Le estati del 1969 e del 1970 furono il biennio
d’oro dei megaraduni hippy. Spuntarono come funghi, in tempi brevissimi ed in
ogni parte del mondo occidentale. Alcuni leggendari (Woodstock), altri nefasti
(Altamont) molti in luoghi per così dire pittoreschi (l’ isola di Wight, ma se
ne tenne uno anche sull’isoletta di Fehmarn, tra la Germania e l’arcipelago
danese …). La maggior parte ricevette una copertura mediatica impressionante
per eventi nati dall’underground.
Quello che presentiamo è un reportage dal Texas Pop
Festival di Lewisville tenutosi nei giorni tra il 30 agosto e il 1 settembre
1969. Imponente, come sempre la scaletta: Canned Heat, Chicago, Ten Years
After, Led Zeppeline tanti altri.
Il video non si discosta dai canoni del periodo: tentativo
di cinemà veritè immerso fino al colo
negli stereotipi del periodo. Scene di cowboy vagabondi on the road, il camionista matusa che ascolta dalla radio la
notizia del concerto, ragazzi che convergono con ogni mezzo ai prati di Lewisville.
Poi qualche placida intervista ad organizzatori e proprietari terrieri,
incuriositi ma sereni: alla fine è la giovane borghesia bianca che si raduna
per ascoltare un po’ di musica, mica un migliaio di negri dei ghetti o orde di
messicani in cerca di lavoro… Segue il rituale bagno nudi nel fiume e poi tutti
sul palco. Peccato che video e audio non siano quasi mai in sincrono e le
canzoni siano il risultato di un approssimativo montaggio a posteriori
piuttosto che una incisione a presa diretta.
Aprono gli esordienti dell’anno, i Grand Funk Railroad, che sprigionano Are
You Ready ad un pubblico un po’ confuso. Poi i Chicago (Transit Authority) che si schierano come una tribù sul
palco per una percussiva I’m a Man. E a notte fonda una versione rara e quasi
integrale dei Led Zeppelin in Dazed
and Confused che se non altro dimostra che razza di enorme pezzo fosse quello
nel 1969. Strano pensare che questi tre gruppi di cappelloni con le pezze al
culo avrebbero venduto, di li a qualche anno, svariate decine di milioni di
album. Ci si risveglia con l’Hard & Roll dei Ten Years After, in tempo per chiedersi come diavolo facesse Leo Lyons
a suonare il basso in quella maniera. Poi una Janis Joplin che gioca in casa. Ci si saluta, dopo due giorni
estenuanti, con Santana.
Tanto sole, visi sorridenti, un pubblico piuttosto
anestetizzato, capelli lunghi, fiori e bolle di sapone.
Tuttavia, qualche domanda sulle Estati dei
Festival, e più in generale di ogni Grande Evento Musicale, anche moderno rimane…
Fu quella del ’69-’70 un’autentica onda
rivoluzionaria, propulsa dal basso e portatrice di un nuovo spirito comunitario
condiviso da pubblico e musicisti? Fu il reale manifesto di una nuova comunità
artistica intenta a promulgare un innovativo concetto di musica per le masse? O
fu il tentativo di trasformare in establishment
una contro-cultura giovanile di
matrice californiana dalle deboli fondamenta? Fu semplicemente l’apogeo di una
generazione giunta in fretta ad una fine prematura? O magari l’esposizione dei
migliori talenti in vendita, pronti a fatturare milioni con album venduti a
valanga sull’onda di un’iper esposizione mediatica?
Certo i promotori di Woodstock o dell’isola di
Wight sarebbero impalliditi a sapere che di lì a qualche anno i grandi raduni
sarebbero stati finanziati da Pepsi, Coca Cola o Heineken; ma questa esplicita
sponsorizzazione non ha forse contribuito a squarciare quel sottile, diafano,
ma costante velo di ipocrisia che immancabilmente ha rivestito eventi del
genere?
Per cercare risposte cedo volentieri la parola a Gary
Herman il cui libro Rock Babilonia,
pur nei suoi eccessi, è sempre un buon
antidoto alla divinizzazione dell’Artista. La disamina riguarda il prototipo di
ogni raduno, il festival di Monterey del 1967 che l’autore analizza, forse in
modo fin troppo acido, ma assai interessante.
Il festival
di Monterey racchiuse in sè tutto quello
che c'è di buono e di marcio nel fenomeno della musica rock. Da un lato,
interpretava i sogni e le aspirazioni della generazione del ’67; dall'altro,
era stato programmato secondo i più scrupolosi dettami commerciali. Come era
già successo prima, e come sarebbe
avvenuto da
allora, gli artisti esistevano tra due poli: divisi tra la simpatia che
nutrivano verso le speranze dei loro ammiratori e desiderosi di esaudirle, e
l’impazienza, talora imbarazzata, di arrivare a godere dell'adulazione del
pubblico e degli indiscutibili vantaggi che solo il denaro può procurare.
Monterey era il microcosmo della Babilonia del rock’n’roll; una freccia puntata
in direzione di una terra promessa che si sarebbe rivelata l’entrata di una
prigione.[…]
Il programma
di Monterey comprendeva un maggior numero di concerti e una varietà musicale
ben più vasta di quanto si fosse mai visto prima: quasi l’intero spettro della
musica pop, dal soul da piano-bar, all’indiavolato boogie, fino al folk, il
folk-rock, l’acid-rock, agli “electric blues" e ai "raga” classici
dell’India, eseguiti da Ravi Shankar col suo sitar. Tuttavia è per noi più
significativo, benché allora fosse meno evidente, scoprire che il festival di Monterey era stato appositamente
programmato come avvenimento dedicato ai mezzi di comunicazione. Il
pubblicitario Derek Taylor, che si era già occupato dei Beatles, era stato
ingaggiato fin dal primo istante. Qualsiasi giornalista che ne facesse
richiesta riceveva biglietti d’ingresso gratuiti (e tanti che non fecero
nessuna richiesta li ricevettero anche loro): circa 1.200 in tutto. I concerti
sarebbero stati filmati e la rete televisiva ABC ne acquistò i diritti di
distribuzione per il grande e piccolo schermo per qualcosa come 300 mila
dollari. Tutti avrebbero sentito parlare di Monterey, anche se solo dalle
pagine dei giornali. La televisione, la radio, il cinema e i dischi... ogni
settore era stato coperto. Una massiccia campagna pubblicitaria avrebbe
annunciato al mondo intero che Monterey apriva la porta alla tanto attesa Era
della Libertà.
Musicalmente è abbastanza evidente che in questi
pachidermici eventi, pur se sparsi per il mondo, gli headliner erano sempre gli
stessi: Hendrix, Mountain, Who, Santana, Jefferson Airplane... e CSN&Y, che
sopravvissero giusto per quelle due estati.
Ma in pochi di questi megaraduni troverete i Velvet
Underground; in pochi Captain Beefheart o Frank Zappa; in pochi troverete i pur
sintonizzatissimi Doors. E l’unico a cui parteciparono gli Stones, Altamont, sappiamo bene come è andato a finire…
Addirittura all’Isola di Wight ci fu un contro festival gratuito fuori dei
cancelli promosso da terroristi musicali come Hawkwind e Pink Fairies in favore
di quanti non riuscirono ad assistere al vero
festival, il cui prezzo d’ingresso per gli sballati Pink-Wind era
eccessivo.
La contro-contro cultura è un po’ come il nemico
del mio nemico?
O magari non sarà che la cultura è UNA, che sia allineata o meno? Così come
la musica è una, che sia mainstream,
alternativa, indipendente …?
Godetevi
lo show!
Full Show via Youtube:
1 commento:
Davvero interessante questo stralcio di articolo, abbastanza condivisibile.
Posta un commento