domenica 15 luglio 2012

Texas Pop Festival 1969 - L’era dei Megaraduni e qualche domanda…




Le estati del 1969 e del 1970 furono il biennio d’oro dei megaraduni hippy. Spuntarono come funghi, in tempi brevissimi ed in ogni parte del mondo occidentale. Alcuni leggendari (Woodstock), altri nefasti (Altamont) molti in luoghi per così dire pittoreschi (l’ isola di Wight, ma se ne tenne uno anche sull’isoletta di Fehmarn, tra la Germania e l’arcipelago danese …). La maggior parte ricevette una copertura mediatica impressionante per eventi nati dall’underground. 
Quello che presentiamo è un reportage dal Texas Pop Festival di Lewisville tenutosi nei giorni tra il 30 agosto e il 1 settembre 1969. Imponente, come sempre la scaletta: Canned Heat, Chicago, Ten Years After, Led Zeppeline tanti altri.
Il video non si discosta dai canoni del periodo: tentativo di cinemà veritè immerso fino al colo negli stereotipi del periodo. Scene di cowboy vagabondi on the road, il camionista matusa che ascolta dalla radio la notizia del concerto, ragazzi che convergono con ogni mezzo ai prati di Lewisville. Poi qualche placida intervista ad organizzatori e proprietari terrieri, incuriositi ma sereni: alla fine è la giovane borghesia bianca che si raduna per ascoltare un po’ di musica, mica un migliaio di negri dei ghetti o orde di messicani in cerca di lavoro… Segue il rituale bagno nudi nel fiume e poi tutti sul palco. Peccato che video e audio non siano quasi mai in sincrono e le canzoni siano il risultato di un approssimativo montaggio a posteriori piuttosto che una incisione a presa diretta.  
Aprono gli esordienti dell’anno, i Grand Funk Railroad, che sprigionano Are You Ready ad un pubblico un po’ confuso. Poi i Chicago (Transit Authority) che si schierano come una tribù sul palco per una percussiva I’m a Man. E a notte fonda una versione rara e quasi integrale dei Led Zeppelin in Dazed and Confused che se non altro dimostra che razza di enorme pezzo fosse quello nel 1969. Strano pensare che questi tre gruppi di cappelloni con le pezze al culo avrebbero venduto, di li a qualche anno, svariate decine di milioni di album. Ci si risveglia con l’Hard & Roll dei Ten Years After, in tempo per chiedersi come diavolo facesse Leo Lyons a suonare il basso in quella maniera. Poi una Janis Joplin che gioca in casa. Ci si saluta, dopo due giorni estenuanti, con Santana.


Tanto sole, visi sorridenti, un pubblico piuttosto anestetizzato, capelli lunghi, fiori e bolle di sapone.
Tuttavia, qualche domanda sulle Estati dei Festival, e più in generale di ogni Grande Evento Musicale, anche  moderno rimane…
Fu quella del ’69-’70 un’autentica onda rivoluzionaria, propulsa dal basso e portatrice di un nuovo spirito comunitario condiviso da pubblico e musicisti? Fu il reale manifesto di una nuova comunità artistica intenta a promulgare un innovativo concetto di musica per le masse? O fu il tentativo di trasformare in establishment una contro-cultura giovanile di matrice californiana dalle deboli fondamenta? Fu semplicemente l’apogeo di una generazione giunta in fretta ad una fine prematura? O magari l’esposizione dei migliori talenti in vendita, pronti a fatturare milioni con album venduti a valanga sull’onda di un’iper esposizione mediatica?
Certo i promotori di Woodstock o dell’isola di Wight sarebbero impalliditi a sapere che di lì a qualche anno i grandi raduni sarebbero stati finanziati da Pepsi, Coca Cola o Heineken; ma questa esplicita sponsorizzazione non ha forse contribuito a squarciare quel sottile, diafano, ma costante velo di ipocrisia che immancabilmente ha rivestito eventi del genere?
Per cercare risposte cedo volentieri la parola a Gary Herman il cui libro Rock Babilonia, pur nei suoi eccessi,  è sempre un buon antidoto alla divinizzazione dell’Artista. La disamina riguarda il prototipo di ogni raduno, il festival di Monterey del 1967 che l’autore analizza, forse in modo fin troppo acido, ma assai interessante.

Il festival di Monterey racchiuse in sè tutto quello che c'è di buono e di marcio nel fenomeno della musica rock. Da un lato, interpretava i sogni e le aspirazioni della generazione del ’67; dall'altro, era stato programmato secondo i più scrupolosi dettami commerciali. Come era già successo prima, e come sarebbe
avvenuto da allora, gli artisti esistevano tra due poli: divisi tra la simpatia che nutrivano verso le speranze dei loro ammiratori e desiderosi di esaudirle, e l’impazienza, talora imbarazzata, di arrivare a godere dell'adulazione del pubblico e degli indiscutibili vantaggi che solo il denaro può procurare. Monterey era il microcosmo della Babilonia del rock’n’roll; una freccia puntata in direzione di una terra promessa che si sarebbe rivelata l’entrata di una prigione.[…]
Il programma di Monterey comprendeva un maggior numero di concerti e una varietà musicale ben più vasta di quanto si fosse mai visto prima: quasi l’intero spettro della musica pop, dal soul da piano-bar, all’indiavolato boogie, fino al folk, il folk-rock, l’acid-rock, agli “electric blues" e ai "raga” classici dell’India, eseguiti da Ravi Shankar col suo sitar. Tuttavia è per noi più significativo, benché allora fosse meno evidente, scoprire che il festival di Monterey era stato appositamente programmato come avvenimento dedicato ai mezzi di comunicazione. Il pubblicitario Derek Taylor, che si era già occupato dei Beatles, era stato ingaggiato fin dal primo istante. Qualsiasi giornalista che ne facesse richiesta riceveva biglietti d’ingresso gratuiti (e tanti che non fecero nessuna richiesta li ricevettero anche loro): circa 1.200 in tutto. I concerti sarebbero stati filmati e la rete televisiva ABC ne acquistò i diritti di distribuzione per il grande e piccolo schermo per qualcosa come 300 mila dollari. Tutti avrebbero sentito parlare di Monterey, anche se solo dalle pagine dei giornali. La televisione, la radio, il cinema e i dischi... ogni settore era stato coperto. Una massiccia campagna pubblicitaria avrebbe annunciato al mondo intero che Monterey apriva la porta alla tanto attesa Era della Libertà.

Musicalmente è abbastanza evidente che in questi pachidermici eventi, pur se sparsi per il mondo, gli headliner erano sempre gli stessi: Hendrix, Mountain, Who, Santana, Jefferson Airplane... e CSN&Y, che sopravvissero giusto per quelle due estati.
Ma in pochi di questi megaraduni troverete i Velvet Underground; in pochi Captain Beefheart o Frank Zappa; in pochi troverete i pur sintonizzatissimi Doors. E l’unico a cui parteciparono gli Stones, Altamont,  sappiamo bene come è andato a finire… Addirittura all’Isola di Wight ci fu un contro festival gratuito fuori dei cancelli promosso da terroristi musicali come Hawkwind e Pink Fairies in favore di quanti non riuscirono ad assistere al vero festival, il cui prezzo d’ingresso per gli sballati Pink-Wind era eccessivo.
La contro-contro cultura è un po’ come il nemico del mio nemico?
O magari non sarà che la cultura è UNA, che sia allineata o meno? Così come la musica è una, che sia mainstream, alternativa, indipendente …?
Godetevi lo show!

Full Show via Youtube:

1 commento:

La firma cangiante ha detto...

Davvero interessante questo stralcio di articolo, abbastanza condivisibile.

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