Nel frattempo, mentre l’ Asvhameda entrava nella parte più rituale e
complessa e i dignitari britannici erano spariti dentro una tenda per negoziare
con gli anziani del villaggio, sul palco principale
i Black Widow proponevano il loro esoterico mix di progressive, jazz-bianco e rabbia
metallica. Memori dei Colosseum più che dei Sabbath, non disdegnando certo folk
acustico da Incredible String Band o Pentangle, stupirono con la bella Come To The Sabbath, un semplice saltarello
acustico solare e rilassato, nonostante il titolo e l’invocazione ad Astaroth,
che in una notte di furore sacrificale come quella finì addirittura per
alleviare la tensione: un’ingenua e piacevole voglia di Diavolo. La mistica Conjuration poi, introdotta da una
fanfara solenne e composta, adoperava tastiere e mellotron per sostenere Kip
Trever in un canto che era più una recitazione che una vera melodia vocale. Il
ritmo di marcia della batteria conferiva al tutto il brano il sentore quasi
militaresco di armate sotterranee in marcia verso la luce. Il Principe
Viaggiatore non potè fare a meno di leggere tra le righe riferimenti svariati
al mistico e pazzoide Graham Bond degli ultimi anni.
Mentre la band di Leicester si concedeva addirittura una parentesi
romantica con Seduction, che
scimmiottava tanto i Moody Blues più deteriori quanto gli amorosi dei Carmina
Burana, con tanto di assolo alla Fausto Papetti, dall’altra parte della piazza,
sul palco degli Horse, regnava l’isteria più pura. Adrian Hawkins si era
gettato in mezzo alla folla e cercava di cantare Freedom Rider sdraiato sulle teste del pubblico sbigottito; la
canzone era una ballata Hard Rock da Hells Angels ubriachi che risplendeva in
un chorus cristallino e lanciato a
tutta velocità giù per le curve di Lombard Street, interrotto solo da un lungo
interludio di Roach che spingeva sul pedale con la foga di un camionista fatto
di meth: Heavy Metal in Haight-Ashbury.
Era la prima volta che il Principe Viaggiatore sentiva una fusione così
profonda e intima di Acid Rock, nel timbro, e Heavy Metal, nella struttura dei brani.
Lost Control poteva essere un out-take
dei Creem finito per sbaglio su Electric Ladyland.
Quel climax musicale trovò la sua giusta controparte nel rito che
sacerdoti e donne sacre stavano officiando al centro della piazza: quando il
sangue nero dello stallone schizzò copioso sul pubblico fu salutato da un isterico
coro di grida festanti ed applausi: si rinnovava la promessa di fertilità dei
campi e delle giovani ragazze avviate a maturità. I villaggi sarebbero stati
fecondi e i raccolti assicurati. Si perpetuava una credenza antichissima,
discesa dalle enormi pianure del Nord-Est, dai clan Afghani, che identificavano
il cavallo con il Re-Sole, il cui sacrificio rituale e la rinascita dopo tre
giorni di buio perpetuava l’allegoria paleartica del solstizio d’Inverno e
garantivano ai guerrieri una guida forte e vigorosa laddove l’antenato non
poteva più tenere il bastone del comando.
Quel sangue ancora pulsante sui volti dei credenti era la garanzia
della ciclicità degli eventi.
Nel momento di massima eccitazione collettiva i Black Widow
attaccarono Sacrifice, il loro brano
supremo, cavallo di battaglia e pezzo forte di ogni concerto già da un paio
d’anni. Era una riff sincopato e semplicissimo, come la linea di basso di Roger
Glover in Black Night: poteva durare millenni, reiterando la sua tenace
percussività. Jones, Gannon e Taylor lo estendevano
a piacimento inserendovi assoli progressivi di flauto, liquidità chitarristiche
assortite e notturni di tastiere. Continuarono così per oltre un’ora.
In quello stesso tempo gli Horse potevano sciorinare tutto il loro
repertorio più qualche cover degli Yardbirds e degli Stones. Il loro pezzo
mistico, The Journey, cantato da
Roach, era un pomposo salmo pseudo-ebraico che si concedeva al flauto sintetico
di Stairway to Heaven prima di degenerare in un gospel call and reponse che filava liscio grazie alle stratificazioni
inestricabili e caotiche di chitarre elettriche duellanti come in uno
spaghetti-western di terza generazione. Ancora più bizzarro fu il valzer di
dubbio gusto in Heat of the Summer,
riabilitato da una coda virulenta e ipercinetica fatta di suoni filtrati e
semi-elettronici e dal canto appassionato ed esagerato di Hawkins. Mentre Clive
Jones ancora insisteva con deliri à la
Ian Anderson, Rod Roach spandeva lo scurissimo sound funkadelico di Gypsy Queen in una palude di wha-wha e
prelibate distorsioni californiane; poi To
Greet the Sun, l’inno rabbioso al Sole di zeppeliniano volume e languori
che potevano ben stare sugli ultimi Iron Butterfly e ancor meglio su Captain
Beyond. In fine la definitiva, già leggendaria Step Out of Line.
Con la Luna pallida, alta e ubriaca nel cielo, la notte aveva
portato un brivido freddo e nebbioso nella piazza. Quando l’isteria religiosa
diminuì e le grida dei fedeli sembrarono placarsi i Black Widow andarono in
profondità nel loro personale Necronomicon con In Ancient Days, una lunga pièce
dark progressive imbastardata coi primi Van Der Graaf, aperta da un Organo Alto
à la Vanilla Fudge e sostenuta nella strofa da un rotondo
riff di basso. A seguire Attack Of The
Demon, brano che vantava il
chorus più accattivante ed elegante del gruppo.
Dal canto loro gli Horse, staccati ormai gli amplificatori, si
cimentarono in unplugged con And I Have
Loved You: una serenata rinascimentale da notte di mezz’ estate con una
raffinata linea melodica di chitarra e tutta un’ atmosfera di rarefatta magia.
L’ultimo bis fu per See the People
Creeping Round, ennesima variazione metallica dei Jefferson Airplane alla
corte di Re Artù: vi si gettarono a capofitto come abbandonati su montagne
russe senza freni. Alla fine del brano il silenzio echeggiava polveroso nel
villaggio deserto.
IMMAGINI
Black Widow – Sacrifice (1970)
Graham Bond – Holy Magik (1970)
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