Forse così la pensavano anche Chris Karrer, un
polistrumentista free jazz, busker di vocazione eppure ambizioso e caparbio, e
John Weinzierl, un ottimo chitarrista Rock in grado di spaziare dai raga acidi
americani al più epico metal europeo; Peter Leopold era un batterista di
formazione jazzistica che non ne voleva sapere di 4/4 e di ritmi pari,
conferendo ad ogni canzone una caracollate ritmica da danza asburgica. Erano
questi tre il cuore musicale dagli Amon Duul II; a loro si era aggiunta in
breve tempo una pletora di ottimi comprimari come la cantante Renate Knaup,
Yoko Ono senza impalcature concettuali e con un sex appeal dark e ben più
sinistro di Grace Slik; Falk Rogner, un illustratore abile nel collage e nella
manipolazione della fotografia che a tempo perso suonava uno scassato organetto
Farfisa e si dilettava ad esplorare le infinite possibilità timbriche del
sintetizzatore, offrendo al gruppo un’atmosfera elettronica molto low fi, da
garage band con aspirazioni progressive, in grado di abbozzare armonie sottese
e affossate nel mix, capaci di fuoriuscire in maniera inaspettata come
l’immagine non riflessa di un fantasma nello specchio. Dave Anderson, cittadino
inglese in territorio nemico, reclutato dai Kippington Lodge di cui era roadie,
era il collegamento del gruppo con la scena Britannica ed in particolar modo
con gli squatter drogati di Ladbroke Grove che si stavano organizzando in un
ensemble di rock aerospaziale che presto sarebbe stato il braccio inglese degli
Amon Duul: gli Hawkwind. C’era poi una schiera di percussionisti e freak
multicolori fuoriusciti dalla sponda politica della comune subito dopo la
pantagruelica incisione di Psychedelic Underground, una session continua di
oltre venti ore, quasi un’installazione artistica permanente piuttosto che una
seduta di incisione. Questo era il pittoresco plotone che occupava parte
dell’ampia cantina del Principe, condividendo il nascondiglio con centinaia di
altri diseredati, cercando di esorcizzare con la loro musica sballata una
realtà troppo orrenda per sembrare vera.
Dalla parte opposta stava l’uomo con la macchina da
presa, perennemente accesa, perennemente fissa sulla musica; impassibile
nell’immagazzinare immagini che un giorno, forse, sarebbero diventate ricordi.
Dopo un momento di silenzio seguito ad una forte
esplosione udita distintamente da tutti, il gruppo riattaccò con la musica,
sperando di oscurare almeno il fragore delle bombe distanti.
Quello di Den Guten, Schönen, Wahren è un western
nordico, con accenni all’epopea nera di Calvary dei Quicksilver, intriso del
maligno canto di una Baba Yaga tentatrice che disturba il sonno dei bambini:
una suadente doppiezza melliflua, che distorce il già caricaturale canto di Rob
Tyner in Ramblin' Rose. Poi, quello che comincia come un brano sottile,
elettroacustico, si assesta su un riff di poderoso hard-rock e sfocia nel
ritornello di un’orchestrina bavarese che suona ubriaca in una bierfest di
provincia, con l’aggiunta del violino demoniaco di Karrer e la solita voce
lontana di Renate, dispersa nei meandri di un dedalo di visioni bibliche
piegate al servizio della tremenda ideologia della Svastica: così i bambini che
corrono a Lui si risvegliano come in un incubo, con la testa rasata, al pianto
delle madri lontane, offerti in sacrificio al Moloch. Tutto per servire il
Buono, il Bello e il Vero, storpiando la frase che fu incisa sul frontone del
teatro Alte Oper di Francoforte, che ora giaceva riverso tra i bombardamenti.
Kommet zuhauf und seht ihn euch an
Das Haupt kahlgeschoren und lächelt noch
Frisch ans Werk, 's ist gleich getan
Hängt
ihn auf, den geilen Moloch – ja!
Alla fine ci pensa Weinzierl a dare il colpo di
grazia con un orrendo, deforme, cacofonico, assolo di distorsore: dei Grand
Funk paranoici, distrutti da acido e benzedrine, concludono il brano in rapida
assolvenza.
Dietro l’occhio immobile della cinepresa, il
giovane regista dalla zazzera bionda montava scatole argentate circolari di
pellicola provocando, di tanto in tanto, un fragore metallico incontrollato che
faceva scendere un brivido lungo le schiene dei rifugiati. Nell’angolo opposto
dello stanzone, una giovane famiglia mediterranea, avvolta in manti dai colori
sgargianti, cullava la quiete di due neonati con cantilene dalla lingua strana.
Gli squadroni della morte di Hildebrandt stavano
certamente passando al setaccio i boschi vicini, sfogando la loro frustrazione
su ogni vivente gli si parasse davanti.
Il Principe Viaggiatore aveva concesso agli Amon
Duul di suonare ancora per un po’, sperando di allentare quella tensione
spasmodica e afosa che si respirava da giorni nel chiuso di quel nascondiglio.
Eppure l’Arte di quei ragazzi non allineati si portava ancora dentro quel
carico di angosce e rimorsi sommersi che il Reich aveva steso su tutta la
Germania come un pesante sudario scuro. La loro musica voleva essere la stessa
degli Alleati, degli Inglesi, degli Americani: una nuova razza di uomini che
per la prima volta mettevano piede, armati, nel cuore dell’Europa, portandosi dietro Chewing gum, Lucky Strike,
Coca Cola e Rock n’ Roll. Oggetti seducenti di rilucente capitalismo, tutti
rigorosamente senza limite nè istruzioni per l’uso; tanto più la musica, che i
tedeschi trattavano con la stessa curiosa meraviglia con cui i bambini maneggiano
i cubi per le costruzioni: un epocale fase
orale nella quale un nuovo Rock veniva smontato e rimontato, impugnato con
la stessa imperizia con cui i neri impararono, a modo loro, a suonare chitarra
e tromba, gli strumenti portati dai bianchi conquistatori.
La loro versione di quel Rock n’ Roll era modellata
sul duro accento tedesco; sostituiva, alle solari visioni cortesi del regno di
Artù, i rituali di una demonologia slava e mediorientale ben più drammatica e
cosmica; rifiutava l’illuministico equilibrio del preciso flash rock di Close
to the Edge o Dark Side of the Moon in favore di un romanticismo temprato da
Friedrich e dal Faust della notte di Valpurga; preferendo le streghe tanto alla
povera Margherita che alla divina Elena. Era una musica forgiata dal demone
Samiel assieme alle sette pallottole fatate del Franco Cacciatore durante la
tempesta notturna della Gola del Lupo.
Schütze, der im Dunkeln wacht,
Samiel, Samiel, hab acht!
Steh mir bei in dieser Nacht,
Bis der Zauber ist vollbracht!
Salbe mir so Kraut als Blei,
Segn'es sieben, neun und drei,
Daß
die Kugel tüchtig sei!
Samiel,
Samiel, herbei!
Proteggi,
tu che vegli nell’oscurità,
Samiel,
Samiel, presta attenzione!
Stammi
vicino in questa notte
finché
l’incantesimo è compiuto!
Consacrami
erbe e piombo,
benedicile
sette, nove e tre volte,
perche
le pallottole siano valide
IMMAGINI
Amon Duul II - Phallus Dei (Liberty, UK 1969)
Bozzetto di
scena per “Il franco Cacciatore” – Atto II (1822, Weimar)
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