La maestosa spianata di sabbia che avrebbe dovuto precedere la
messa in posa dei binari metallici mitigava l’umida sensazione di penetrare
nella giungla afosa del versante ovest dei Monti Aravalli. La delegazione diplomatica britannica
procedeva in fila indiana in compagnia delle guide locali, seguendo la traccia
dei primi cantieri recintati da maestosi serragli di legno che quasi nascondevano
le cave di ghiaia chiara aperte tra il verde dei pendii boscosi. L’atmosfera
era tiepida ma umidissima, le chiome degli alberi più alti erano avvolte da una
sottile foschia. Sir Brereton ancora parlava come un invasato di quanto quel sottosuolo
fosse ricco di vene auree e di come i lavori per le gallerie sarebbero potuti
essere sfruttati anche da squadre minerarie per attingere a quelle riserve di
preziosi. Sventrare quel continente avrebbe condotto in Inghilterra ricchezze
spropositate, ben di più di quanto la Spagna riuscisse ad ottenere dai suoi
possedimenti oltreoceano o il Belgio dal cuore dell’Africa nera. Come non
bastasse, la rete ferroviaria della penisola sarebbe divenuta la via di
comunicazione più lunga e frequentata del mondo intero: dal 1853 per i
vent’anni seguenti la Corona aveva investito oltre settanta milioni di sterline
nel progetto; erano già stati posati oltre diecimila chilometri di binari e
nelle grandi stazioni di Madras e Calcutta transitavano ogni giorno varie migliaia
di persone.
L’ultimo dei villaggi, ormai non distante, era arroccato alla base
di una tagliente roccia liscia e perfettamente verticale che proteggeva il
versante sud della collina attraverso la quale la linea ferrata avrebbe dovuto
necessariamente passare. Sarebbe servita la dinamite per aprirsi l’ultimo varco
attraverso quella Natura che ora appariva quieta e perfino solenne. Innocente.
Mentre i preparativi per la cerimonia della notte infestavano le genti Maharanas, alcuni musicisti inglesi ospitati da Sir John Brown per tenere un concerto fino alle prime luci dell’alba
stavano già scaricando la loro imponente strumentazione dal retro di un vecchio
camion Bedford MWD. Il palco era montato al centro della piazza del sacrificio,
appena sotto l’ampia tribuna destinata ai sacerdoti. I Black Widow erano una
delle band più promettenti d’Inghilterra, con un sound dal volume tonante eppure
capaci di insospettabili raffinatezze acustiche.
Inaspettatamente anche un altro gruppo di musicisti britannici era
arrivato fino alle remote valli degli Aravalli. Scapigliati e polverosi, erano
in tour in India da oltre cinque mesi, al seguito delle truppe del generale
Richard Douglas e delle squadre di galeotti impiegati come lavoratori lungo la tratta
tra Bombay e Indore. Erano giunti fino a Jaipur via treno, aggrappati sul retro
dell’ultimo vagone del convoglio n° 22357, dopo avere gettato strumentazione ed
amplificatori sull’instabile copertura della carrozza. La grancassa aveva
cominciato a oscillare a Bhopal e appena dopo la stazione di Jhansi era
definitivamente precipitata. Il cantante Adrian Hawkins e il chitarrista Rod
Roach furono sorpresi di ritrovarla nel carro bestiame della corsa seguente,
ripiena di galline in cova.
Assieme al bassista Colin Standring e al batterista Rick Parnell si
sistemarono in un piccolo palco di fortuna dalla parte opposta della
piazza, praticamente nel mezzo dello spiazzo riservato ai fedeli dell’
Asvhameda, proprio di fronte a quello già
illuminato dove avrebbero suonato i Black Widow. Il Principe Viaggiatore moriva
dalla curiosità di sapere che cosa li avesse attirati fino lì e fu sorpreso di
sapere che da anni il gruppo era sulle trace del vero Sacrificio del Cavallo. Il
motivo era semplice quanto perverso: il nome che si erano scelti era Horse e il loro pezzo forte in concerto
era un incalzante e teatrale hard rock dal titolo The Sacrifice. Ora avevano l’occasione di sperimentare le loro
radici e il loro immaginario come mai avrebbero sperato.
Durante il sound-check provarono solo un brano, una tetra canzone
che parlava di rivoluzioni planetarie prossime venture; il cantante mugugnava quasi
nascosto dietro l’amplificatore in una sonnolenta trance che scimmiottava il
primo, timido, Jim Morrison, cosa che gli riusciva con una certa grazia
decadente. Doveva essere lo stesso effetto morboso e suadente che i Doors
ebbero nei loro primi giorni del 1966, al Whisky A Go Go di Los Angeles.
Suonata poi in chiusura del concerto, quella stessa Step out of Line si ricoprì di un fascino grunge che avrebbe
calzato a pennello addosso a un Mark Lanegan o a un Eddie Vedder. “La
rivoluzione è solo una questione di tempo”: a nessuno allora parve una frase
incauta, seppure nel cuore profondo del Deccan le fondamenta dell’ultimo grande
Impero già scricchiolavano.
Sei minuti esatti fra prove e sound-check e gli Horse se ne
ritornarono nella loro tenda canadese a fumare oppio afghano nell’umido della
jungla.
Al loro confronto i Black Widow parevano la London Symphonic
Orchestra. Schierati con sei membri sul palco, avevano un ordinato arsenale di
strumenti disparati: dall’organo Hammond di Zoot Taylor, al flauto traverso e al
saxofono, fino alle cinque diverse chitarre acustiche di Jim Gannon; la
batteria Ludwig del percussionista Romeo Challenger, un set di bonghi e tamburelli di ogni
dimensione; addirittura campane tubolari e vibrafono.
Ossessionati dalla stampa britannica nel banale confronto -
scontro con i Black Sabbath, la band dell’ occultista Jim Gannon era piuttosto
un tipico combo del nuovo rock progressivo che aveva in King Crimson e
Colosseum i propri apripista. Ma il volume a cui suonavano era davvero
esagerato e questo, più ancora dei temi dei loro testi o del loro stesso nome,
li accostò alla Heavy Music di Led Zeppelin e Grand Funk. E se i Black Widow furono
mai un gruppo metal, furono di certo il primo ad allineare una preparatissima “sezione
di fiati”, in realtà il solo eclettico Clive Jones, sempre pronto a rilanciare assoli jazzati e morbidezze da cocktail
lounge. All’epoca incidevano per la CBS e come mai non gravitassero anche loro
in orbita Vertigo resta un mistero.
Il Principe Viaggiatore fu incuriosito dalle citazioni colte che
il cantante tirava in ballo nei pezzi migliori: dalla mitologia egizia e
babilonese, agli Etruschi, un remoto popolo italico dall’alfabeto ancora in
parte indecifrato. Oltre poi alle decine di altri spunti derivati dalla tradizione
ebraica, la demonologia cristiana e il perenne Aleister Crowley. Il culmine del
loro spettacolo era l’evocazione del demone Astaroth, garanduca e tesoriere
degli Inferi, figura derivata da un’antica e dimenticata divinità fenicia. Un rito,
il loro, più profondo e di maggiore spessore musicale rispetto a quanto stavano
facendo in America i Coven: un trio post-fricchettone che inscenava il
sacrificio della cantante nuda sul palco. Tuttavia questi continui riferimenti
all’occulto, alla demonologia medievale e alla Morte stavano procurando non
pochi guai al gruppo che, stretto fra la censura bacchettona ed un’immagine
pubblica non corrispondente al reale sentimento dei musicisti, si stava
sfaldando. Mick Box, il primo batterista, se ne era andato dopo il primo LP, Sacrifice, e anche Clive Jones era
ormai stanco di passare per sacerdote dell’occulto, ma il leader Jim Gannon,
autore dell’album d’esordio, e anche Kip, il cantante, anima romantica della
band, ritenevano giusto sfruttare quella nomea sul mercato discografico e
presso la stampa specializzata. Erano da un po’ in tour con il loro secondo LP,
Black Widow, che in effetti cercava
di mitigare l’assalto demoniaco delle canzoni che li avevano resi famosi. Ma la
cosa non funzionava: ogni volta che attaccavano con The Gypsy o Tears and Wine
il pubblico rumoreggiava invocando Come
to the Sabbath o Sacrifice dal
primo album. Il Principe Viaggiatore aveva avuto proprio l’anno prima una copia
di quel LP per le mani e se ne ricordava soprattutto
per il design: una copertina che sembrava dipinta da Bosh e, nella pagina
interna, disegni di inferni danteschi come fossero enormi murales sul marmo
bianco di qualche tempio. Un concept del genere lasciava poco spazio alle travisazioni
e anche per questo il gruppo era stato sommerso dalla sua stessa tetra fama. Ma
quella sera i musicisti parevano in forma: l’aria tropicale e la lontananza da
casa accentuava un certo senso di stordimento dovuto forse al tabacco locale.
Problemi simili mancavano a Hawkins e Roach che di immagine
pubblica non ne avevano nessuna. Quella sera si presentarono come Horse con l’aggiunta di una ballerina
austriaca dai lunghi capelli lisci in stile principessa hippy di San Francisco:
si faceva chiamare Aletta. Con lei danzante tra gli amplificatori potevano
essere tanto una versione grunge degli Amon Duul II di Phallus Dei quanto l’alter-ego
terreno degli Hawkwind. In Inghilterra avevano appena inciso un album omonimo per la RCA. Sulla copertina
un mostruoso cavallo alato nero su sfondo viola che sembrava disegnato dalla
stessa mano che aveva illustrato First Utterance dei Comus: un Pegaso
plutoniano e minaccioso che stabiliva già in partenza le coordinate giuste per
l’ascolto. Poi qualche serata in centro-Europa, buoni concerti in Germania.
Nulla però riusciva a sradicarli da quell’underground britannico destinato a
rimanere la maggiore miniera di piccoli misconosciuti capolavori e rarissimi
pezzi da collezione: Andromeda, Quatermass, Atomic Rooster, Leaf Houd. E Horse.
Sacrifice era un Hard-Rock prepotente con un riff ostinato, semplice, quasi
minimalista e assoli ultra-elettrici da quadriglia
medioevale. Hawkins ci cantava in mezzo biascicando le parole con l’ululato di
un licantropo come il Phil May dei bei tempi. Per il resto il forte del gruppo stava
nel saper mescolare alla perfezione i più evidenti cliché hard con pirotecniche
schitarrate psichedeliche fitte di echi della Bay-Area: potevano essere i Led
Zeppelin con Kaukonen alla solista.
Lo show che tennero appena dopo l’esposizione dell’enorme e rossastra
carcassa del cavallo sacro sarebbe stato elettrizzante.
IMMAGINI
Fonderia - Jamalpur
Railway Workshops, India – 1897
Coven –
Witchcraft (1969)
Black Widow
– Sacrifice (1970) Illustrazione dalla busta interna
Horse – Horse
(1970)
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