Il 19º Gruppo Forze Speciali, i Berretti Verdi, sono da sempre considerati uno dei reparti più cazzuti dell’esercito.
Un campo d’addestramento talmente esagerato da provocare delirio, sangue e vomito nella testa di chi non ce l’ha fatta. Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan; medaglie e onori. Idolatrati dai ragazzini in accademia, concupiti dalle prostitute di mezzo sud del mondo. In realtà sono una specie di setta sotterranea di fascisti mascherati da Eroi della Patria. Estremisti della prestanza fisica e del corpo a corpo per il puro divertimento di massacrare il prossimo pastore talebano che carica munizioni di RPG a dorso di mulo. Fanatismo repubblicano, imperialista. Sono dei violenti di cui sembra non si possa fare a meno.
Poi ci fu quell’affare in Pakistan. In origine la soffiata sulla posizione del nemico Numero Uno arrivò a loro. Una squadra era già pronta e forse l’elicottero già decollato. Ma qualcuno, dall’interno, aveva parlato troppo. I Navy Seals, i gioiellini del mare, li batterono sul tempo e fu la Marina a riportare in patria la testa dello sceicco. Il 19° non la mandò mai giù; fu un’ingerenza ingiustificata nei confronti dell’esercito. Volarono parole grosse e non solo, fino ai piani altissimi…
Poi l’episodio del Razavi Khorasan, Iran, in cui, convergendo sullo stesso obiettivo, Berretti Verdi e marinai finirono per spararsi addosso, o almeno così riportarono i giornali. Fuoco amico, a volte non evitabile in situazioni di altissima tensione e complessità. Ma quello scenario non aveva certo quelle caratteristiche: uno sparuto gruppo di separatisti islamici asserragliati nell’ambasciata Indiana a Mashhad. Un lavoro facile, da sbrigare in scioltezza, senza lasciare sporco in giro.
Risultato: due diplomatici e quattro seal morti per proiettili americani.
Da allora quelli del 19° vivono come marchiati del segno di Caino. Una schiatta di reietti in perfetta autogestione: sbrigano le missioni più sporche e vigliacche, quelle che il governo non ha vergogna di autorizzare sottobanco. Sono un braccio armato per senatori guerrafondai in cerca di pretesti per dichiarare No Fly Zone, inutili embarghi o vere e proprie aggressioni agli ultimi stati della penisola arabica. Dei mercenari riconosciuti dai vertici dell’esercito, ma a cui nessuno più para il culo da anni.
Non stupisce che siano stati assegnati a Fuzhou, la testa di ponte più instabile e rischiosa di questo mondo, oggi.
Le carte di Berenger sono chiare: tutta la costa sud occidentale è territorio nemico. Valgono regole d’ingaggio talmente banali da sembrare una presa in giro. In qualunque situazione, sparare dopo il secondo richiamo; niente segnali, niente colpi di avvertimento, niente spari in aria. Sparare per neutralizzare il nemico.
Già, il nemico.
Quello che nemmeno sappiamo cosa sia. Crowley è stato prodigo di particolari insignificanti. La mutazione ha cambiato la natura di quegli uomini? Ne ha cambiato il modo di vedere le cose, di relazionarsi coi loro simili? Sono cannibali senza cognizione o solamente dei malati? Sono creature mostruose o disabili che non si reggono in piedi?
Ma se penso troppo a certe cazzate andrà a finire che al momento buono non farò in tempo a tirare il grilletto. Riprendo in mano il fascicolo di Berenger.
Sparare al secondo avviso; sparare al secondo avviso.
E’ una schietta filosofia militareggiante finalizzata a tenerti in vita, non a trovare spiegazioni o colpevoli. Serve a tenerci in vita.
Sparare al secondo avviso.
Quelli del 19° si porranno meno domande. Mi chiedo se qualcuno di loro ci sia mai arrivato al secondo avviso. Quelli prima ti ammazzano poi ti chiedono chi sei.
Io ho sparato in due occasioni. In Giordania, durante le manifestazioni del Ramadan lo scorso anno; cominciarono ad arrivarci addosso molotov, pietre e merda di mulo, non avevamo tempo da perdere. Disperdemmo la folla sparando; per lo più in aria. C’era il solito caos, la fuga generale; bambini tenuti in alto per fare da scudo. Ma non credo di aver colpito qualcuno, in quell’occasione.
A Nangarhar le cose andarono diversamente. Lì l’attacco dei taliban era premeditato e ben attuato. Eravamo in trappola. Forse quelle teste di stracci non pensavano che avremmo risposto subito al fuoco; le consegne erano ben differenti. Ma non c’era scelta; o almeno così mi ricordo… Sparai per colpire il bersaglio, se non per uccidere. Un paio sono sicuro di averli presi; uno probabilmente l’ho ammazzato. Schizzava sangue dalla gola come una fontana impazzita. Cadeva, cercava di rialzarsi. Poi stramazzò e rimase immobile. Quando l’elicottero ci evacuò, quello era ancora là.
Non è esattamente la carriera di un cecchino, la mia. Cerco di sopravvivere come fa la metà dell’esercito. L’altra metà cerca di non fare sopravvivere gli altri. Sono differenze labili, confini inconsistenti. Tra omicidio, casualità, scontro a fuoco inevitabile; volontà di uccidere o di non essere uccisi. Divertimento, esaltazione, legittima difesa, istinto di sopravivenza; una nuova testa da appendere alla parete. Una linea sottile da oltrepassare.
Dopo Nangarhar passai due settimane a casa; sulla riva del lago, per lo più. Stavo alla grande; tutto mi era scivolato addosso; ed era questo a farmi pensare, più di tutto il resto. L’esercito ti mette subito a disposizione uno psicologo. Devi andarci per un minimo di cinque sedute; sono obbligatorie. Poi se vuoi continuare la terapia devi fare richiesta al comando. Nei miei cinque incontri stavo seduto a parlare, per lo più di stupidaggini. Quello prendeva appunti su un taccuino; sapevo bene che non era un vero psicologo ma il solito emissario dei piani alti che con la scusa della psicoanalisi estorce informazioni, soffiate sui compagni, confidenze. Recepiscono l’umore delle truppe come le formiche annusano gli acidi delle operaie facendo vibrare in aria le antenne. Ricostruiscono piste invisibili di malumori, disagi; percorsi sospetti di droga o pornografia; soprattutto pornografia. Trovano sempre la strada per il formicaio. E noi difficilmente possiamo uscire dalla pista.
Alla fine, l’altra mattina, avevo anche trovato il momento giusto per chiederlo a Crowley: aveva fatto allusioni, ero convinto sapesse qualcosa che mi riguardava, che io ancora non sapevo. Così alla fine glielo chiesi; dopo la visita ai laboratori, dopo la “plica mongolica” e tutto il resto.
“Perché io?”
Gli altri ragazzi qui hanno competenze settoriali specifiche; Garner nelle radiotrasmissioni, Ray è praticamente un medico; potevo capire la loro presenza dopo quello che Crowley ci aveva raccontato. Capisco bene l’esigenza di due Berretti verdi incazzati che dirigano la festa. Berenger non vuole problemi. Ma... io, in tutto questo?
“Non ti montare la testa, ragazzo. Ci sono altri gruppi come il vostro già operativi da giorni in diverse zone. Forse quando partirete la vostra sarà una missione già obsoleta.
Ce ne sono centinaia come te. Sei uno dei tanti”.
Non il massimo per un’autostima che già mi colava dalla suola degli stivali come cera bruciata.
Uno dei tanti.
Forse meglio così.
Ma allora era Berenger a non raccontarla giusta quando diceva che il mio nome era stato fatto da Crowley in persona…
Ricaccio i pensieri sul fondo buio del cervello. Vorrei provare a dormire ancora un po’. C’è una corrente che mi schiaffeggia la testa. Chiudo gli occhi, li stringo; mi sforzo di sognare.
Mi tuffo nella mia copertura preferita, quella storia che dovrò dare a bere al pazzoide medico torturatore di turno oltre le linee nemiche. Per non rivelare dati riservati; una seconda identità che copra le parole sensibili.
Sono un chitarrista sconosciuto dell’ultima band dell‘ Ohio. Che naviga su di un barcone della marina taiwanese attraverso il Mar Giallo con il sale che gli morde le labbra; steso sul punte bagnato dell’imbarcazione. Vento in faccia. Mi dimeno come un tonno issato a bordo da una barchetta di pescatori malesi; mi agito, qualcosa mi punge nella schiena. Ho il respiro affannato. Quelle maledette mosche continuano a ronzarmi attorno agli occhi e sono sicuro che tra un po’ qualcuna mi morderà direttamente il bulbo, strisciando fino alla cornea e oltre. Allora ci sarà da divertirsi. Tengo la custodia della chitarra sotto le gambe; sembra una bara sagomata per il feto di un cetaceo.
Sono sempre queste visioni di Natura, tetre.
Mi passano nella testa come la reclame di un elettrodomestico coreano. Sono queste visioni tetre. Ho voglia di fumo; di una bella sigaretta al catrame Tahilandese. Garner deve averne fatto una scorta prima di imbarcarsi. Spero, almeno. Ma poi, chi sene frega. Quelli del 19° saranno più riforniti del migliore pusher nero di Eco Park. Steroidi, fluoxetine, duloxetine, atomoxetine, viagra, eroina; una volta ne beccarono uno con 380 blister di Rohypnol. Ce n’era da sodomizzare mezzo Vietnam.
Un tiro dell’ultima sigaretta.
Berenger aveva parlato di Al-Quaeda, di terrorismo, di popolo e aquile con la testa bianca; forse era ancora là alla finestra a parlare.
Non ho mai capito del tutto cosa sia un popolo; cosa ci chiedano i cittadini; chi stiamo difendendo. Le nostre famiglie, le famiglie degli amici, di tutti? Noi stessi, o i nostri interessi. O gli interessi di chi con quelle famiglie ha bisogno di giustificarsi, di monetizzare. Di risalire nei sondaggi, per non cedere la poltrona.
Di chi ha stock di azioni invendute da piazzare su qualche mercato tropicale per neocapitalisti sprovveduti. Chi regala religioni a rate, con la valigetta di finta pelle inclusa nell’offerta e una bibbia tascabile con la copertina di jeans.
Forse è ancora là che parla; da solo.
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