Riemergono dal vecchio
quadernetto, sempre rimandati al “giorno dopo” nel mio ultimo lungo periodo di
silenzio. E allora tanto vale riscriverle ora, queste due paginette di appunti
su uno dei dischi più idolatrati eppure inesplorati di cui sono in possesso.
31/05/2011 - 01/10/2015
venerdì 29 novembre 2013
lunedì 25 novembre 2013
JPT Scare Band - The sound is the message
Tanti aspiranti Nuovi Critici
che pasteggiano su internet fanno carte false per qualche remota intervista via
mail o due frammentate chiacchiere telefoniche con l’eroe di turno; o per
l’esclusiva della recensione dell’ultimo dico super pop che domina il momento
presente da postare sul portale più figo della rete.
Non che io abbia avuto chissà
quali occasioni di frequentare questo jet-set, ma ammetto che in contesti
diversi dal blog, ho avuto le mie possibilità (come tutti, ormai).
Insomma, non me ne è mai fregato
nulla.
Però quando la JPT Scare Band mi
contatta e mi fa i complimenti per un articolo, inserendo il link nella loro
home page, io sono contento.
E non per il link, o per la
visibilità (e chi cazzo se la fila la Scare Band…); perché è la prova
definitiva che la JPT Scare Band esiste.
Chi sono costoro? Nessuno lo sa,
quindi non divulgate il segreto, mi raccomando. Se siete curiosi, se ne parla
un pochino qui:
Così, per ringraziare di questo
contatto virtuale, ho promesso che avrei tradotto il mio articolo in inglese
per loro…
Ed eccoci qui.
Etichette:
1974,
hard rock,
JPT Scare Band,
psichedelia
lunedì 18 novembre 2013
Zerfas - Zerfas (US Hard Rock)
Titolo: Zerfas
Anno: 1973
Label: 700 West LH
(730710)
Line-Up:
Bill Rice: Bass,
Vocals
Steve Newbold: Bass,
Guitar, Vocals
Mark Tribby: Bass,
Guitar, Vocals
David Zerfas: Drums,
Percussion, Vocals, Guitar
Herman Zerfas:
Keyboards, Vocals, Guitar, Bass
A1 You Never Win
A2 The Sweetest Part
A3 I Don't Understand
A4 I Need It Higher
B1 Stoney Wellitz
B2 Hope
B3 Fool's Parade
B4 The Piper
mercoledì 13 novembre 2013
Danny just wasn't happy
Strana cosa la felicità.
Diresti che i soldi non possono comprarla, che alla fine si trova
nelle piccole cose. Ma il mondo è sempre più banale e spietato di quanto ci
piaccia credere.
No satisfaction uguale no
happiness. E i soldi la soddisfazione te la comprano eccome. Che sia
reale, fittizia, chimica o in carne ed ossa.
Forse è vero che “Danny,
semplicemente, non era felice”. Altrimenti perché tutto quel valium,
quell’alcol. L’eroina. Era il 18 novembre del 1972. Lui aveva 29 anni e in
pochi sapevano realmente chi fosse quando qualche giornale riportò la notizia
tra le “brevi” nelle pagine interne.
Danny Whitten era un rocker. Quello con i capelli chiari, gli occhi
dolci, i folti baffi da cowboy della controcultura. Cresciuto a Columbus, in
Georgia, si ritrovò presto in quel di L.A. con qualche embrione musicale per le
mani… Con quei suoi amici freak, Billy Talbot e un oriundo portoricano, Ralph
Molina, formò un gruppetto di doo-wop: Danny And The Memories. Ma a metà anni
’60 quello non era certo nome dal grande appeal, in più tutta la gente più cool
era in viaggio su Maggioloni colorati verso San Francisco. Lì Danny e i suoi
amici ebbero vita facile nel riconvertirsi a band dalle ondeggianti movenze
psichedeliche. Imbarcati i fratelli Whitsel alle chitarre e il fiddle di Bobby
Notkoff, ecco i Rockets, una sestetto tremendamente affiatato, anche se dal
sound bastardo, schizofrenico, non sempre in linea con i comandamenti
dell’epoca. Eppure andavano forte, tanto che fu Barry Goldberg a produrli per
una piccola label indipendente, la White Whale Records.
Succede così che l’album omonimo di esordio diventa un piccolo classico,
seppur ignoto, di un genere “indie” veramente ante-litteram. Indipendente,
alternativo pure in quell’epoca. Sul gonfio basso di Talbot e il sicuro e
robusto mestiere di Molina, Danny compone, canta, schitarra senza freni,
accompagnato da violini folk e chitarre semiacustiche, con ritornelli
orecchiabili da cantare attorno al fuoco mentre i cavalli si riposano. Avrebbero
potuto essere una versione modernista degli Hot Tuna, ma anche una deriva folk
del power-pop per antonomasia, quello dei Big Star. E l’avrebbero fatto per
primi.
Etichette:
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1970,
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rock
sabato 9 novembre 2013
L’Uomo Selvaggio tra le nebbie del Prog
Avete mai attraversato la campagna al tramonta d’autunno? Quando il
vento si ferma e dai campi e dai canali sale una foschia galleggiante come il
fumo blu di una sigaretta appena spenta? E i contorni degli alberi, delle torri
e degli enormi tralicci dell’alta tensione si fanno confusi.
Questo piccolo album attraversa la vasta brughiera dei Baskerville,
sempre sulle tracce della Bestia. Senza mai catturarla, intravedendola di
sfuggita tra le pieghe di un rock che oggi diremmo dark. Che allora, anno 1970,
era un progressive dalle tinte fosche, di quelli che stanno adagiati tra le
pieghe della spirale Vertigo e certe rosee etichette Folk della Island. In
realtà Volume One uscì addirittura per la Decca e il trio, un classico
triangolo chitarra-basso-batteria, dal tetro nome The Human Beast, scendeva
direttamente dalla lontana Edimburgo (ma vado a memoria…), tra questi solchi
più decadente che mai: basti ascoltare il rumoristico intermezzo di clarinetto
su Mystic Man. E se è evidente che il
wha-wha esasperato di Buchan insegue certe fluidità funk-hendrixiane, i brani
sono più trasfigurati che psichedelici; più sognanti (Naked Breakfast) che lisergici. Addirittura parafilosofici nei loro
elaboratissimi titoli, tra cui spicca il fantastico Reality Presented As An Alternative. Ed è pur vero che il pezzo
migliore, Maybe Someday, è la cover
di un conterraneo fuoriclasse come Mike Heron della Incredible String Band, ma
le distorsioni su danza tribale di Appearance
Is Everything, Style Is A Way Of Living e le onde d’urto elettrico di Reality Presented As An Alternative
testimoniano di uno sciamanismo rock veramente crepuscolare che attraversa
tutte le tonalità della cenere per viaggiare senza meta tra un’apparente folk
elettrico che non ha paura di virare su sponde più robuste, addirittura hard
con Brush With The Midnight Butterfly,
fino ad intravedere quel che resta di tante estati dell’amore che sembrano
passate da decenni, pur se ancora fisse nelle memorie dei musicisti più come il
rimpianto di occasioni perdute che come il piacevole ricordo di felicità
sperimentate.
Notevole la copertina, che potrebbe essere uno schizzo di Goya
completato da un Bacon calato nello spazio metafisico di qualche De Chirico di
passaggio.
Inutile dire che il gruppo non avrà seconde occasioni…
Certo, questo unicum non sarà sempre facile da reperire in giro. Io ho
un vecchio CD usato… direi di stampa giapponese a giudicare dall’interesante
booklet. Va comunque peggio a chi pretende il 33 giri originale della Decca: non
sperate di spendere, oggi come oggi, meno di 300 euro…
The Human Beast - Volume
One (LP) – Decca - SKL 5053 – UK – 1970
A1 Mystic Man 6:47
A2 Appearance Is
Everything, Style Is A Way Of Living 4:31
A3 Brush With The
Midnight Butterfly 5:19
B1 Maybe Someday 6:19
B2 Reality Presented
As An Alternative 4:57
B3 Naked Breakfast 3:06
B4 Circle Of The Night 3:09
Etichette:
1970,
album,
decca,
hard rock,
progressive,
recensione
domenica 3 novembre 2013
Chi ha ucciso Evil Monkey?
La verità è quella che è, non quella che dovrebbe essere. Quello che
“dovrebbe essere” è una menzogna.
Diceva Lenny Bruce. E aveva ragione.
Mille cose “dovrebbero essere”. E invece “sono” e basta. E’ la vita.
Così anche musica fantastica come quella del primo album dei Velvet
diventa atroce alla diciannovesima replica “in loop”, nella penombra di un
divano che mai avrei pensato così comodo, tra il fumo di tabacco georgiano e
bottiglie vuote sparse in giro per la casa.
Severin, Severin, speak so slightly… E’
stata la viola luciferina di John Cale a svelarmi il fondo. Quando ti svegli attorno
alla mezzanotte di un venerdi sera senza troppi ricordi di quando ti sei
addormentato. Allora magari puoi anche guardarti attorno e pensare che c’è qualcosina
che non va del tutto.
Poi ci sono i momenti di “up”, quando butti via l’intera produzione di
Lou Reed (a proposito, gli sia lieve la terra…) e pensi che allora tanto vale ascoltare Ian Hunter, tanto Blonde
on Blonde lo conosci già a memoria (e pure lui immagino…) e ti infili gli
auricolari con su Sweet Angeline, che
mica è Sweet Jane. E’ meglio.
E finisci per pensare che quel cazzo di assolo di Mick Ralphs possa
essere il migliore che potresti mai ascoltare, anche se affogato nel fondo del
mix da un Guy Hamilton in vena di scherzi…
Torno sulla scena del delitto e cerco qualche traccia. Intanto sarebbe
utile trovare il cadavere da qualche parte. Ma non si trova. Se n’è andato pure
lui, assieme a tutte le altre prove.
Woke Up This Morning and Found Myself Dead. Poi ho pensato che meglio
un’altra soluzione.
E’ stato uno di quei bei risvegli alla Elmore James di Something Inside of Me, pieni di slide e
umida malinconia.
Pazienza. Anche perché le cose potrebbero addirittura peggiorare, ma a
questo punto non fa più molta differenza. I problemi sono alle spalle, la
consapevolezza di “quello che è” è la sempre la risorsa più importante… forse.
A proposito, chissà se c’è ancora qualcuno là fuori a sfogliare la
povere tra queste virtualissime pagine?
Un saluto ha chi ha avuto pazienza; e anche a chi no.
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