizione, una sinistra aura di tragedia che permea tutto quanto il brano; il climax procede lento ma senza pause come accade in quell’incubo che è Mamie is Blue dei Faust. All’organo si aggiungono sintetizzatori, folate di vento, anelli elettronici in serie.


Quando dopo otto interminabili minuti, la sezione ritmica si unisce e Borenmann riprende il canto. Si delinea una melodia semplice e descrittiva, ancorata ad un giro insistente di basso, su cui il respiro dell’organo si è fatto via via più affannoso.
Poi il conto alla rovescia si esaurisce e alle tastiere è concesso un lungo meditabondo assolo su toni piuttosto mesti. La conclusione apre alla chitarra che sottolinea il messaggio ultimo dell’album: particelle nell’oceano, lacrime nella pioggia. Ancora un paio di minuti; il cuore smette di battere, un gong si porta via tutto.
In verità il brano riusciva molto meglio dal vivo, dove il gruppo esagerava la ridondanza percussiva del gong e dei timpani ed enfatizzava quello stacco netto che trasforma la sinfonia elettronica in canzone hard-rock, facendo del respiro lento dei synth un vero e proprio riff sulla falsariga di Poseidon’s Creation; nelle serate migliori il brano superava i 20 minuti.

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