Frammento #12 Isola di Taiwan - Comando 4° MSIG, Divisione Guerra Psicologica - 27-09-2034
Si Bona Suscepimus De Manu Dei,
Mala Quare Non Suscipiamus?
“E’ latino signor Anderson; una frase della Bibbia. Il Libro di
Giobbe. Non lo conosce? Significa più o meno Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il
male? Una domanda retorica, certo.”
La voce rimbombava nell’ampio corridoio ospedaliero e plastificato.
In realtà avevamo ordine di recarci al comando dal colonnello Berenger.
Una segretaria rugosa con occhiali d’avorio ci ha sibilato che dovevamo prima venire
qui, alla sede operativa della Psyop; poi è strisciata dentro un piccolo
ufficio buio. Così ora io, John e Ray siamo in questa costruzione moderna;
bianco, vetro e acciaio; una tecnologica architettura da futurista fazenda sud
californiana, con tanto di vasca quadrata al centro del patio e alberi di
banane all’interno. Un moderno chiostro di gesuiti bellicosi che smerciano
strategie e propagande dal monastero. Poi finestroni limpidi che affacciano ai
quattro lati. Ci ha accolto una certa Sun-Yo Douprè, sangue misto
franco-giapponese, accento indefinibile, vestita come un’hostess su un volo di
linea per Bali.
“Prego, da questa parte signori, seguitemi”.
Deve essere la segretaria personale di Crowley e magari non solo
quello. Adesso siamo sul primo gradino dell’ampio scalone che porta di sopra, e
sulla volta sta scritta quella frase in latino; com’era..? “Se da Dio accettiamo il bene, perché non
accettiamo anche il male?”
“Cioè, esiste un male necessario. Esiste un Dio col potere, anzi il
dovere, di infliggere dolore, per perseguire i suoi scopi, cercare di farci
crescere, progredire; migliorare. Si può operare il male, ove necessario”.
Le parole scemavano come portate via dal vento, per poi ritornare a
posarsi sulle nostre spalle, nelle orecchie. Ci guardiamo attorno con la bocca
chiusa e gli occhi involontariamente sbarrati; una strana sensazione nello
stomaco; forse l’odore nauseante di diluente per vernice che si respira in
tutto l’edificio.
“Ma perdonatemi; io non mi sono ancora presentato. Mi chiamo Benjamin
Crowley”.
Ma era ovvio; al primo sguardo. Capelli sottili, lisci, scuri,
pettinati sulla fronte come un mite Francescano che avesse frequentato Wall Street
nei rampanti anni ’80. Occhiali piccoli, una barba brizzolata, curata. Nessun
camice; nessuna divisa. Ad alcuni è concesso; Crowley ha l’attitudine di chi
non ha aspettato il benestare di nessuno. Elegante, abito scuro ma informale,
penna nel taschino. Nessuna cravatta. Difficile dargli un’età. Potrebbe avere
cinquant’anni come il doppio, stando alle sue imprese. Pronuncia il none “Benjamin”
alla francese, probabilmente solo per vezzo; Bensciamèn.
“Temo abbiate già sentito parlare di me. In certi reparti pare io sia
l’argomento di discussione preferito tra i curiosi”. Una piccola tensione, labbra tirate.
Garner sta per abbozzare una risposta, non fa in tempo.
“Temo, perché di solito le
chiacchiere sono solo una tremenda aberrazione della realtà, è una cosa a cui
mi sono dovuto abituare, a fatica in realtà”.
Gli camminiamo dietro, attraversando l’ampia hall soleggiata; un
salone dell’Hilton piuttosto che un comando militare. C’è la stessa aria
artificiale degli aeroporti, se non fosse per quel fastidioso sentore di
diluente chimico.
“Certo le vicende iraniane mi hanno lasciato una sovraesposizione
imbarazzante ed indesiderata; non lo nego: ci ho messo del mio” ridendo,
sembrava di gusto.
“E credetemi, quante esagerazioni sono state scritte! Pensare che
tutto partì con il sequestro di un vagone di meth nel New Mexico. Normalmente le sostanze stupefacenti
sequestrate vanno inventariate e subito distrutte, ma… sapete, metanfetamina! Una produzione complessa,
tanti prodotti chimici diversi da assemblare, non senza rischi. Occorre una
manodopera altamente specializzata. Prodotta poi a nord del confine,
probabilmente da liberi cittadini americani. E devo aggiungere che era di una
qualità, come dire, notevole. Niente a che fare con la spazzatura che potete
comprare con 10 dollari a Ensenada o Juarez”.
Il tono della sua voce era come illuminato da una pulsante vena
mistica.
“Il mio ufficio non ha fatto
altro che avanzare una proposta: utilizzarla per impieghi di controspionaggio e
antiterrorismo; al giorno d’oggi la parola antiterrorismo
schiude porte d’ogni tipo. E’ un abracadabra. Potente”. Un latente
compiacimento gli percorre il volto; una melliflua espressione di superiorità auto
inflitta.
“Ma io, sapete, io non do ordini. Non firmo mai nulla, eccetto i fogli
orari di chi lavora in questa struttura. No; voi dovete guardare a me come un
suggeritore, come quel personaggio che sta nella buca sotto il palco e imbecca
gli attori. Io non do ordini.
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