mercoledì 20 giugno 2012

PAGANESIMI ELETTRICI - Astaroth al funerale del Cavallo - Pt.3


Nel frattempo, mentre l’ Asvhameda entrava nella parte più rituale e complessa e i dignitari britannici erano spariti dentro una tenda per negoziare con gli anziani del villaggio, sul palco principale i Black Widow proponevano il loro esoterico mix di progressive, jazz-bianco e rabbia metallica. Memori dei Colosseum più che dei Sabbath, non disdegnando certo folk acustico da Incredible String Band o Pentangle, stupirono con la bella Come To The Sabbath, un semplice saltarello acustico solare e rilassato, nonostante il titolo e l’invocazione ad Astaroth, che in una notte di furore sacrificale come quella finì addirittura per alleviare la tensione: un’ingenua e piacevole voglia di Diavolo. La mistica Conjuration poi, introdotta da una fanfara solenne e composta, adoperava tastiere e mellotron per sostenere Kip Trever in un canto che era più una recitazione che una vera melodia vocale. Il ritmo di marcia della batteria conferiva al tutto il brano il sentore quasi militaresco di armate sotterranee in marcia verso la luce. Il Principe Viaggiatore non potè fare a meno di leggere tra le righe riferimenti svariati al mistico e pazzoide Graham Bond degli ultimi anni.


Mentre la band di Leicester si concedeva addirittura una parentesi romantica con Seduction, che scimmiottava tanto i Moody Blues più deteriori quanto gli amorosi dei Carmina Burana, con tanto di assolo alla Fausto Papetti, dall’altra parte della piazza, sul palco degli Horse, regnava l’isteria più pura. Adrian Hawkins si era gettato in mezzo alla folla e cercava di cantare Freedom Rider sdraiato sulle teste del pubblico sbigottito; la canzone era una ballata Hard Rock da Hells Angels ubriachi che risplendeva in un chorus cristallino e lanciato a tutta velocità giù per le curve di Lombard Street, interrotto solo da un lungo interludio di Roach che spingeva sul pedale con la foga di un camionista fatto di meth: Heavy Metal in Haight-Ashbury. Era la prima volta che il Principe Viaggiatore sentiva una fusione così profonda e intima di Acid Rock, nel timbro, e Heavy Metal, nella struttura dei brani. Lost Control poteva essere un out-take dei Creem finito per sbaglio su Electric Ladyland.
Quel climax musicale trovò la sua giusta controparte nel rito che sacerdoti e donne sacre stavano officiando al centro della piazza: quando il sangue nero dello stallone schizzò copioso sul pubblico fu salutato da un isterico coro di grida festanti ed applausi: si rinnovava la promessa di fertilità dei campi e delle giovani ragazze avviate a maturità. I villaggi sarebbero stati fecondi e i raccolti assicurati. Si perpetuava una credenza antichissima, discesa dalle enormi pianure del Nord-Est, dai clan Afghani, che identificavano il cavallo con il Re-Sole, il cui sacrificio rituale e la rinascita dopo tre giorni di buio perpetuava l’allegoria paleartica del solstizio d’Inverno e garantivano ai guerrieri una guida forte e vigorosa laddove l’antenato non poteva più tenere il bastone del comando.


Quel sangue ancora pulsante sui volti dei credenti era la garanzia della ciclicità degli eventi.
Nel momento di massima eccitazione collettiva i Black Widow attaccarono Sacrifice, il loro brano supremo, cavallo di battaglia e pezzo forte di ogni concerto già da un paio d’anni. Era una riff sincopato e semplicissimo, come la linea di basso di Roger Glover in Black Night: poteva durare millenni, reiterando la sua tenace percussività. Jones, Gannon e Taylor lo estendevano a piacimento inserendovi assoli progressivi di flauto, liquidità chitarristiche assortite e notturni di tastiere. Continuarono così per oltre un’ora.
In quello stesso tempo gli Horse potevano sciorinare tutto il loro repertorio più qualche cover degli Yardbirds e degli Stones. Il loro pezzo mistico, The Journey, cantato da Roach, era un pomposo salmo pseudo-ebraico che si concedeva al flauto sintetico di Stairway to Heaven prima di degenerare in un gospel call and reponse che filava liscio grazie alle stratificazioni inestricabili e caotiche di chitarre elettriche duellanti come in uno spaghetti-western di terza generazione. Ancora più bizzarro fu il valzer di dubbio gusto in Heat of the Summer, riabilitato da una coda virulenta e ipercinetica fatta di suoni filtrati e semi-elettronici e dal canto appassionato ed esagerato di Hawkins. Mentre Clive Jones ancora insisteva con deliri à la Ian Anderson, Rod Roach spandeva lo scurissimo sound funkadelico di Gypsy Queen in una palude di wha-wha e prelibate distorsioni californiane; poi To Greet the Sun, l’inno rabbioso al Sole di zeppeliniano volume e languori che potevano ben stare sugli ultimi Iron Butterfly e ancor meglio su Captain Beyond. In fine la definitiva, già leggendaria Step Out of Line.
Con la Luna pallida, alta e ubriaca nel cielo, la notte aveva portato un brivido freddo e nebbioso nella piazza. Quando l’isteria religiosa diminuì e le grida dei fedeli sembrarono placarsi i Black Widow andarono in profondità nel loro personale Necronomicon con In Ancient Days, una lunga pièce dark progressive imbastardata coi primi Van Der Graaf, aperta da un Organo Alto à la Vanilla Fudge e sostenuta nella strofa da un rotondo riff di basso. A seguire Attack Of The Demon, brano che vantava il chorus più accattivante ed elegante del gruppo.
Dal canto loro gli Horse, staccati ormai gli amplificatori, si cimentarono in unplugged con And I Have Loved You: una serenata rinascimentale da notte di mezz’ estate con una raffinata linea melodica di chitarra e tutta un’ atmosfera di rarefatta magia. L’ultimo bis fu per See the People Creeping Round, ennesima variazione metallica dei Jefferson Airplane alla corte di Re Artù: vi si gettarono a capofitto come abbandonati su montagne russe senza freni. Alla fine del brano il silenzio echeggiava polveroso nel villaggio deserto.


IMMAGINI

Black Widow – Sacrifice (1970)
Graham Bond – Holy Magik (1970)

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