lunedì 30 gennaio 2012

Fuoriorario – Redgum, frustrazioni ai confini dell’Impero



Per completare la minuscola antologia dei Redgum, dopo I Was Only 19, altri due brani dalla misconosciuta band di Shumann.
One More Boring Night In Adelaide, aperta da un flauto che potrebbe essere Grace Slik all’alba di una nuova Estate dell’Amore mai sbocciata, è insistente nel refrain, scorbutica e a tratti depressa, pervasa da una foschia sottile di malinconia e rimpianto mai risolti. Forse il miglior brano del gruppo, così sospeso fra speranza e frustrazione, fra folk impegnato e noia post-adolescenziale alla periferia del Regno.
Poor Ned è una ballata irlandese con flauti e fiddle, nella migliore tradizione della canzone di protesta stile 1963. Omaggio a Ned Kelly fuorilegge, ribelle e paladino dei dissidenti dell’Impero Britannico in quel di Victoria (Australia) alla fine del XIX secolo. Catturato dopo una furibonda sparatoria in cui morirono (eroicamente?) i tre compagni del suo mucchio selvaggio, fu impiccato il giorno 11 novembre 1880 all'età di 25 anni. Già protagonista di numerose canzoni, da Johnny Cash a Waylon Jennings, fu portato sul grande schermo addirittura da Mick Jagger prima e da Heath Ledger poi, a testimonianza di quanto ancora sia popolare la figura romantica del fuorilegge gentiluomo.
I Redgum, riesumando un vecchio pezzo del conterraneo Trevor Lucas coi Fairport, ne fanno un brano assolutamente contagioso, spumeggiante ed agrodolce allo stesso tempo, irrobustito da un clamoroso accento Aussie e cantato in prima persona. Se la versione di studio è pulita, ritmata e professionale, quella live è assolutamente irresistibile, con quel cinguettare allegro di flauti celtici che contrasta meravigliosamente con le tragiche vicende del giovane Ned.

domenica 29 gennaio 2012

Prossimamente sul Blog - Febbraio 2012


Mentre vanno concludendosi le avventure veneziane del Principe Viaggiatore, restano ancora un paio di aspetti della Rapidità da esaminare, in particolare modo il rapporto tra il Tempo e la musica popolare. Esauriti questi aspetti sarà tempo di inaugurare una nuova categoria: l'Esattezza. Come essa si concili con la giovanile sregolatezza del Rock sarà una delle asse portanti di tutta la "Rilettura".
Tornano poi le gallerie di "Musica Per Immagini, Immagini Per La Musica" con una monografia sul pittore astrattista contemporaneo Don Van Vliet, meglio conosciuto in ambito musicale come Captain Beefheart. In più, come filo conduttore sotteso a molte delle prossime uscite: i Rolling Stones. Un po' di mitologia nascosta della più grande Rock n' Roll Band del mondo in tutto il suo splendore.

Stay Tuned!

Ornette Coleman – The Circle With A Hole In The Middle

venerdì 27 gennaio 2012

Tarbox Ramblers: New Coffeehouse sound




La  musica dei Tarbox Ramblers fuoriesce da una vecchia valigia di cartone legata con uno spago e gettata al volo sul retro di un vagone merci che attraversa le Grandi Pianure in una giornata d’inizio inverno. Impolverata e appena colorata da un effetto seppia d’inizio secolo, dalla slide di Michael Tarbox trasuda molto fatalismo da Grande Depressione e una cascata di blues pre-bellico rigoroso eppure accattivante, suonato con piglio e volume moderni, impreziosito dal fiddle di Daniel Kellar e da una sezione ritmica agilissima e mai invadente. Un gruppo che aggiorna il repertorio del circuito delle coffee house universitarie che fu di Josh White, Blues Project e Big Boy Crudup, pescando in quell’enorme ed inesplorato territorio che va dalle piantagioni del Mississippi agli Appalachi, in equilibrio tra bluegrass, Piedmont Blues e Folk.
Pieno di traditional, senza farsi mancare momenti divertenti e ballabili (Jack of Diamonds, Honey in the Rock, Columbus Stockade), questi vagabondi dell’Est danno il meglio di sè quando il modo diventa minore e la slide attacca il jack e alza il volume per tessere una trama di “blue note” rinforzata dalla voce profonda del leader: Third Jinx Blues, No Harm Blues (un treno in corsa) e lo standard Shake 'Em on Down del nume tutelare Bukka Withe sono un mazzo di foto in bianco e nero che riescono a mantenere tutta la tradizione degli anni ‘30 e assieme un fragore e un ritmo addirittura rock, nello stile di John Campbell. Fra tanta bella roba una piccola menzione all’arcaica e ipnotica The Cuckoo, strisciante come un rettile nella sabbia,  che continua a ronzare in testa anche quando tutto il disco è finito da un pezzo. 




mercoledì 25 gennaio 2012

Riletture Americane - La Rapidità - parte 4


“Categorie calviniane” applicate alla Popular Music - La Rapidità - Pt. 4



Come già ricordato, né Ramones, né Stooges, né la maggior parte dei gruppi Punk potevano considerarsi virtuosi dei propri strumenti.
La connessione tra virtuosismo strumentale e velocità d’esecuzione è sempre piuttosto stretta in molta musica occidentale, dai gorgheggi dei castrati, ai capricci di Paganini fino agli assoli del be-bop.
La musica popolare ha spesso riservato un posto di riguardo al virtuoso, all’improvvisatore, al guitar-hero del momento, riscoprendo in parte l’importanza che l’abbellimento, il gorgheggio, la variazione, la parte “di bravura”, avevano avuto nella musica barocca che il Romanticismo aveva disprezzato e sepolto per diverso tempo. Furono forse i grandi improvvisatori jazz a riscoprire il gusto del virtuosismo non fine a sé stesso. Primo e forse ancora insuperato Charlie Parker, che può a ben diritto essere considerato uno dei maggiori strumentisti del secolo scorso non solo in ambito jazzistico. Brani di 3-4 minuti, assoli brevi ma con quantità torrenziali di note, dinamiche irregolari e variazioni armoniche eccezionali: una musica pensata, “scritta” ed eseguita nello stesso istante, un prodigio di velocità di pensiero ancor prima che di dita.

Quando il Rock, a metà degli anni ’60, arrivò a piena maturità, trovò un posto per i grandi virtuosi, ahimè spesso totalmente autoreferenziali; non tutti facevano della velocità il loro cavallo di battaglia, ma una scala diatonica eseguita ai 100 all’ora è pur sempre d’impatto. Rick Wakeman, tra i tastieristi del Prog, fu quello che più di altri riscoprì un certo gusto neoclassico e barocco per il suo organo. Il suo ingresso negli Yes, da Roundabout in poi, coincise con periodo d’oro del gruppo, che venne arricchito dei mille colori strumentali e dalla perizia tecnica del tastierista: la sinergia con un altro mostro di abilità come Chris Squire diede alla band una dinamismo ed una propulsione uniche, anche in brani di complicata struttura. La sua parte solista in Seasons of Man, quarto movimento di “Close To The Edge” resta uno dei vertici del Progressive d’epoca.
Tra i chitarristi, i primi a destreggiarsi con staccato fulminanti, quasi sulle tracce del “Volo del Calabrone”, furono i solisti del surf: Dick Dale ne faceva un suo marchio di fabbrica e anche il grande Nokie Edwards dei Ventures era capace di accelerazioni micidiali.

lunedì 23 gennaio 2012

domenica 22 gennaio 2012

PAGANESIMI ELETTRICI - Il Naufragio di Atlantide - Pt. 3


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La barca faceva ora rotta verso la Fusina dove era agevole l’accesso alle foci della Brenta Vecchia, ultime ramificazioni naturali dell’antico corso fluviale da cui era possibile inoltrarsi nell’entroterra veneto. In una rete fittissima di cavi, scoli, meandri morti e canali, tanto intricati da avere richiesto in passato la consulenza tecnica di Leonardo, la bragagna infilò il Naviglio di Brenta, che portava dritto verso Padova.

Ocean è diviso con regolarità quasi simmetrica in 4 parti, due canzoni per lato: due suite enormi e due pezzi più brevi, in uno schema rigoroso ABBA.

Poseidon’s Creation, il brano d’apertura è un’intricata vicenda cosmogonica che attinge a piene mani da un’ apocrifa religione Olimpica passata al vaglio di Platone e Campanella ma illustrata come fosse un fumetto di fantascienza, o qualche vecchio B-movie: Clash of the Titans in musica.
La storia di un tempo remoto in cui i figli degli dei camminavano sulla terra. Poseidone, divinità degli oceani e dei terremoti, regnava sull’isola di Atlantide, una sorta di Eden incontaminato che il Dio popolò con i figli avuti da Kleito. Qui, in pace e distante armonia, protetti da una muraglia dorata e da una legge suprema, condussero una vita di perfezione e felicità.
Il brano inizia con un crescendo strumentale come i Pink Floyd di Meddle fino ad assestarsi su un semplice riff da barcarola con l’ organo rinforzato dalla chitarra, un suono che potrebbe stare tanto su Vanilla Fudge quanto su Machine Head: è contagioso, ritmico; molto rock. Dopo la lunga recita di Borenmann che sfoggia un accento teutonico imbarazzante, è il basso che con una linea intricata e piena di staccato segna l’inizio di una nuova sezione strumentale: il chitarrista, sul proscenio, sfodera un lungo assolo fluido e striato di arabeschi mediorientali e arabeggianti, che disegnano glifi contorti sulla ritmica e sul tenue ma ampio sottofondo delle tastiere. Il tutto approda nel mezzo di uno stormo di gabbiani meccanici migranti nello spazio, verso nebulose punteggiate da oceani freddi; la chitarra geme languidamente, si intreccia con la sua stessa eco su di un fondo di voice synth ponderoso e orbitante. Una banalizzazione di un certo modo di suonare alla Gilmour, forse. Ma l’effetto nel suo complesso è notevole.
Già da qui si delinea l’ampiezza dell’architettura musicale di un album che risuona come nell’abside di una cattedrale neoclassica dai candidi stucchi rifiniti con striature dorate. Il suono pulito e levigato come un marmo, i molteplici livelli di tastiere adornano una concezione semplice, ripetitiva come un salmo.

Intanto la barca aveva attraversato l’antico borgo fluviale di Mira, che dal medioevo controllava gli accessi al padovano. Le campagne dintorno odoravano ancora di alghe e sale e folti stormi di gabbiani si appollaiavano chiassosi sui rami bassi dei salici grigi.

sabato 21 gennaio 2012

Emerson, Lake & Palmer - Sukrat - 1971


Emerson, Lake & Palmer
1971-06-20

Sukrat
Royal Theatre Drury Lane, London,UK 

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venerdì 20 gennaio 2012

1983: il Metal nell’ Era Hyboriana




Know, O prince, that between the years when the oceans drank Atlantis and the gleaming cities, and the years of the rise of the sons of Aryas, there was an Age undreamed of, when shining kingdoms lay spread across the world like blue mantles beneath the stars ... Hither came Conan, the Cimmerian, black-haired, sullen-eyed, sword in hand, a thief, a reaver, a slayer, with gigantic melancholies and gigantic mirth, to tread the jeweled thrones of the Earth under his sandaled feet." –
The Nemedian Chronicles  From: http://hyboria.xoth.net/history/hyborian_age.htm


Ebbene, tra la scomparsa del Punk dalle classifiche e la nascita dei figli di MTV, vi fu un tempo in cui il Metal scoprì le saghe di Robert Ervin Howard, i fumetti della Marvel, i libri D&D e stabilì un nuovo orizzonte culturale per i teenager maschi: il Fantasy.
Correva l’anno 1983 e, per una di quelle fortunate coincidenze che rendono le storie interessanti, due gruppi, nel loro genere, mitici, Dio e Manowar, davano alle stampe due canzoni-manifesto: Holy Diver e Gloves of Metal. Ma, caso ancora più improbabile, entrambi i pezzi furono accompagnati da video fenomenali tanto da fare impallidire qualunque Ed Wood. Primi e insuperati esempi di B-Clip nella storia del Rock e clamorosa testimonianza di un Hero Quest casereccio come neanche lo fu Maciste alla Corte del Gran Khan. E per fortuna che le canzoni sono niente male!
Holy Diver: spadoni di plastica, colonne in polistirolo e demoni porporati: Ronnie procede imperterrito tra alberi spogli e vulcani in eruzione verso il Tempio del Nemico. Erano, dopotutto, gli anni della Storia Infinita e soprattutto di “The Princess Bride” il film che mise una parola definitiva sulla prima generazione del fantasy cinematografico.
Gloves of Metal: Moon Boot ricoperti di pelo sintetico, mazze ferrate come piovesse e ratto delle Sabine con annessa battaglia all’arma bianca in cui Ross the Boss, Joey DeMaio e il grande heldentenor Eric Adams  ce la mettono tutta a fracassare crani e tagliare arti ai nemici. La cover dell’album Into the Glory Ride già la dice lunga…
Due video da godersi con tanto di popcorn e coca-cola. Buona visione!
P.S.: Reagan ringrazia.

giovedì 19 gennaio 2012

Eddie Hazel - Discography and Playlist



EDDIE HAZEL - DISCOGRAFIA CONSIGLIATA

Funkadelic – Free Your Mind...And Your Ass Will Follow (Westbound, 1970)



Funkadelic – Maggot Brain (Westbound, 1970)


Funkadelic –  Standing on the Verge of Getting It On (Westbound, 1974)

martedì 17 gennaio 2012

Riletture Americane - La Rapidità - parte 3


“Categorie calviniane” applicate alla Popular Music - La Rapidità - Pt. 3



Il tutto avvenne troppo rapidamente perché qualcuno potesse rendersi conto di chi fosse in realtà John Simon Ritchie. Anzi, questa è anche una chiave di lettura di buona parte del movimento punk: le vicende pubbliche e private, la musica, i personaggi, passavano così velocemente che, tanto lo spettatore quanto il critico o il promoter, non riuscirono mai a comprendere a fondo ciò che stava succedendo. Quando qualcuno cominciò a domandarsi se quella fosse vera musica o solo una trovata pubblicitaria da reality-show, il punk stesso era già scomparso e la più pacifica e borghesuccia New Wave, con le sue camicie chiare e le cravatte strette, era accorsa a calmare le acque. In realtà di musica buona ce ne fu parecchia, pur se nascosta sotto un mucchio di propaganda giovanilistica.
Un'altra vicenda umana consumatasi veloce come la luce di un fiammifero fu quella di Darby Crash, morto per overdose a soli 22 anni, il cui gruppo, i Germs, nella sua breve esistenza, fece a tempo ad incidere un solo importante album, GI, nel 1979. Pur lontano dalle charts e ad anni luce dal main-stream, Darby riuscì a trapiantare il germe del più puro  punk anglosassone nell’assolata west-coast: il suo impatto fu deflagrante tanto che a distanza di qualche anno L.A. diventerà patria di una delle più coinvolgenti scene hardcore d’America mentre la California è ancora oggi con Offsprings, Green Day e Blink 182 la sovrana del punk-rock più commerciale.
GI è un collage di pezzi brevissimi e suonati come fossero in una centrifuga: velocità spaventosa, parole che si accavallano l’un l’altra come rigurgitate da uno stomaco insofferente alla vita sociale.

Quando Darby Crash muore a Los Angeles sul pavimento sotto quel cartello, è il 7 dicembre 1980.
Il giorno dopo è l’8 dicembre. A New York, davanti alI’ ingresso del Dakota Building, un tale che si chiama Mark David Chapman ammazza John Lennon sparandogli quattro colpi nella schiena.
Sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo ci finisce quel]’altro, l’ex cantante e chitarrista dei Beatles.
(Carlo Lucarelli – La Faccia Nascosta della Luna)

domenica 15 gennaio 2012

Redgum - I Was Only 19 (A Walk In The Light Green)



Among the groups that have traveled the wastelands of post-'70s rock totally unrelated to their time, the Redgum are undoubtedly the most out time of all. It was the early eighties when they still were going around with Afghan coat, jeans bell-bottom-style and beards like the Band period Big Pink. Escaped from the Village who roamed the southern plains, around Adelaide, playing acoustic guitars, mandolins, flutes, and fiddle in Celtic sauce. Flutes! Sheer madness ... not that, behind that beard, Schumann was a true songwriter, a little 'outlaw a little' off-course sociology student, able to write one of the most engaging songs about Vietnam: I Was Only 19. And only 10 years late. But perhaps in this  long latency is the beauty of a piece that does not come detached from the experience, but from the author’s chats with some Australian veterans of that dirty and nasty war.


From here a technical vocabulary so extensive, precise and refined that it seems written by a drill sergeant in Cangura, at least partially mitigating the rhetoric so dull and common songs like that.
Told in first person as you would a veteran on the psychiatrist's couch, it proceeds with powerful and synthetic images like walking through the "green light" that, on the maps,  showed the discovered prairies in which the ambush was easy for Charlie, where every step could be the last on your legs, where the only way to stay involved in life was to think of something else.
Where the drama becomes more acute, but more obvious, Schumann gets hold of the more evocative line of the entire song.
And even that “I was only nineteen”, who at first seems the usual platitudes of circumstance, becomes more meaningful and more weight each repetition, until it becomes really unbearable after the row of question that is not found, and there are still , a real answers.
You do not listen it in Forrest Gump or in Platoon; definitely not on TV. But it's a great piece of “news of war”, to read, listen and do not forget.



Fra i gruppi che hanno percorso le terre desolate del Rock post ‘70 totalmente estranei al loro tempo, i Redgum sono senz’altro i più fuori orario fra tutti. Erano i primi anni Ottanta quando loro ancora se ne andavano in giro con cappottoni afgani, jeans a zampa e barbe incolte in stile the Band periodo Big Pink. Dei fuoriusciti dal Village che vagavano per le lande australi, in quel di Adelaide, suonando chitarre acustiche, mandolini, fiddle in salsa celtica e flauti. Flauti! Roba da denuncia … Se non che dietro a quella barba ispida di Schumann stava un vero songwriter, un po’ outlaw un po’ studente di sociologia fuori corso, in grado di scrivere una delle più coinvolgenti canzoni sul Vietnam di sempre: I Was Only 19. E con solo 10 anni di ritardo. Ma magari proprio in questa lunga latenza sta il bello di un pezzo che non nasce avulso dall’esperienza, bensì dalle chiacchierate dell’autore con alcuni veterani australiani di quella guerra sporca e cattiva.
Da qui un vocabolario tecnico talmente ampio, preciso e ricercato da sembrare scritto da un sergente istruttore a Cangura, tale da mitigare almeno in parte quella retorica così melensa e comune in brani di questo genere.

sabato 14 gennaio 2012

AC/DC - Fly On Tour - Austin - 1985




AC/DC
October 11, 1985

Fly On Tour
Austin, TX

Prowler Records - 2001
Soundboard Recording

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venerdì 13 gennaio 2012

Eddie Hazel - I once had a life…n° 3


A oltre sessant’anni dalla sua nascita, la storia dell’unico solista afroamericano che poteva rivaleggiare con Hendrix; Eddie Hazel, figura mitologica della chitarra elettrica, è oggi un eroe dimenticato di un tempo eroico per la Black-Music.



Nel 1977 la nuova svolta: è il momento del primo ed unico album solista, prodotto da Clinton con l’aiuto della sterminata truppa dei redivivi Parliament, tra cui i vecchi amici Nelson e Worrel.  Hazel raccoglie materiale sufficiente per almeno 3 LP: quello che ne esce è “Game, Dames and Guitar Thangs” (Warner Brothers, 1977) un tour de force strumentale su è giù per il manico della Fender. Sulle solidissime basi funky dei vecchi colleghi, il chitarrista dispiega tutti gli sterminati colori e distorsioni della sua Stratocaster. Se il songwriting non è sempre a fuoco, gli estesi assoli sono fantasiosi, personali e soprattutto mai trite imitazioni di “Maggot Brain”. L’ispirazione è in parte ripulita dalla ruvidità dell’ hard e del funk; Hendrix è sempre il Nume, ma non più l’Hendrix di “Izabella” o della “Band of Gypsys”, piuttosto quello rilassato e morbido di “Little Wing” e “Waterfall”; da qui Hazel si avvicina anche ai territori quasi jazzati dell’ultimo Peter Green o del Jeff Beck di Blow by Blow.
Se non che, Eddie è rimasto un solista puro, un virtuoso dell’assolo che necessita di produzione “autoritaria” e di strutture armoniche scritte per supportare i suoi voli; nell’album si avverte che il solista si getta senza rete e i brani girano perpetui attorno a figure ultrafunky a volte mancanti di sviluppo coerente. Un senso di “precarietà” che però giova a dare ulteriore risalto alla straordinaria tecnica del protagonista. Dai ricami di “Frantic Moment” al funk-blues di “So Goes The Story”, “Game, Dames and Guitar Thangs” è uno dei grandi guitar-album dimenticati degli anni ’70, degno di stare alla pari dei lavori dei tanti discepoli di Hendrix sparsi per il mondo da Robin Trower a Ritchie Blackmore a Frank Marino.
Ma fu anche, ahimè, un unicum; emarginato di nuovo nei P-Funk, che ormai allineavano una line-up sterminata necessaria al loro circo live, Hazel non seppe riciclarsi come band leader, né tanto meno come artista solista. La copertina, in pieno stile P-Funk, indulgeva ancora in iconografie da pellicola di Gordon Parks, con il musicista in vesti sgargianti che imbraccia la chitarra come fosse un fucile; ma l’album era arrivato fuori tempo massimo. Il 1977 spaccò l’America in due: da una parte il boom commerciale della Disco, dall’altra il rock alternativo della Sire Record con Ramones, Dead Boys e Talking Heads: il poco spazio rimasto per i guitar-hero se lo prese tutto Eddie Van Halen.


mercoledì 11 gennaio 2012

Sons of Anarchy – Unofficial Soundtrack - S3-CD 1


"Probably 40, 50 patches watching us right now. We represent the past, present, and future of this club. Sure, the Sons are a democratic nation, but everybody knows what happens in Charming sets the tone for every charter."


Artwork:

martedì 10 gennaio 2012

Derek Riggs - Gallery

British Heavy Metal  in Techinicolor
Assieme a quello tra Neon Park e Little Feat, il lavoro di Riggs per il gruppo di Steve Harris è sicuramente il più coerente, distintivo e duraturo rapporto tra designer e band nella storia del rock. A partire dal logo, le copertine dei primi celebri album degli Iron Maiden godono di una omogeneità che le rende immediatamente riconoscibili.


Iron Maiden – Omonimo (1980)
Derek Riggs – Copertina (fronte)

Esordio della band ed esordio di “Eddie” la mostruosa mascotte del gruppo: uno zombie-punk che suona Heavy Metal! L’idea deriva da un precedente personaggio disegnato da Riggs in piena epoca punk, Electric Mattews. 

domenica 8 gennaio 2012

Anno 2012 - La fine dell’album?


Quanto ha senso parlare ancora di “album”? Soprattutto in Internet, nel mondo digitale, sui blog, tra “noi”. Quanto ha ancora senso assumere il CD, o il vecchio LP, come l’unità fondamentale di discussioni, recensioni o confronti?
Negli ultimi 10 anni l’album ha enormemente perso importanza pur essendo comunque l’”oggetto musicale” tipico della distribuzione tradizionale, venduto e reclamizzato in negozi, supermercati, anche su internet. Su questo blog si è già parlato di temi simili, di hardware esploso e medium liquido. L’anno nuovo può essere l’occasione per entrare ancora di più nel merito della questione.
Per esempio: quanti sono gli album che veramente si ascoltano? Non in senso da hit parade o classifica vendite (che da sempre lasciano il tempo che trovano…). In che modo si ascolta, si fruisce, l’album? Dalla prima all’ultima traccia, o piuttosto in maniera casuale, o selettivamente. O magari si riversano subito su Hard Disk e confluiscono in cartelle contenenti indistintamente migliaia di altri brani?
Cosa c’è veramente nei nostri I-Pod?


“Spoonful” sul lato A di “Wheels of Fire” è esattamente ciò che dice il titolo, cioè ciò che è scritto sull’etichetta del Lp e sulla copertina; la sua posizione è fissa, non “estraibile”, non modificabile nei dati e tanto più nei metadati. E’ sempre Spoonful, sempre dei Cream, come quella incisa su Fresh Cream, eppure è un’altra canzone
“Spoonful” inserita nella playlist di una memoria I-Pod è un collegamento ad un file che formalmente è analogo alla traccia incisa sui solchi, ma privata totalmente del suo contesto “autoriale” e di parte della sua identità: cioè l’essere il primo brano, del lato B di un determinato album. E’ una canzone “senza fissa dimora”, affiancabile a qualunque altro brano possiamo immaginare
E’ questa sempre una cosa negativa? No, perche la possibilità di creare percorsi trasversali è un potere “esponenziale” che si da all’ascoltatore: potere di creare tracciati personali, associare fra loro canzoni generate da Luoghi e Spazi differenti, tracciare coordinate nuove ed interessanti per un ascolto veramente personale della musica.
D’altra parte la perdita di unitarietà di un medium che confluisce, magari assieme a centinaia di altri media, nel memorizzatore-decodificatore, finisce, come già ricordato, per trasformarsi in una perdita di autorialità e riconoscibilità del prodotto artistico originale. Questo, unito alla profonda modificabilità (e modificazione) dei metadati tradizionalmente contenuti nelle memorie fisiche, rende il medium digitale molto più povero e disomogeneo rispetto a quello tradizionale. I suoi vantaggi sono in gran parte paratici e in misura minore culturali o economici: un album digitale su I-Tunes costa solo poco meno di un CD tradizionale su Amazon. Una situazione analoga si era già verificata una trentina di anni fa all’immissione sul mercato di CD a prezzo simile a quello degli analoghi in vinile, sebbene i costi di produzione del nuovo supporto fossero assai minori.
Il reale vantaggio economico sta nella distribuzione che avviene in modo solo telematico e non fisico, con una chiara penalizzazione per i rivenditori, specie i più piccoli.



La playlist ha poi una caratteristica accattivante e assolutamente peculiare: è smontabile e rimontabile all’infinito; il consumatore, come già ricordato, assume un ruolo attivo che è estremamente allettante, ancorché non sempre “culturalmente rilevante”, nel giocare con le canzoni come con i Lego. E’ rassicurante: posso eliminare o spostare le canzoni che non gradisco, posso riascoltare in loop ciò che mi piace di più e tutto senza masterizzare nuovi CD ma solo aggiungendo un collegamento che nemmeno occupa spazio su disco.
Non esiste più un contenitore, ma esiste un magma diffuso in cui sono IO a decidere i criteri di selezione e l’ordine di esecuzione. E’ senz’altro uno strumento di notevolissimo impatto.

mercoledì 4 gennaio 2012

Fanzine n° 7 01-2012


In uscita il nuovo numero di “The Evil Monkey’s Backpages”, la fanzine nell’Era di internet. Quattro pagine di articoli, recensioni e avventure Rock. Visualizza il formato JPG o scarica la versione PDF. In oltre, lo stampato in formato A4 è in omaggio per ogni acquisto su http://myworld.ebay.it/79deadman

Non fatevelo scappare!! 


Coming out the new issue of "The Evil Monkey's Backpages", the fanzine in the Internet Era. Four pages of articles, reviews and Rock Adventures. View the JPG or download the PDFversion. In addition, the printed version in A4 format free of charges for every purchase on http://myworld.ebay.it/79deadman

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lunedì 2 gennaio 2012

Riletture Americane - La Rapidità - parte 2


“Categorie calviniane” applicate alla Popular Music - La Rapidità - Pt. 2



La vita è una corsa a due contro la Morte, che va condotta rapidamente a gas spalancato; questo apparente non-senso ha però radici profonde nella tradizione popolare. Di nuovo Robert Johnson, già cantore della vecchia Terraplane, che con Me and the Devil Blues si augura che il suo corpo possa essere sepolto sul ciglio dell’autostrada per da modo al suo spirito di prenedere un Greyhound bus and ride:

You may bury my body
down by the highway side
So my old evil spirit
can catch a Greyhound bus and ride



Come la Maybellene di Barry che rilegge la vecchia Terraplane, anche Me and the Devil, trapiantata negli anni 50 da Gene Vincent, diventa una vera e propria corsa contro il Demonio, laddove invece Johnson e il maligno camminavano tranquillamente fianco a fianco:

Well I've led an evil life, so they say
But I'll hide from the devil on judgement day, I said
Move, hot-rod, move man!
Move, hot-rod, move man!
Move hot-rod, move me on down the the line.
(Gene Vincent – Me and The Devil)

Tutto questo lessico che già nei primissimi anni ’60 è terreno comune di molto Rock n’ Roll, si trasforma da essere solo un orizzonte letterario ad un vero e proprio comandamento di vita. In molti casi carriere inaspettatamente lunghe riducono lo slogan a clichè: curioso sentire Daltrey cantare My Generation ancora oggi a 60 suonati... Ma in altri casi la vita e la carriera dell’artista coincidono a perfezione con un immaginario a tutta velocità.
Parabole artistiche di vertiginosa pendenza, che passano come sulle montagne russe: giovanissimi, presto famosi, prestissimo idolatrati, ma presto poi dimenticati, a volte anche rapidamente morti. Ciò non toglie che pur nella rapidità delle loro vicende umane, alcuni di questi personaggi abbiano lasciato tracce indelebili e contributi culturali anche rilevanti pur in tempi molto stretti. Il Punk più di tutti ha elevato questo stile a vera filosofia di vita.
Antesignano a volte misconosciuto di certi campioni di velocità fu Eddie Cochran, rocker di mezzo tra due generazioni, buon amico di Gene Vincent e apparentemente destinato a clamorosi successi. Dopo una gavetta nel circuito hillibilly con il fratello, arriva alla notorietà nel Settembre del ‘58 con Summertime Blues un hit “generazionale” imponente; il successo è replicato a pochi mesi di distanza da C’mon Everybody e Something Else: in appena un anno è, assieme a Buddy Holly, il giovane più promettente della scena. Ma, ahimè, Eddie condivide con Buddy un altro aspetto ben più drammatico: entrambi morirono giovanissimi in tragiche circostanze, Holly in un incidente aereo (assieme a Richie Valens e Big Bopper) Cochran in auto mentre era in tour in Inghilterra, occasione in cui rimase gravemente ferito anche l’amico Vincent. Sono le prime grandi tragedie pubbliche del Rock’n’Roll; eppure, se quella di Holly apparve come una tragica fatalità, l’incidente automobilistico del ribelle Cochran fu la prima vera e tangibile trasposizione nell’immaginario Rock del mito di James Dean. Il bello-dannato che muore viaggiando a folle velocità nel buio.

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