sabato 30 marzo 2013

Ragazzi progressivi, progressisti… oppure no?



Il Progressive, come lo insegnavano in Inghilterra, è un genere rassicurante.
Parla di cose meravigliose e sgargianti: favole medievali, allegorie e leggende, mondi sognati di troll e fate.
Rifugge l'attualità, la vita di strada, il quotidiano e i suoi mille problemi. Preferisce il Silmarillion a On the Road.  Dungeons & Dragons al football.
E' certo un genere colto; mica solo i soliti due accordi di Johnny Be Good, ma sinfonie in più movimenti. Cita Beethoven, Musorgskij, Šostakovič, Grieg. I suoi interpreti sono raffinati solisti e non ragazzotti scapestrati che suonano nei garage di Seattle.
Un album prog è un ascolto ponderoso, come un libro di Tolkien. Quando compri Yessong sai che potrà occuparti giorni interi prima di riuscire a possederlo del tutto. Non come un disco dei Ramones che dura si e no mezz'ora, che non ha nulla da spiegare e che alla fine ti lascia la voglia, l’esigenza di averne ancora, ancora un altro. Come una dose...
Il Progressive è un genere rassicurante. Preferisce il controllo al caos; cura la forma, ama l'eleganza e l'araldica. E' un genere idealista, crede nella possibilità di mondi perfetti. Ama i grandi uomini; le grandi imprese e le grandi storie.
Un genere – giova comunque ricordarlo - che ha dato alla storia della musica popolare capolavori assoluti: In the Court of the Crimson King, Pawn Hearts, Closet o the Edge…
E' veramente Rock?
E il fan del prog ascolta anche i Clash o preferisce Rachmaninov?
Chi è il fan del progressive? Chi è il musicista prog?
Un anarchico utopista che crede nella possibilità di una società perfetta o un conservatore che ambisce al controllo e alla giustizia ad ogni costo?
Un idealista che crede nella fantasia al potere, che si batte per un mondo nuovo, o un elitario che ha mal digerito i moti del ‘68 e si rintana in un mondo di sogno per fuggire da un’attualità, anche politica, che non gli appartiene?
Chi è il fan del Progressive?
Non mi ritengo un grande appassionato, ma mi ci metterei dentro comunque. Almeno credo.
Piersandro Pallavicini traccia l'identikit di questa bizzarra tipologia rockettara attraverso le pagine del piccolo saggio Quei bravi ragazzi del rock progressivo.
Quindi orecchie aperte: le prossime righe potrebbero parlare anche di voi…



Alla fine degli anni ‘70, un numero sorprendentemente grande di adolescenti fece una scelta a prima vista incomprensibile: dopo l’esplosione punk, in piena new wave, alle soglie dell’edonismo new romantic e di tutto il movimentismo pop anni ’8o, questi ragazzi decisero di muoversi controcorrente e concentrare le proprie passioni su quanto veniva ritenuto, in quel momento, più fuorimoda e obsoleto.
Cioè il Rock Progressivo e tutto l’annesso paraphernalia di fiabe crudeli, musicisti in costumi medievali, concerti faraonici a base di eclatanti trucchi scenici, copertine fantasy pluriapribili, supergruppi, super rarità discografiche, chitarre a doppio manico, batteristi con doppia batteria, tripli album e cofanetti quadrupli.
Fu una vera «controrivoluzione», innescata dalla nostalgia per qualcosa di grandioso e ormai passato che questi ragazzi, non avevano avuto il tempo di vivere... o piuttosto la scelta un po’ codarda dei soliti adolescenti “timidi e introversi” che non avevano il coraggio di uscire dal cocoon familiare e affrontare cambiamenti, movimenti e scossoni epocali?
Qualunque sia il responso, è arrivato il momento di portare finalmente allo scoperto le passioni, le manie e perché no le gesta (tra il folle e il ridicolo) di questo vasto movimento sotterraneo, di questo circuito di “ragazzi qualunque”, fedelissimi ai propri idoli musicali ma cosi imbarazzati nel confessare ai propri coetanei che loro, agli Style Council piuttosto che agli Smiths, preferivano qualcosa di piu’… come dire... impegnato. Che preferivano i Genesis, magari, se non i Jethro Tull. O, nei casi più disperati, i Gentle Giant e perfino i Van Der Graaf Generator!

Formeranno, questi futuri maniaci del rock progressivo, un gruppo di ragazzi omogeneo ma assai anonimo. Autenticamente sotterraneo. Per anni non si faranno sentire e ascolteranno musica nelle loro camere, disertando quei veri e propri riti collettivi di passaggio dai ‘70 agli ’8o che sono concerti epocali come quello di Patti Smith a Correggio piuttosto che dei Police a Milano.
Non si vestiranno da new wavers ma neanche, tantomeno, da fricchettoni seventies. Si attaccheranno al proprio buon rendimento scolastico, alla solidità della propria famiglia, alla certezza del proprio intramontabile abbigliamento (a base di camicie classiche e golfini) e, soprattutto, al ripetuto, ossessivo ascolto del loro ultimo, fantastico acquisto di qualche vecchia band progressiva…
...Forse perché non ne avrebbero voluto sapere del resto della loro generazione, consapevoli che vivere, come gli altri, la propria vita come un “assoluto avventuroso” avrebbe portato a un cupo orizzonte di disastri e morti premature.
Oppure, più semplicemente, perché troppo abitudinari o schivi per buttarsi nella mischia, fosse quella del movimentismo di cui si è appena scritto o quella della nascente massa godereccia dei “discotecari”.
Fatto sta che si infatueranno proprio del genere musicale più astratto e avulso dalla realtà che quarant’anni di storia del rock hanno saputo produrre! Appassionandosi in particolare a quegli aspetti del rock progressivo che prescindono dal background comunque giovanilistico—ribellistico, cui era imparentata, bene o male, la musica degli anni ’7o. Dunque poco interesse per il mito legato alla cultura della droga o alla vita sulla strada e tanto invece per certe polverose  abitudini cosi inglesi, tanto che il tè durante le prove del pomeriggio diventerà un vero rito, per i gruppi new progressive a venire.
Passeranno anni solitari, spesso compiacendosi nel sentirsi dei Don Chisciotte della musica rock e altrettanto spesso ignorando l'esistenza delle tantissime anime, italiane ed europee, progressive come la loro. Vivranno però la loro passione con caparbietà e serietà tali da costruire quella rete di rapporti prima solo interpersonale e poi pubblica (nella forma di fanzines, club, raduni e concerti) che avrebbe portato alle nuova ondata progressiva degli anni '80 e finalmente alla rinascita del genere. Con nuove band, nuovi
dischi e nuovi stili.

lunedì 25 marzo 2013

JPT Scare Band – Il Nulla al di fuori del Suono


Dai primi anni ‘70, da periferie anonime di Kansas City.
Sempre assieme. Sempre a suonare in quello stesso scantinato orrendo.
Chiusi dentro come in un Conclave per Santità Rock, con stormi di falene attorno e Buffalo Bill nascosto al buio, col coltello in mano.
Gloriosamente ignoti a tutti; addirittura inediti (I-N-E-D-I-T-I, 0 dischi, 0 singoli) fino alla metà degli anni '90, Paul Grigsby (bassista), Jeff LIttrell (battersita) e Terry Swope (chitarrista) sono i Supremi Invisibili.
Ben più di Zerfas o Granicus. Una band inesistente, oltre perfino al cavaliere di Calvino.
Dimenticate Helios Creed e Randy Holden. Dimenticate anche Keiji Haino, gli Sleep e gli Earth del secondo album. Scordatevi il Neil Young di Dead Man.
E’ esistita, ebbene si, la JPT Sare Band.
A questi non fregava un cazzo di fare canzoni. A loro interessava solo suonare.
I loro brani sono semplicemente continui, reiterati, insistenti, logorroici, dementi assoli. All’unisono. Basso, batteria, chitarra. Niente strofe, bridge, chorus. Una totale dedizione al free-form, spinta tanto da fare invidia a un Braxton o ad un Roscoe Mitchell.
Immaginate un 45 giri dei Cream riprodotto con la levetta del giradischi sul 33: gonfiato, esteso, deformato, piagato. Cantato con il mellifluo menefreghismo di chi parla ad una folla di sordi rinchiusa in qualche ospedale psichiatrico progettato dal Terry Gilliam dell’Esercito delle 12 Scimmie. La JPT si materializza proiettata nel tempo, come lo spaesato Bruce Willis che prova a salvare il mondo dall’epidemia. Senza riuscirci.
Il totale di tante parti è quasi un live dei Grand Funk suonato attraverso gli Sleep di Holy Mountain che succhiano avidi quella stecca di Quaalude rimasta nella tasca dello zaino per oltre vent’anni. Il  Mirror Man di Beefheart ricalcato da un Hendrix più strafatto di baccano di quello che suonò a Woodstock.
Gli unici termini di paragone plausibili sono sauropodi come Amboss degli Ash Ra Tempel e sopratutto Population II del “Vate” Randy Holden, ma del tutto privi del vagabondare cosmico e dell'aura mistica da guru capriccioso in favore di un ghigno e una siringa da teppisti da marciapiede. E con un basso elettrico che sembra veramente percosso da un gigantesco Hartmut Enke del profondo sud, un Titano Mancino dell'onda profonda che prende a prestito i giri più intontiti del Jack Casady di Saturday Afternoon per farne un bordone che al tempo stesso è enorme di suono e trascinante di ritmo: King Rat ne è il testamento assoluto. Un Death Metal degli abissi deformato da fumo afgano e LSD a litri, gettato impunemente nell’acquedotto dell’ultimo paese della frontiera.
La batteria di Littrell si ritaglia con la forza un autopsia di stonature in sottofondo; potrebbe stare in un’altra inquadratura, su un altro set, dalla parte opposta del globo, per come divaga senza guinzaglio, per come sbatte a destra e sinistra come una cassa da morto che cade dalla tromba delle scale del World Trade Center.
Su tanta ritmica potrebbe parere facile per Terry Swope  dispiegare una foga punk unita ad una perseveranza acida dal volume ignoto e da un feeling blues di ispirazione, assolutamente metal d'atteggiamento; che mai si nega il gusto del clichè ultra-macho, ma sempre talmente verboso da sommergere ogni noia con valanghe tidali di feedback esasperanti.
Brani di un quarto d'ora che passano rapidi e godevoli come una scopata sul retro di una Camaro; salvo poi risvegliarti in uno sconosciuto motel dalla parte opposta dello stato, mentre una grossa cimice trotterella allegra sulla tua pancia.
Wha-wha declinati in ogni forma, senza badare all'opportunità, al tempo e senza alcun freno inibitore. La James Gang di Funk #48 rinchiusa in una campana di bronzo che affonda nell’abisso, mentre i reduci dell’ Estate dell’Amore sono sbandati accattoni che mendicano una dose all’ingresso del vecchio Fillmore. Ma la porta è sprangata da anni. Non c’è salvezza per i reclusi nelle comuni rurali, per i Guru dell’amore libero, per i teorici yippie; Billy e Capitan America se ne sono andati da un pezzo col loro carico di “roba”.
Tracce di Black Sabbath che si prostituiscono all’acido e rinnegano ogni Dio, soprattutto quello più cattivo, anziano, con la barba bianca e un figlio pieno di problemi. Una selva di corde metalliche come violino e Gibson degli High Tide intrecciati assieme in un unico mefistofelico strumento, che nutre una jungla attraverso la quale si procede solo con un machete che urli di languori funky e stupefacenti forse ignoti perfino ai più estremi Funkadelic e al volante Reaper degli Guess Who.
E Jerrys' Blues dovrebbe essere una specie di slow bianchiccio da west side Chicago? O solo l'ultimo bootleg di qualche ramingo viso pallido perso in Maxwell Street? Veramente questi vogliono farci credere di sapere cosa sia il blues? Con quei minuti finali in cui il brano degenera in un altoforno di NWOBHM industriale?
Lo hanno ascoltato qualche volta, il blues, per radio, quando Clapton, Bruce e Baker stavano ancora sullo stesso palco. Quasi dieci anni dopo, sono ancora lì, sulla stessa stazione. Fantastico.
Ma quando attacca un insulto musicale come Rape Of Titan's Sirens lo stordimento è servito. Quando arriverete alla metà di Acid Acetate Excursion sarete irrimediabilmente persi in un dedalo privo di uscita, forse senza Minotauro, sicuramente senza il filo. Sono gli echi della Fender dell’ultimissimo Hendrix, quello più nero, quello intransigente; lo zingaro dell’iper-funky. Sono gli echi di uno strumento sotterrato come il tomahawk di un capo indiano di cui il Ku Klux Klan ha cancellato memoria e onore. Non c’è melodia, non c’è nessuna idea musicale. Ma non c’è neanche il puro rumorismo di Metal Machine Music o di certi Fushitsusha. Non c’è la meditazione trascendente di Earth 2.
C’è l’espansione totale degli spunti più anarchici di un Kaukonen bastardo, mischiato a qualche kraut-rocker atterrato bruscamente sulle esigenze progressive dei Blues Creation o della Flower Travellin' Band. Questo, ed un lercio pub di periferia in cui esibirsi due sere su tre, con le stesse quattro puttane che ti ascoltano prima di iniziare il turno. Per terra chiazze di birra, sangue e sperma.
E non cercate un senso dentro Time To Cry o Sleeping Sickness. Perché non c’è. Spirali che lasciano quel retrogusto di chimica marcescenza alle spalle; come nel sogno di una Detroit decadente e senza salvezza, in cui la lotta per i Sacrosanti Diritti ha lasciato il posto ad una scena frammentata di Fight Club clandestini in cui yuppies precoci sfogano il testosterone senza causa né ideologia.
Quando il brano più corto nel mezzo di un catalogo che di rado si abbassa sotto i 10 minuti, sono i 90 secondi di It's Too Late - follia backwords, incomprensibile, inutile, nichilista, falsamente psichedelica - allora è chiaro.
Il suono è il messaggio.
Chi se ne frega dei contenuti.

We travelled to the edge of the Cosmic Universe and returned semi-intact
Jeff Litrell

venerdì 22 marzo 2013

J. Geils Band - Full House


Nel 1972 chi stava alla moda decadente dell’epoca andava ai concerti degli Stones; per chi voleva sballare c’erano i Led Zeppelin. Ma chi si voleva davvero divertire doveva andare a vedere la J. Geils Band.
Un sestetto di fuorusciti dalle paranoie piovose della East-Cost, devoti ad Otis Rush più che a Beatles o Cream, che dopo un paio di album di intenso blues urbano si scatenano sul palco di questo "Live" Full House sfoderando un mordente rock-blues ben più poderoso e distruttivo di quanto avessero mai fatto Mayall o Butterfield. Attorno al super dandy Peter Wolf, che gestisce con galante sciatteria First I Look At The Purse o Cruisin' For A Love, c’è il virtuoso armonicista Magic Dick che si diverte in Whammer Jammer, la foga hard di John Geils in Hard Drivin' Man e tutta l’eclettica disponibilità di Seth Justman a dipingere sfondi di intenso Hammond a 12 battute. Serves You Right To Suffer, imponente slow blues chicagoano, sta nel mezzo di tutto, come un totem in onore di John Lee Hooker.

lunedì 18 marzo 2013

Bambole, terminali e cieli stellati


Nel Vecchio Mondo, la scena rock tedesca degli anni '70 fu, per popolarità, seconda solo a quella britannica. Per volume di vendite, distribuzione e bacino d'utenza fu probabilmente dietro unicamente al mercato USA.
A posteriori facilita molto l'analisi "storica" del movimento collocare nel Festival di Essen del 1968 - Internationale Essener Songtage 1968 - quello snodo indispensabile attraverso cui band sperimentali, moderniste, originali ma tutto sommato semi-amatoriali, ebbero quel riconoscimento pubblico da parte della comunità intellettuale necessario a tenere a battesimo un vero e proprio genere oggi etichettato come Kraut-Rock. Una Woodstock europea di spessore artistico ben maggiore rispetto a quella più celebre su suolo americano.
E se in quella scena, che si sarebbe protratta come “in volo” per almeno un lustro, i musicisti non mancarono, anche il contorno grafico, ispirato in parte alle auto-produzione del Fillmore e di tutta la scena di San Francisco, dovette presto adattarsi ad un genere fantasioso e robotico allo stesso tempo, ma anche sintetico, digitale, spaziale, macchinista e industriale.
Alcuni sono i nomi che spiccano: Reinhard Hippen, Gunther Kieser e Peter Geitner.

venerdì 15 marzo 2013

Far East Family Band – Nipponjin



On the edges of the earth
There a new and virgin land
I just want to feel it with my eyes
There a new and virgin land
Waiting in the Northern lights
l just want to feel everything
Mysteries a thousand puzzles — waiting there
I just want to see it for myself

mercoledì 13 marzo 2013

Alla ricerca del Trip Primordiale



Un’incursione sotto copertura per le strade di US Hard Rock Underground; veloce, giusto il tempo di spolverare un vecchio articolo di Classic Rock Magazine datato 2007, riemerso dalle nebbie del tempo grazie alle fitte maglie della Rete: Lost Pioneers of Heavy Metal.
Steppenwolf, Led Zeppelin, Cream, Black Sabbath. Tanti nomi, molti ignoti, qualcuno di culto. Ovvi riferimenti ad Iron Butterfly, Blue Cheer, Bloodrock e Captain Beyond. Il ricordo meno banale di un mastodonte dell’ Underground di qualità: Peter French già con Cactus, Atomic Rooster ma sopratutto Leaf Houd, una delle definitive riscoperte del metallo di marca Zeppelin nel Regno Unito (Freelance Fiend, per gradire).
Eppure, pur tra tanti pretendenti, solo una gang merita il titolo di Suprema Band Insistente, Portatori del Trip Definitivo, Megalomani della Libertà Temporale, Cercatori della Pesantezza Insostenibile.
Loro sono la JPT Scare Band, di cui presto si riparlerà in maniera ben più approfondita - e agiografica, tanto vale ammetterlo subito.
Un gruppo fatto non per suonare canzoni, ma per trasmettere vera paura sonora.

venerdì 8 marzo 2013

La pila


Da qualche mese sta accanto allo schermo del PC; è in equilibrio sempre più precario; oscilla mentre scrivo, getta anche ombra sulla tastiera.
È “ la pila”.
Si è formata come per stratificazioni geologiche, nel breve tempo di qualche mese.
E’ composta da 54 CD. Alla base un doppio dei Doors, Population II di Randy Holden e un Live dell’Art Ensemble of Chicago. In cima Bassholes, i Monster Magnet di Superjudge e Nick Cave.
Qualche nome a caso nel mezzo: Museo Rosenbach, Motorhead, John Lee Hooker, The Heliocentric Worlds of Sun Ra. Poi Sonics, Suicide, Barracudas, Joy Division…
Da quando è così imponente mi mette un po’ di soggezione. E’ una strana creatura: così precaria, così cosmopolita, così eterogenea. Se ne sta sempre in silenzio, pur contenendo decine di ore di musica. Personifica un po’ lo spazio stesso della musica “vecchia maniera”. Uno spazio fisico, tridimensionale. Ingombrante.
Mentre batto sulla tastiera, sembra annuire.
Un totem.

mercoledì 6 marzo 2013

REO Speedwagon – T.W.O.


E vai col Classic Rock da manuale! Cantante con accenti sexy, chitarrista di ampio volume e ipercinetica tendenza, tastierista tuttofare e sezione ritmica…beh, che tiene il ritmo. C’è tutto e di più in T.W.O. titolo del secondo LP degli allora ignoti REO Speedwagon. Un disco che oggi può apparire assai impolverato ma che pure allinea una batteria di pezzi che consentiranno alla band di sfamarsi negli amari anni prima di Keep On Loving You. Dalle assolate visioni autostradali alla Easy Rider di Let Me Ride e Golden Country (e chi sono, gli Eagles?) alle sempre rollingstoniane Little Queenie e Flash Tan Queen, passando per l’obbligatoria ballatona hard di How The Story Goes, un pezzo che non sarebbe dispiaciuto a Tyler & Perry; fino ai rock veramente azzeccati di Music Man e Like You Do in cui il buon Kevin Cronin si dimostra una scelta più che vincente per sostituire l’impersonale Luttrell.
Consigliato non tanto ai fans di Hi Infidelity quanto ai devoti del puro sound USA dei primi anni ’70.

venerdì 1 marzo 2013

Noise, War & The Circle Review



TheCircle Review è il titolo di una rivista letteraria prodotta dal ring “Il circolo delle arti”, creata dalla passione del curatore Lorenzo V. e dalle proposte letterarie di un pugno di blogger che hanno dedicato al progetto scritti inediti e assai interessanti.
La rivista è scaricabile gratuitamente, in formato pdf al seguente indirizzo:


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