Paganesimi Elettrici è scaricabile, gratuitamente da:
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... ma esiste anche la versione cartacea! Non è in vendita, però...solo in regalo!
per info: theevilmonkeysrecord@libero.it
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PRESENTAZIONE DELL’
E-Book “PAGANESIMI ELETTRICI”
Nel cyberspazio dei blog musicali, e in verità anche tra le pagine
della stampa specializzata, la “recensione” dell’album è ancora uno dei pezzi
forti, il formato perfetto per ogni post, per ogni colonna da riempire,
soprattutto per fare, nel bene e nel male, un po’ di propaganda.
Eppure c’è sempre qualcosa che non convince del tutto.
Sul versante internet, per esempio, è quasi inevitabile che ogni
blogger finisca per recensire ciò che più ama e di cui ha più piacere di
scrivere e diffondere, col risultato che sommando le opinioni di ogni spazio
web abbiamo sempre album “fantastici, eccellenti, seminali…”. Non per scarso
spirito critico o eccessiva superficialità, ma per troppo amore verso la
propria musica.
Una seconda considerazione, più ampia, che può interessare anche la
carta stampata: ha ancora utilità recensire un album in un’epoca in cui
chiunque, in pochi secondi, può ascoltarlo senza spendere un centesimo? E’
ancora un’ opinione utile o semplicemente pubblicità? Chi si ricorda gli anni
’80 e ’90 si ricorda anche di prezzi in vertiginosa ascesa, compact disc che
all’alba dell’Euro erano arrivati a costare ben oltre le 35.000 lire. Certo che
all’epoca, in mancanza di uno spazio comune sul web, ogni acquisto doveva
essere ben ponderato, e prima di spendere somme che per qualcuno, per tanti
ragazzi squattrinati, potevano essere anche importanti, documentarsi era
d’obbligo. Si può dire lo stesso oggi?
Greil Marcus, in tempi non sospetti, già sosteneva che "la
recensione musicale è una forma morta. A nessuno frega un cazzo di cosa pensi di
un disco che hai recensito".
Ultima considerazione, o meglio provocazione: ma l’album si ascolta
ancora nella sua interezza? O forse si riversano centinaia di canzoni in
playlist infinte, ordinate un po’ a caso sull’ I-Pod, scaricate chissà da dove
e suonate chissà da chi?
Partendo da questo triplice ragionamento, cercando di sfuggire alla
stereotipata tendenza di incensare l’album perfetto, di usare le solite “frasi
fatte” da buona recensione e provando a non offrire solo opinioni “private” e personalismi
scritti, sono nati questi “Paganesimi Elettrici”.
Non si è rinunciato ai dischi preferiti, bisogna ammetterlo, ma si è
cercato di collocarli, ricontestualizzandoli per semplici associazioni di idee,
in una prospettiva – perché no? – letteraria tutta differente.
Ne sono così risultate recensioni romanzate, o meglio romanzesche,
anche nel senso più manierista del termine, che inseriscono un gruppo rock, un
suo album, la sua storia, in uno scenario spazio-temporale completamente
differente.
I Musicisti diventano spettatori di vicende realmente accadute in
nicchie storiche inconsuete; la loro musica fa da sfondo ad avvenimenti reali o
trame avventurose prese a prestito da Salgari, Conrad o Edgar Allan Poe,
condensati in racconti brevi.
1. LA BATTAGLIA DI
DEORHAM
2. LA MASCHERA DELLA
DIVINITA’ DANZANTE
3. IL NAUFRAGIO DI
ATLANTIDE
4. ASTAROTH AL FUNERALE DEL CAVALLO
4. ASTAROTH AL FUNERALE DEL CAVALLO
5. WIM WENDERS E IL
FAUNO
In quella cantina vuota il metallico sibilare della macchina da presa rimbombava come il ronzio elettrico di un enorme insetto robot imprigionato in una ragnatela. Poco sole filtrava da lucernai ingrigiti e le riprese erano sfocate ed oscure. Shart con i suoi bonghi aveva lo sguardo perso mentre Peter Leopold, ennesimo batterista, imperterrito, lucidava gli immancabili occhiali neri.
I primi accordi di Kanaan fecero sobbalzare il Principe Viaggiatore che si risvegliò dal suo torpore antico scrollandosi da dosso la polvere e il sonno: era una musica che si sarebbe più facilmente ascoltata nei serragli ad est di Erzurum, dove la via della seta incontra gli ultimi monasteri ortodossi prima di perdersi nello zoroastrismo persiano. Accordi modali di chitarra, rintocchi di vibrafono e tabla insistenti tutt’attorno, come se la melodia trovasse ispirazione dalle minoranze curde che ora si nascondevano negli anfratti della Germania nazista. La linea vocale, in un idioma ignoto, poteva sembrare greco antico quanto sanscrito o un perduto dialetto indoeuropeo: parlava di disperazione, di perdita, sommessamente recitava un esorcismo che scardinasse quell’aura di morte opprimente che aveva avvolta l’Europa come una pestilenza biblica. Il controcanto di Renate Knaup, con voce da sirena stanca, armonizzava le spigolosità di una psichedelia ritardataria e scontrosa, cresciuta lontana dalle spiagge assolate di Venice o Coronado. In chiusura, una balbettante coda di jazz derviscio per chitarra cercava inutilmente di lenire il cupo umore del resto della band.
Il giovane regista scrutava il gruppo, immobile dietro l’oculare di una cinepresa anch’essa immobile: il quadro immutabile ritagliava mezzi volti, mezzi sguardi e qualche ombra. Il Principe Viaggiatore scrutò tutt’attorno a sé. Dal buio apparvero volti deformi, ghigni spastici, occhi a mandorla, visi moreschi, barbe fluenti.
Al di fuori della cantina della masseria, la campagna della Baviera era scossa dai frustrati rastrellamenti delle ultime compagnie SS superstiti. In quella fresca primavera del 1945 il Terzo Reich era accerchiato da ogni parte: mentre i Russi penetravano da ovest, le truppe di Patton unite a battaglioni Anglo-Francesi cercavano un varco in direzione sud, verso l’Austria: caduta Norimberga, presa Monaco, gli alleati erano sulle tracce dell’ultimo fantomatico Ridotto Nazista Alpino che si diceva controllasse ancora i passi delle Alpi Noriche e gli accessi all’Italia Settentrionale, asserragliato in antichi forti austroungarici scavati nella roccia e pronti a resistere ad oltranza all’avanzata degli eserciti Impuri. Mortificato, ferito e sbandato, l’esercito tedesco era in realtà un orrendo mostro sanguinolento e delirante che cercava di lasciare dietro di sé la più atroce scia di morte, prima di soccombere esso stesso sotto i colpi degli Alleati. Nella Baviera del sud, alle prime propaggini delle Prealpi, gli irregolari del Colonnello Gunther Hildebrandt avevano da alcune settimane iniziato una repressione sistematica ed ignobile nei confronti di ogni persona che solo si rifiutasse di eseguire pubblicamente il saluto al Fuhrer. Tra le vittime preferite c’erano disabili, omosessuali, malati cronici. Poi stranieri, turchi, orientali, gente di vari colori e fogge, disertori, collaborazionisti. Ma anche artisti non allineati, pittori, cineasti e documentaristi. Che ora, con imam e rabbini uno a fianco all’altro, condividevano un rifugio improvvisato nella cavernosa cantina della vecchia masseria del Principe Viaggiatore, persa tra i boschi radi di Rosenheim, alla ricerca di riparo dalle rappresaglie e dalle vendette.
Eppure, fino all’interno di quelle pareti di sasso, penetrava il rumore dei disperati cannoneggiamenti della Wehrmacht, che tiravano alla cieca con il solo intento di spargere paura tra gli innumerevoli che speravano in una rapida fine del più aspro conflitto che l’uomo aveva mai conosciuto. Lo Standartenführer Hildebrandt era cresciuto al temutissimo RuSHA, Ufficio Centrale per la Purezza della Razza, e durante il conflitto era più volte stato promosso sul campo. Già a capo di uno squadrone della Morte non riconosciuto ufficialmente dalle SS, che aveva falcidiato militari e civili francesi in ritirata dopo la disfatta di Lille, aveva fama di essere il più sanguinario e violento ufficiale ancora attivo nel teatro di guerra centroeuropeo. La sola idea della sua presenza tra le alpi bavaresi aveva gettato nello sconforto tutti i partigiani della zona, ora dispersi e abbandonati.
Il Principe Viaggiatore, confidando che quella sua sperduta e diroccata masseria avrebbe offerto, se non una protezione, almeno un nascondiglio efficace, contemplava la varia umanità di quella Corte dei Miracoli a cui aveva offerto ospitalità. I ragazzi che suonavano avevano visi tirati, capelli lunghi, barbe folte, pastrani multicolore. Erano l’opposto del modello che la Hitlerjugend aveva per anni contrabbandato come l’unico tipo umano possibile e degno di riprodursi. Non brandivano MP 40 ma chitarre, violini e tamburi africani. Il nucleo storico di quel gruppo veniva da Monaco in cui, per un breve periodo, aveva diviso le ventotto stanze della Kommune nel castello medioevale di Kronwinkl con scultori, pittori, terroristi e installatori futuristi; era la base operativa della controcultura bavarese. Da lì partivano sabotaggi, azioni dimostrative, sit-in di protesta e concerti gratuiti allietati da sesso libero ed ogni sorta di droga sintetica. Non era durato molto. Si erano trovati un nome vistoso, Amon Duul, derivato dalla fusione di Ammone, il Misterioso, defunta divinità egizia del sole, e Düül, la storpiatura della parola anatolica “luna”, portata in Germania dalle squadre di proletari turchi in cerca di lavoro dei mastodontici cantieri del Reich. Tale nome, unito alle loro attività sottoculturali, era valso loro l’accusa di essere contrari allo spirito del Nazionalsocialismo e ferventi antipatrioti. Minati poi all’interno da dispute sulla linea da seguire, si erano scissi in due gruppi, chiamati semplicemente Amon Duul I e II: i primi identificavano nella Politica la sola via per la lotta e il cambiamento; gli altri, ora intenti ad accordare le chitarre in quella cantina dimenticata, erano l’ala artistica e musicale. Non fu un distacco facile, anzi rappresentò una frattura importante anche ideologicamente: poteva la Musica cambiare il mondo o questo era compito esclusivo della Politica? Gli anni del Greenwich Village e Blowin’ in the Wind erano morti e sepolti e la dimostrazione violenta sembrava l’unica arma rimasta ai dissidenti. O forse, questo pensava il Principe Viaggiatore, anche la Musica di per sé, o ancora di più, ogni suono, ogni rumore meditato e pubblico costituisce già azione politica? Gli slogan, le dichiarazioni, le esternazioni esplicite sono sovrastrutture secondarie e non richieste.
Forse così la pensavano anche Chris Karrer, un polistrumentista free jazz, busker di vocazione eppure ambizioso e caparbio, e John Weinzierl, un ottimo chitarrista Rock in grado di spaziare dai raga acidi americani al più epico metal europeo; Peter Leopold era un batterista di formazione jazzistica che non ne voleva sapere di 4/4 e di ritmi pari, conferendo ad ogni canzone una caracollate ritmica da danza asburgica. Erano questi tre il cuore musicale dagli Amon Duul II; a loro si era aggiunta in breve tempo una pletora di ottimi comprimari come la cantante Renate Knaup, Yoko Ono senza impalcature concettuali e con un sex appeal dark e ben più sinistro di Grace Slik; Falk Rogner, un illustratore abile nel collage e nella manipolazione della fotografia che a tempo perso suonava uno scassato organetto Farfisa e si dilettava ad esplorare le infinite possibilità timbriche del sintetizzatore, offrendo al gruppo un’atmosfera elettronica molto low fi, da garage band con aspirazioni progressive, in grado di abbozzare armonie sottese e affossate nel mix, capaci di fuoriuscire in maniera inaspettata come l’immagine non riflessa di un fantasma nello specchio. Dave Anderson, cittadino inglese in territorio nemico, reclutato dai Kippington Lodge di cui era roadie, era il collegamento del gruppo con la scena Britannica ed in particolar modo con gli squatter drogati di Ladbroke Grove che si stavano organizzando in un ensemble di rock aerospaziale che presto sarebbe stato il braccio inglese degli Amon Duul: gli Hawkwind. C’era poi una schiera di percussionisti e freak multicolori fuoriusciti dalla sponda politica della comune subito dopo la pantagruelica incisione di Psychedelic Underground, una session continua di oltre venti ore, quasi un’installazione artistica permanente piuttosto che una seduta di incisione. Questo era il pittoresco plotone che occupava parte dell’ampia cantina del Principe, condividendo il nascondiglio con centinaia di altri diseredati, cercando di esorcizzare con la loro musica sballata una realtà troppo orrenda per sembrare vera.
Dalla parte opposta stava l’uomo con la macchina da presa, perennemente accesa, perennemente fissa sulla musica; impassibile nell’immagazzinare immagini che un giorno, forse, sarebbero diventate ricordi.
Dopo un momento di silenzio seguito ad una forte esplosione udita distintamente da tutti, il gruppo riattaccò con la musica, sperando di oscurare almeno il fragore delle bombe distanti.
Quello di Den Guten, Schönen, Wahren è un western nordico, con accenni all’epopea nera di Calvary dei Quicksilver, intriso del maligno canto di una Baba Yaga tentatrice che disturba il sonno dei bambini: una suadente doppiezza melliflua, che distorce il già caricaturale canto di Rob Tyner in Ramblin' Rose. Poi, quello che comincia come un brano sottile, elettroacustico, si assesta su un riff di poderoso hard-rock e sfocia nel ritornello di un’orchestrina bavarese che suona ubriaca in una bierfest di provincia, con l’aggiunta del violino demoniaco di Karrer e la solita voce lontana di Renate, dispersa nei meandri di un dedalo di visioni bibliche piegate al servizio della tremenda ideologia della Svastica: così i bambini che corrono a Lui si risvegliano come in un incubo, con la testa rasata, al pianto delle madri lontane, offerti in sacrificio al Moloch. Tutto per servire il Buono, il Bello e il Vero, storpiando la frase che fu incisa sul frontone del teatro Alte Oper di Francoforte, che ora giaceva riverso tra i bombardamenti.
Kommet zuhauf und seht ihn euch an
Das Haupt kahlgeschoren und lächelt noch
Frisch ans Werk, 's ist gleich getan
Hängt ihn auf, den geilen Moloch – ja!
Alla fine ci pensa Weinzierl a dare il colpo di grazia con un orrendo, deforme, cacofonico, assolo di distorsore: dei Grand Funk paranoici, distrutti da acido e benzedrine, concludono il brano in rapida assolvenza.
Dietro l’occhio immobile della cinepresa, il giovane regista dalla zazzera bionda montava scatole argentate circolari di pellicola provocando, di tanto in tanto, un fragore metallico incontrollato che faceva scendere un brivido lungo le schiene dei rifugiati. Nell’angolo opposto dello stanzone, una giovane famiglia mediterranea, avvolta in manti dai colori sgargianti, cullava la quiete di due neonati con cantilene dalla lingua strana.
Gli squadroni della morte di Hildebrandt stavano certamente passando al setaccio i boschi vicini, sfogando la loro frustrazione su ogni vivente gli si parasse davanti.
Il Principe Viaggiatore aveva concesso agli Amon Duul di suonare ancora per un po’, sperando di allentare quella tensione spasmodica e afosa che si respirava da giorni nel chiuso di quel nascondiglio. Eppure l’Arte di quei ragazzi non allineati si portava ancora dentro quel carico di angosce e rimorsi sommersi che il Reich aveva steso su tutta la Germania come un pesante sudario scuro. La loro musica voleva essere la stessa degli Alleati, degli Inglesi, degli Americani: una nuova razza di uomini che per la prima volta mettevano piede, armati, nel cuore dell’Europa, portandosi dietro Chewing gum, Lucky Strike, Coca Cola e Rock n’ Roll. Oggetti seducenti di rilucente capitalismo, tutti rigorosamente senza limite nè istruzioni per l’uso; tanto più la musica, che i tedeschi trattavano con la stessa curiosa meraviglia con cui i bambini maneggiano i cubi per le costruzioni: un epocale fase orale nella quale un nuovo Rock veniva smontato e rimontato, impugnato con la stessa imperizia con cui i neri impararono, a modo loro, a suonare chitarra e tromba, gli strumenti portati dai bianchi conquistatori.
La loro versione di quel Rock n’ Roll era modellata sul duro accento tedesco; sostituiva, alle solari visioni cortesi del regno di Artù, i rituali di una demonologia slava e mediorientale ben più drammatica e cosmica; rifiutava l’illuministico equilibrio del preciso flash rock di Close to the Edge o Dark Side of the Moon in favore di un romanticismo temprato da Friedrich e dal Faust della notte di Valpurga; preferendo le streghe tanto alla povera Margherita che alla divina Elena. Era una musica forgiata dal demone Samiel assieme alle sette pallottole fatate del Franco Cacciatore durante la tempesta notturna della Gola del Lupo.
Schütze, der im Dunkeln wacht,
Samiel, Samiel, hab acht!
Steh mir bei in dieser Nacht,
Bis der Zauber ist vollbracht!
Salbe mir so Kraut als Blei,
Segn'es sieben, neun und drei,
Daß die Kugel tüchtig sei!
Samiel, Samiel, herbei!
Proteggi, tu che vegli nell’oscurità,
Samiel, Samiel, presta attenzione!
Stammi vicino in questa notte
finché l’incantesimo è compiuto!
Consacrami erbe e piombo,
benedicile sette, nove e tre volte,
perche le pallottole siano valide
Prima di Phallus Dei, album d’esordio degli Amon Duul II, non si era ancora parlato esplicitamente di Rock Gotico, ma quella appariva ora l’unica definizione possibile per un LP talmente tetro che sembrava veramente inciso in quella cantina, attorniato da tanta varia e diversa umanità perseguitata.
Luzifers Ghilom, a dispetto di un attacco scuro, fatto di grida e cigolii di catene, dispiega su un infinito tappeto percussivo un folk da battaglia che può essere Sister Ray in versione acustica, una sfrenata tarantella mediterranea, un sirtaki rivisitato o una freak-out jam texana. Poi arriva Karrer, sia nell’inestricabile gramleau anglo-tedesco quanto in uno scatenato scat a cappella, e chiarisce le cose: non è una musica, sono tante suonate tutte assieme. I due batteristi seguono ognuno la propria idea ritmica che mai coincide con quella del collega né tanto meno con quanto i chitarristi vanno perpetrando nel barrage circolare ed apparentemente inarrestabile. Da qualche parte, a metà del brano, il Principe Viaggiatore sentì chiaramente un’invocazione, pur difficile da comprendere, in quel linguaggio bastardo:
“Give me a land, it’s going to be real!”
Restituire la terra, quella stessa che aveva fatto scorrere sangue in mezza Europa. Allestire un rito cosmico per purificare un’intera generazione dai crimini dei padri, dagli omicidi, dagli assassini, dalle stragi gratuite e dalle discriminazioni. Poteva essere possibile? Intanto il brano proseguiva: Karrer, imbracciato il violino, stava intonando un lenta marcia funebre, addirittura un requiem tzigano per voci allucinate e malate, assecondato dai classici, inconfondibili riff perifrastici e ipotattici di chitarra che sarebbero diventati marchio di fabbrica del gruppo. Un andamento ondeggiante, ricadente, troppo esausto per reggersi in piedi, in continuo collasso, eppure imperterrito.
Nei due minuti marziali di Henriette Krötenschwanz era impossibile non avvertire la chiara ascendenza di White Rabbit nella ritmica e nel crescendo dinamico, mentre Renate si divertiva ad impersonare un mezzosoprano sul palco di un songspiel di Weil. Ma il coniglio bianco non ritroverà la strada di casa nel colorato Paese delle Meraviglie: è come disperso tra le suite di After Bathing at Baxter's, album così eccessivo da avere un impatto notevole su tutta la scena tedesca.
Di fuori, tra castagneti antichi, la marcia dei tamburi era assecondata a poca distanza dal tragico passo dell’oca dello squadrone di Hildebrandt. Sfondavano porte, incendiando fienili e massacrando animali, cose e persone, se per sventura capitavano sotto il loro sguardo.
Lontano, nella capitale, sull’altissima ziggurat dorata al centro di Berlino, gli ultimi gerarchi stavano ricurvi a scrutare il Reich che sprofondava in un mare di fiamme rossastre.
Sotto l’occhio immobile della cinepresa, gli Amon Duul attaccarono il loro brano-manifesto, quello che li avrebbe resi autentiche celebrità dell’underground: Phallus Dei, osceno ma non volgare già dal titolo.
Inizia con un montaggio estemporaneo di grida, rumori, sbarre e catene, sirene antiaeree, squassi di trombe abbandonate nei golfi mistici deserti dei teatri di città. In alto, i gerarchi, i massimi ufficiali, i dignitari e i ministri allungano il collo spennacchiato scrutando di sotto. Loro non sono soldati, ma burocrati; non sono statisti ma contabili; non intellettuali ma ideologi Non hanno la divisa, vestono in giacca grigia. Non hanno nemmeno la pistola al fianco. Si difendono con l’ignoranza altrui.
Dave Anderson carica un riff incalzante di basso e i chitarristi gli si lanciano appresso inscenando una blues-jam tra Wheels Of Fire e il Bloomfield di East-West, forti di una percussività ancora sconosciuta e di uno sfondo nero ripescato da Stooges o Doors o Velvet o Stones; o da tutti, contemporaneamente. Mentre il rock britannico, con le cerebrali improvvisazioni di Clapton, aveva scoperto un insospettabile tasso di autoreferenzialità, tanto grande da farlo presto sprofondare, nella bassa Baviera, ma anche a Colonia, a Dusseldorf, ad Amburgo i pionieri tedeschi ricostruivano da capo le regole del gioco. L’organo di Rogner indulge sulla stessa nota per minuti interi, profondo nel mix, per poi emergere, di tanto in tanto, sfiatando arabeschi come Manzarek in When The Music's Over o Doug Ingle da qualche parte in In-A-Gadda-Da-Vida, mentre Erik Braunn imita il barrito dell’elefante sulla Gibson. E’ un quadro di Bosch che prende vita, sono i Grandi Capi del Nazismo prigionieri della loro stessa torre, rinchiusi su, in cima. Il rito ha inizio. Si risveglino le creature del passato: i Titani, i Giganti, le Gorgoni, il Minotauro, spiriti celesti zoroastriani, Jinn arabi. Tutti diano l’assalto finale al monolite del pensiero assolutista e negazionista. Il pensiero che nega l’altro, chiunque esso sia; che nega la diversità, la multiformità. La difformità e la malattia. La musica rinforza, una nuova pellicola sulla cinepresa. Il regista non manca un attimo della performance: il gruppo spinge sull’acceleratore, un rave-up cosmico quasi illumina tutta la cantina di pietra. Dopo dici minuti di improvvisazione furente, Karrer si rimpossessa del violino: secondi di silenzio, una melodia gentile appena accennata. I Fauni di tutti i boschi danno l’assalto definitivo alle sfiancate SS. Combattano con frasche di salice e rami di quercia, al ritmo di tabla, tamburelli e batterie: un arsenale pacifico che introduce il tema definitivo in un girotondo enorme e vorticoso. Si schiudono le porte di ogni rifugio: turchi, africani, arabi, polacchi, ebrei, storpi, deformi, disabili, omosessuali, matti e profeti si riprendano pure la terra che gli appartiene. Dopo alcuni minuti di percussioni tanto insistite da creare una tensione insopportabile, Weinzierl e Karrer legano chitarra e violino a filo doppio in una danza antica e silvana. Poi il ritmo rallenta e genera il riff più mostruoso e meraviglioso dell’epoca: l’esorcismo ha inizio.
AKABARA NOW!!!
Seraphine cries how
Minotaurus ran
They broke the magic stick
Is creeping 'round the mill
AKABARA NOW
Il Minotauro mena fendenti di clava alle fondamenta della ziggurat che collassa come un castello di carte portandosi dietro generali, teorici della razza, dittatori e propagandisti. Il girotondo continua e potrebbe durare in eterno. Il riff che si nutre di sé stesso avanza come la Ruota dei Tarocchi, scendendo dalle colline verdi e gialle del tramonto verso le conurbazioni di Monaco, Augusta, e Ratisbona. Giorni e giorni ha continuato. L’Arte, che fonde in sé le bellezze più diverse, aveva sconfitto il Mostro.
Il Principe Viaggiatore non aveva mai assistito ad un rituale di quella portata.
Un sole umido sorgeva dietro le colline del Simsee quando la chitarra di Weinzierl, stremata, si assestava su un riff rallentato, rubato ai Kinks di Come on Now. Le truppe alleate avevano sfondato ogni resistenza, Patton avanzava sicuro sull’ Austria, mentre lo sterminato esercito dalla Stella Rossa aveva in mano la capitale. I Fauni, le Gorgoni, il Minotauro e i Titani tornarono ad assopirsi tra le felci del sottobosco.
La cinepresa ancora riprendeva immobile il gruppo avviato al termine di una maratona sonora che allora aveva pochi rivali nel pur debordante panorama musicale del suo tempo. La luce era entrata gioiosa dal portone finalmente spalancato, illuminando una stanza ormai vuota. Tutte le diversità erano libere nel Mondo, percorrendolo senza più nascondersi, arricchendolo con le loro storie, le mille lingue diverse, i vestiti dalle fogge sgargianti.
I ragazzi del gruppo avevano già riposto gli strumenti: non serviva un veggente per predire loro un futuro di luminosa e misconosciuta Arte.
Il regista impilava meticolosamente le scatole di pellicola; la cinepresa era ancora ritta sul treppiede, pronta a divenire il simbolo supremo di una nuova e subdola dittatura. Ora, spenta, non emetteva nessun rumore; nessun ronzio di insetto metallico. Faceva meno paura.
Il principe Viaggiatore ripose nel suo zaino una copia di Phallus Dei, ammirando a lungo quella copertina bluastra che sembrava uscita dalla tela di Friedrich.
Poi, girato il cavallo, lo spronò verso un tempo lontano, attraversando i filari scuri di querce su cui si infrangono le onde della Musica Perfetta.
4. Astaroth al funerale del Cavallo
La rocca si ergeva solida sullo scoglio in tale continuità con la
pietra calcarea da non potere distinguere dove cominciasse il lavoro dell’uomo
e finesse quello della natura, dove cominciasse la geologia e finesse
l’architettura. Tutt’attorno il bassopiano arido e giallastro sfumava
inesorabile verso le sabbie morbide del deserto di Thar, mentre ad est i pendii
verdastri dei Monti Aravalli chiudevano la strada al monsone estivo. Il
bastione di Mehrangarh pareva lì da millenni, addirittura da ere geologiche
intere, levigato prima dai venti poi dagli scalpelli. Fondato secoli addietro
da Rao Jodha, uno dei ventiquattro figli di Ranmal, divenne presto il simbolo
del potere per tutta la casta dei Rathore. Da pochi anni era diventato la sede
provvisoria del governatorato britannico nel Rajastan.
Il Principe Viaggiatore era ospite di Sir John Anthony Brown,
responsabile della East Indian Railway nella regione, incaricato dal Viceré in
persona di soprassedere all’ispezione dei territori occidentali col fine di
verificare la possibilità di aprire nuovi tracciati per collegare Jaipur alle
remote terre sul confine del grande deserto di Thar.
Salendo lentamente a dorso di mulo lungo il selciato che si
inerpicava verso l’unico accesso al forte, il Principe ascoltava con noncuranza
il chiacchiericcio fitto di Robert Maitland Brereton, Ingegnere civile inviato
da Calcutta per verificare la fattibilità di una galleria nelle basse valli dei
Monti Aravalli. Brereton, responsabile di altissimo grado dello sviluppo
infrastrutturale di tutto il sub-continente, parlava incessantemente di quanto
fosse enorme e vario il territorio britannico nel Deccan e dell’immane mole dei
cantieri aperti per migliorare le comunicazioni, via strada, ma sopratutto via
ferrovia, tra la capitale e le altre città maggiori. Parlava di montagne
sventrate, di ettari di foresta ordinatamente cancellati, con cataste di
tronchi e rami alte oltre venti metri ammassate lungo spianate polverose che
attendevano di essere ripulite e lavorate per farne eleganti traversine. Ponti
in acciaio, trasportati pezzo per pezzo via mare dalle madrepatria, rimontati
per attraversare canyon profondi centinaia di metri. Gallerie che perforavano
scogliere; nonché intere popolazioni evacuate a forza dai loro villaggi e
trapiantate in angoli distanti del continente. Era una sala operatoria mostruosa
che si sforzava di fabbricare un nuovo sistema circolatorio per un corpo immane
e gran parte ignoto, procedendo per tentativi ed errori, versando sangue e
scontrandosi con un’anatomia a volte ostile o semplicemente sconosciuta.
Giunti all’interno della Corte Segreta del Forte, si rinfrescarono
alla grande fontana di marmo fatta installare appositamente dal Governatore Sir
George Benjamin Sinclair, che li attendeva all’interno.
Quella stessa sera, alla grande cena di gala nell’immensa Sala
degli Specchi, erano invitati tutti i dignitari della zona, gli ingegneri,
nonché alcuni importanti commercianti di spezie della Compagnia che avevano
grossi interessi nella regione. Fu il Governatore ad illustrare il piano di
avanzamento delle opere infrastrutturali, ponendo grande enfasi sulla necessità
di incombente di spostare un villaggio della gente Maharanas, eredi di una
fiera stirpe che si oppose alla dominazione Mughal, situato sul tracciato della
futura ferrovia. Solo qualche anno prima sarebbe stato schierato l’esercito: un
gruppo di fucilieri uniti a truppe miste e il lavoro sarebbe stato fatto in un
giorno. Ma a causa delle ultime rivolte per il costo del riso e della costante
instabilità del vicino fronte Afghano, era stata proprio Londra a decidere di
cambiare strategia, cercando di stabilire rapporti più amichevoli e favorire lo
scambio ed il negoziato con le genti più remote del Regno. In quest’ottica Sir Sinclair
era riuscito, dopo complicate trattative, ad ottenere un incontro con il
vecchio Yogi Shubhrakrushna, membro influente del consiglio degli anziani che
reggeva i territori del Rajastan meridionale. Una piccola delegazione
Britannica avrebbe presenziato ad uno dei riti più sacri dell’intera penisola: l’
Asvhameda, il Sacrificio del Cavallo. Dal canto loro i Maharanas avrebbero
ritenuto questa presenza un importante onore nonché un concreto riconoscimento
della propria cultura; il Governatore sperava che questo scambio di cortesie
avrebbe marcato un passaggio positivo nei rapporti, a volte tesi, tra la corona
e le genti degli Aravalli.
L’ Asvhameda si sarebbe svolta al tramonto dell’ ultimo giorno
della lunazione. Il Principe Viaggiatore fu felice di accettare l’invito a parteciparvi
L’Asvhameda era uno dei riti più antichi e misteriosi dell’ormai
scomparsa religione Vedica. Giunto in India grazie a penetrazioni di genti
indoeuropee, si era diffuso oltre mille anni prima ma ormai da secoli si
riteneva scomparso nella regione del Rajastan. Furono forse sparuti gruppi di
Maharanas a mantenere viva la tradizione nei villaggi di confine.
Era un rituale complesso ed oscuro in cui accanto al cavallo, uno
stallone maturo di oltre ventiquattro anni di età, numerosi altri animali venivano
sacrificati; la cerimonia era condotta dai sacerdoti e dalle regine-matriarche
dei villaggi, una casta di donne sacre che si prendeva cura del cavallo per
giorni interi fino agli attimi precedenti al sacrificio: nutrendolo, lavandolo,
adornandolo con collane di fiori e paramenti dorati. I sacerdoti vigilavano su ogni
fase della cerimonia, salmodiando sommessamente e assicurandosi che ogni
passaggio dell’ Asvhameda risultasse perfetto. Lo
stallone era incoronato al tramonto e nei brevi attimi in cui il sole scendeva
oltre l’orizzonte aveva tutti i poteri riservati al sovrano: la presenza fisica
dell’animale garantiva la continuità del potere; seppure nelle regioni del sud
del Rajastan gli ultimi sovrani assoluti fossero scomparsi da qualche secolo,
il sacro timore che essi incutevano era ancora palpabile tra la gente. Al culmine del rito il cavallo era immolato
sull’altare: esso veniva sgozzato e dissanguato completamente, mentre le donne
sacre mimavano furenti amplessi sul cadavere dell’animale. Tutti i villaggi
potevano partecipare e alla morte dell’animale balli e danze si scatenavano per
la notte intera fino alle prime luci dell’alba.
La maestosa spianata di sabbia che avrebbe dovuto precedere la
messa in posa dei binari metallici mitigava l’umida sensazione di penetrare
nella giungla afosa del versante ovest dei Monti Aravalli. La delegazione diplomatica britannica
procedeva in fila indiana in compagnia delle guide locali, seguendo la traccia
dei primi cantieri recintati da maestosi serragli di legno che quasi nascondevano
le cave di ghiaia chiara aperte tra il verde dei pendii boscosi. L’atmosfera
era tiepida ma umidissima, le chiome degli alberi più alti erano avvolte da una
sottile foschia. Sir Brereton ancora parlava come un invasato di quanto quel sottosuolo
fosse ricco di vene auree e di come i lavori per le gallerie sarebbero potuti
essere sfruttati anche da squadre minerarie per attingere a quelle riserve di
preziosi. Sventrare quel continente avrebbe condotto in Inghilterra ricchezze
spropositate, ben di più di quanto la Spagna riuscisse ad ottenere dai suoi
possedimenti oltreoceano o il Belgio dal cuore dell’Africa nera. Come non
bastasse, la rete ferroviaria della penisola sarebbe divenuta la via di
comunicazione più lunga e frequentata del mondo intero: dal 1853 per i
vent’anni seguenti la Corona aveva investito oltre settanta milioni di sterline
nel progetto; erano già stati posati oltre diecimila chilometri di binari e
nelle grandi stazioni di Madras e Calcutta transitavano ogni giorno varie migliaia
di persone.
L’ultimo dei villaggi, ormai non distante, era arroccato alla base
di una tagliente roccia liscia e perfettamente verticale che proteggeva il
versante sud della collina attraverso la quale la linea ferrata avrebbe dovuto
necessariamente passare. Sarebbe servita la dinamite per aprirsi l’ultimo varco
attraverso quella Natura che ora appariva quieta e perfino solenne. Innocente.
Mentre i preparativi per la cerimonia della notte infestavano le genti Maharanas, alcuni musicisti inglesi ospitati da Sir John Brown per tenere un concerto fino alle prime luci dell’alba
stavano già scaricando la loro imponente strumentazione dal retro di un vecchio
camion Bedford MWD. Il palco era montato al centro della piazza del sacrificio,
appena sotto l’ampia tribuna destinata ai sacerdoti. I Black Widow erano una
delle band più promettenti d’Inghilterra, con un sound dal volume tonante eppure
capaci di insospettabili raffinatezze acustiche.
Inaspettatamente anche un altro gruppo di musicisti britannici era
arrivato fino alle remote valli degli Aravalli. Scapigliati e polverosi, erano
in tour in India da oltre cinque mesi, al seguito delle truppe del generale
Richard Douglas e delle squadre di galeotti impiegati come lavoratori lungo la tratta
tra Bombay e Indore. Erano giunti fino a Jaipur via treno, aggrappati sul retro
dell’ultimo vagone del convoglio n° 22357, dopo avere gettato strumentazione ed
amplificatori sull’instabile copertura della carrozza. La grancassa aveva
cominciato a oscillare a Bhopal e appena dopo la stazione di Jhansi era
definitivamente precipitata. Il cantante Adrian Hawkins e il chitarrista Rod
Roach furono sorpresi di ritrovarla nel carro bestiame della corsa seguente,
ripiena di galline in cova.
Assieme al bassista Colin Standring e al batterista Rick Parnell si
sistemarono in un piccolo palco di fortuna dalla parte opposta della
piazza, praticamente nel mezzo dello spiazzo riservato ai fedeli dell’
Asvhameda, proprio di fronte a quello già
illuminato dove avrebbero suonato i Black Widow. Il Principe Viaggiatore moriva
dalla curiosità di sapere che cosa li avesse attirati fino lì e fu sorpreso di
sapere che da anni il gruppo era sulle trace del vero Sacrificio del Cavallo. Il
motivo era semplice quanto perverso: il nome che si erano scelti era Horse e il loro pezzo forte in concerto
era un incalzante e teatrale hard rock dal titolo The Sacrifice. Ora avevano l’occasione di sperimentare le loro
radici e il loro immaginario come mai avrebbero sperato.
Durante il sound-check provarono solo un brano, una tetra canzone
che parlava di rivoluzioni planetarie prossime venture; il cantante mugugnava quasi
nascosto dietro l’amplificatore in una sonnolenta trance che scimmiottava il
primo, timido, Jim Morrison, cosa che gli riusciva con una certa grazia
decadente. Doveva essere lo stesso effetto morboso e suadente che i Doors
ebbero nei loro primi giorni del 1966, al Whisky A Go Go di Los Angeles.
Suonata poi in chiusura del concerto, quella stessa Step out of Line si ricoprì di un fascino grunge che avrebbe
calzato a pennello addosso a un Mark Lanegan o a un Eddie Vedder. “La
rivoluzione è solo una questione di tempo”: a nessuno allora parve una frase
incauta, seppure nel cuore profondo del Deccan le fondamenta dell’ultimo grande
Impero già scricchiolavano.
Sei minuti esatti fra prove e sound-check e gli Horse se ne
ritornarono nella loro tenda canadese a fumare oppio afghano nell’umido della
jungla.
Al loro confronto i Black Widow parevano la London Symphonic
Orchestra. Schierati con sei membri sul palco, avevano un ordinato arsenale di
strumenti disparati: dall’organo Hammond di Zoot Taylor, al flauto traverso e al
saxofono, fino alle cinque diverse chitarre acustiche di Jim Gannon; la
batteria Ludwig del percussionista Romeo Challenger, un set di bonghi e tamburelli di ogni
dimensione; addirittura campane tubolari e vibrafono.
Ossessionati dalla stampa britannica nel banale confronto -
scontro con i Black Sabbath, la band dell’ occultista Jim Gannon era piuttosto
un tipico combo del nuovo rock progressivo che aveva in King Crimson e
Colosseum i propri apripista. Ma il volume a cui suonavano era davvero
esagerato e questo, più ancora dei temi dei loro testi o del loro stesso nome,
li accostò alla Heavy Music di Led Zeppelin e Grand Funk. E se i Black Widow furono
mai un gruppo metal, furono di certo il primo ad allineare una preparatissima “sezione
di fiati”, in realtà il solo eclettico Clive Jones, sempre pronto a rilanciare assoli jazzati e morbidezze da cocktail
lounge. All’epoca incidevano per la CBS e come mai non gravitassero anche loro
in orbita Vertigo resta un mistero.
Il Principe Viaggiatore fu incuriosito dalle citazioni colte che
il cantante tirava in ballo nei pezzi migliori: dalla mitologia egizia e
babilonese, agli Etruschi, un remoto popolo italico dall’alfabeto ancora in
parte indecifrato. Oltre poi alle decine di altri spunti derivati dalla tradizione
ebraica, la demonologia cristiana e il perenne Aleister Crowley. Il culmine del
loro spettacolo era l’evocazione del demone Astaroth, garanduca e tesoriere
degli Inferi, figura derivata da un’antica e dimenticata divinità fenicia. Un rito,
il loro, più profondo e di maggiore spessore musicale rispetto a quanto stavano
facendo in America i Coven: un trio post-fricchettone che inscenava il
sacrificio della cantante nuda sul palco. Tuttavia questi continui riferimenti
all’occulto, alla demonologia medievale e alla Morte stavano procurando non
pochi guai al gruppo che, stretto fra la censura bacchettona ed un’immagine
pubblica non corrispondente al reale sentimento dei musicisti, si stava
sfaldando. Mick Box, il primo batterista, se ne era andato dopo il primo LP, Sacrifice, e anche Clive Jones era
ormai stanco di passare per sacerdote dell’occulto, ma il leader Jim Gannon,
autore dell’album d’esordio, e anche Kip, il cantante, anima romantica della
band, ritenevano giusto sfruttare quella nomea sul mercato discografico e
presso la stampa specializzata. Erano da un po’ in tour con il loro secondo LP,
Black Widow, che in effetti cercava
di mitigare l’assalto demoniaco delle canzoni che li avevano resi famosi. Ma la
cosa non funzionava: ogni volta che attaccavano con The Gypsy o Tears and Wine
il pubblico rumoreggiava invocando Come
to the Sabbath o Sacrifice dal
primo album. Il Principe Viaggiatore aveva avuto proprio l’anno prima una copia
di quel LP per le mani e se ne ricordava soprattutto
per il design: una copertina che sembrava dipinta da Bosh e, nella pagina
interna, disegni di inferni danteschi come fossero enormi murales sul marmo
bianco di qualche tempio. Un concept del genere lasciava poco spazio alle travisazioni
e anche per questo il gruppo era stato sommerso dalla sua stessa tetra fama. Ma
quella sera i musicisti parevano in forma: l’aria tropicale e la lontananza da
casa accentuava un certo senso di stordimento dovuto forse al tabacco locale.
Problemi simili mancavano a Hawkins e Roach che di immagine
pubblica non ne avevano nessuna. Quella sera si presentarono come Horse con l’aggiunta di una ballerina
austriaca dai lunghi capelli lisci in stile principessa hippy di San Francisco:
si faceva chiamare Aletta. Con lei danzante tra gli amplificatori potevano
essere tanto una versione grunge degli Amon Duul II di Phallus Dei quanto l’alter-ego
terreno degli Hawkwind. In Inghilterra avevano appena inciso un album omonimo
per la RCA. Sulla copertina un mostruoso cavallo alato nero su sfondo viola che
sembrava disegnato dalla stessa mano che aveva illustrato First Utterance dei
Comus: un Pegaso plutoniano e minaccioso che stabiliva già in partenza le
coordinate giuste per l’ascolto. Poi qualche serata in centro-Europa, buoni
concerti in Germania. Nulla però riusciva a sradicarli da quell’underground
britannico destinato a rimanere la maggiore miniera di piccoli misconosciuti
capolavori e rarissimi pezzi da collezione: Andromeda, Quatermass, Atomic
Rooster, Leaf Houd. E Horse.
Sacrifice era un Hard-Rock prepotente con un riff ostinato, semplice, quasi
minimalista e assoli ultra-elettrici da quadriglia
medioevale. Hawkins ci cantava in mezzo biascicando le parole con l’ululato di
un licantropo come il Phil May dei bei tempi. Per il resto il forte del gruppo stava
nel saper mescolare alla perfezione i più evidenti cliché hard con pirotecniche
schitarrate psichedeliche fitte di echi della Bay-Area: potevano essere i Led
Zeppelin con Kaukonen alla solista.
Lo show che tennero appena dopo l’esposizione dell’enorme e rossastra
carcassa del cavallo sacro sarebbe stato elettrizzante.
Nel frattempo, mentre l’ Asvhameda entrava nella parte più rituale e
complessa e i dignitari britannici erano spariti dentro una tenda per negoziare
con gli anziani del villaggio, sul palco principale
i Black Widow proponevano il loro esoterico mix di progressive, jazz-bianco e rabbia
metallica. Memori dei Colosseum più che dei Sabbath, non disdegnando certo folk
acustico da Incredible String Band o Pentangle, stupirono con la bella Come To The Sabbath, un semplice saltarello
acustico solare e rilassato, nonostante il titolo e l’invocazione ad Astaroth,
che in una notte di furore sacrificale come quella finì addirittura per
alleviare la tensione: un’ingenua e piacevole voglia di Diavolo. La mistica Conjuration poi, introdotta da una
fanfara solenne e composta, adoperava tastiere e mellotron per sostenere Kip
Trever in un canto che era più una recitazione che una vera melodia vocale. Il
ritmo di marcia della batteria conferiva al tutto il brano il sentore quasi
militaresco di armate sotterranee in marcia verso la luce. Il Principe
Viaggiatore non potè fare a meno di leggere tra le righe riferimenti svariati
al mistico e pazzoide Graham Bond degli ultimi anni.
Mentre la band di Leicester si concedeva addirittura una parentesi
romantica con Seduction, che
scimmiottava tanto i Moody Blues più deteriori quanto gli amorosi dei Carmina
Burana, con tanto di assolo alla Fausto Papetti, dall’altra parte della piazza,
sul palco degli Horse, regnava l’isteria più pura. Adrian Hawkins si era
gettato in mezzo alla folla e cercava di cantare Freedom Rider sdraiato sulle teste del pubblico sbigottito; la
canzone era una ballata Hard Rock da Hells Angels ubriachi che risplendeva in
un chorus cristallino e lanciato a
tutta velocità giù per le curve di Lombard Street, interrotto solo da un lungo
interludio di Roach che spingeva sul pedale con la foga di un camionista fatto
di meth: Heavy Metal in Haight-Ashbury.
Era la prima volta che il Principe Viaggiatore sentiva una fusione così
profonda e intima di Acid Rock, nel timbro, e Heavy Metal, nella struttura dei brani.
Lost Control poteva essere un out-take
dei Cream finito per sbaglio su Electric Ladyland.
Quel climax musicale trovò la sua giusta controparte nel rito che
sacerdoti e donne sacre stavano officiando al centro della piazza: quando il
sangue nero dello stallone schizzò copioso sul pubblico fu salutato da un isterico
coro di grida festanti ed applausi: si rinnovava la promessa di fertilità dei
campi e delle giovani ragazze avviate a maturità. I villaggi sarebbero stati
fecondi e i raccolti assicurati. Si perpetuava una credenza antichissima,
discesa dalle enormi pianure del Nord-Est, dai clan Afghani, che identificavano
il cavallo con il Re-Sole, il cui sacrificio rituale e la rinascita dopo tre
giorni di buio perpetuava l’allegoria paleartica del solstizio d’Inverno e
garantivano ai guerrieri una guida forte e vigorosa laddove l’antenato non
poteva più tenere il bastone del comando.
Quel sangue ancora pulsante sui volti dei credenti era la garanzia
della ciclicità degli eventi.
Nel momento di massima eccitazione collettiva i Black Widow
attaccarono Sacrifice, il loro brano
supremo, cavallo di battaglia e pezzo forte di ogni concerto già da un paio
d’anni. Era una riff sincopato e semplicissimo, come la linea di basso di Roger
Glover in Black Night: poteva durare millenni, reiterando la sua tenace
percussività. Jones, Gannon e Taylor lo estendevano
a piacimento inserendovi assoli progressivi di flauto, liquidità chitarristiche
assortite e notturni di tastiere. Continuarono così per oltre un’ora.
In quello stesso tempo gli Horse potevano sciorinare tutto il loro
repertorio più qualche cover degli Yardbirds e degli Stones. Il loro pezzo
mistico, The Journey, cantato da
Roach, era un pomposo salmo pseudo-ebraico che si concedeva al flauto sintetico
di Stairway to Heaven prima di degenerare in un gospel call and reponse che filava liscio grazie alle stratificazioni
inestricabili e caotiche di chitarre elettriche duellanti come in uno
spaghetti-western di terza generazione. Ancora più bizzarro fu il valzer di
dubbio gusto in Heat of the Summer,
riabilitato da una coda virulenta e ipercinetica fatta di suoni filtrati e
semi-elettronici e dal canto appassionato ed esagerato di Hawkins. Mentre Clive
Jones ancora insisteva con deliri à la
Ian Anderson, Rod Roach spandeva lo scurissimo sound funkadelico di Gypsy Queen in una palude di wha-wha e
prelibate distorsioni californiane; poi To
Greet the Sun, l’inno rabbioso al Sole di zeppeliniano volume e languori
che potevano ben stare sugli ultimi Iron Butterfly e ancor meglio su Captain
Beyond. In fine la definitiva, già leggendaria Step Out of Line.
Con la Luna pallida, alta e ubriaca nel cielo, la notte aveva
portato un brivido freddo e nebbioso nella piazza. Quando l’isteria religiosa
diminuì e le grida dei fedeli sembrarono placarsi i Black Widow andarono in
profondità nel loro personale Necronomicon con In Ancient Days, una lunga pièce
dark progressive imbastardata coi primi Van Der Graaf, aperta da un Organo Alto
à la Vanilla Fudge e sostenuta nella strofa da un rotondo
riff di basso. A seguire Attack Of The
Demon, brano che vantava il
chorus più accattivante ed elegante del gruppo.
Dal canto loro gli Horse, staccati ormai gli amplificatori, si
cimentarono in unplugged con And I Have
Loved You: una serenata rinascimentale da notte di mezz’ estate con una
raffinata linea melodica di chitarra e tutta un’ atmosfera di rarefatta magia.
L’ultimo bis fu per See the People
Creeping Round, ennesima variazione metallica dei Jefferson Airplane alla
corte di Re Artù: vi si gettarono a capofitto come abbandonati su montagne
russe senza freni. Alla fine del brano il silenzio echeggiava polveroso nel
villaggio deserto.
La
delegazione di dignitari britannici aveva parlottato tutta la notte con il
consiglio degli anziani e alle prima luci dell’alba riemersero assieme da una
pesante tenda ricoperta di frasche elegantemente intrecciate. Non avevano udito
una sola nota, né presenziato al rito. Sir Brown camminava rigido avanti e
indietro curvo sotto lo sguardo torvo del Governatore, mentre l’ingegner
Brereton ancora sproloquiava di direttrici infrastrutturali e collegamenti
rapidi di massa. Avevano tutti facce scure e l’accordo per la costruzione
condivisa della nuova ferrovia sembrava lontano dal venire. Intanto gli anziani
Maharanas erano scomparsi da tempo sotto la tagliente roccia liscia che proteggeva
il villaggio.
Le foschie
si erano dileguate veloci sotto ai raggi del primo sole, rivelando finalmente
le più alte chiome degli alberi tropicali che si inerpicavano su tutti i
versanti degli Aravalli che ora apparivano arcigni e inospitali.
Nessuna
ferrovia sarebbe mai stata realizzata in quelle valli; nessun ponte di ferro,
nessuna galleria. Il gruppo diplomatico inglese aveva già preso il sentiero
sterrato verso Jodphur e il Forte Mehrangarh, impaziente di rientrare tra mura
amiche e città trafficate e ricolme di fumi industriali.
I Black Widow si erano faticosamente stipati sul loro camion militare
in marcia verso Jaipur; degli Horse più nessuna traccia.
Mentre gli ultimi roadies smontavano pigramente il drumkit di Challenger
dal palco principale, il villaggio tornava alla paziente e tenace monotonia del
lavoro nei campi.
Tè, cotone, ma anche riso e cereali, coltivati in terrazzamenti
ordinati con raffinata e antiquata cura artigianale che sarebbero finiti con
ogni probabilità nelle casse inglesi. Da qualche anno l’Impero aveva rivisto al
rialzo un carico tributario che molti piccoli agricoltori già faticavano a
sostenere. Il malcontento crescente, l’impoverimento coatto di una terra
naturalmente ricca, lo stravolgimento del territorio. Forse, come cantavano gli
Horse, era davvero “questione di tempo”?
Un paese così ricco ed enorme stretto nella morsa politica e tecnologica di una
minuscola e piovosa isola nord europea. Detto in questi termini sembrava un
paradosso.
It’s only a question of time… before the whole country steps out of
line…
Il Principe fissò a lungo i palchi che si fronteggiavano ai due
lati della piazza dove il ricordo dell’ Asvhameda era solo una chiazza violacea
di sangue e petali di rosa.
In ogni sacrificio c’è l’officiante, che conduce il rito con
consumata fede e minima azione; e i credenti, quelli che si agitano, si esaltano,
levano le mani urlanti al cielo. L’altare
e i palchi su cui inginocchiarsi. Nel
mezzo sta la vittima; l’agnello, il capro. Il cavallo. Il pane e il vino. Un
po’ come nella Musica, in cui da una parte c’è l’artista e dall’altra il suo pubblico.
Lei sta nel mezzo.
Ma il futuro è tutto del Pubblico e solo in misura minore dell’Artista.
Al Principe fu chiaro ascoltando le pompose tirate dei Black Widow: in quella
suadente e ambigua retorica c’era tutta la teatralità di una classe dominante
in declino, ripiegata su mitologie che sfuggivano alla stretta e incombente
morsa dell’attualità. Almeno gli Horse stavano dalla parte della gente, ci
stavano addirittura in mezzo. Non che portassero ideologie né visioni politiche
realmente costruttive, nè alternative valide oltre al volume degli
amplificatori; eppure se il presento li disconosceva, il futuro sarebbe
appartenuto a chi li avrebbe seguiti e sostenuti sulle proprie spalle.
Il tempo dei riti stava finendo. Cominciava quello degli uomini.
3. Il Naufragio di
Atlantide
Il quadrato esatto in
cui è inscritta la facciata della Chiesa del Redentore sembrava sapientemente
intagliato dai pochi raggi sfuggiti alla pesante coltre di nuvole bluastre
sovrastanti la Giudecca. Il candore immacolato del timpano e delle colonne neoclassiche
risplendevano ancora di più sull’acqua della laguna che rifletteva i tormenti
del cielo: tutta la basilica pareva irradiare una luce pura e misteriosa al
tempo stesso.
Al suo interno, il
Principe Viaggiatore era rimasto per lunghi minuti silenziosi in osservazione
della Madonna con Bambino,
tavola lignea di Alvise Vivarini, un pittore del luogo vissuto oltre
centocinquant’anni prima, alla fine del 1400. Quella Madonna enorme, ricoperta
da un manto di purissimo blu, con le mani appena giunte, dominava la scena e
forse tutta l’ampia navata della chiesa. Sul suo grembo il Bambino, pieno di
movimento e tensione verso la Madre; ai suoi piedi due piccoli angeli
suonatori, che toccavano la corde del liuto con lo sguardo adorante rivolto
verso l’alto. La loro era una musica inudibile agli umani e totalmente
soggiogata alla composta figura della Vergine che ne dominava il ritmo e la
melodia, fondendola con quelli della sua preghiera sussurrata. Il Principe
Viaggiatore si chiedeva se mai sarebbe riuscito ad ascoltare note come quelle,
imprigionate nella solenne compostezza di quell’immagine: un’ armonia di
serafica semplicità, fatta per la contemplazione e la pace. Sembrava difficile
in una terra decadente come quella.
Ad una voce del suo
timoniere che attendeva all’attracco, il Principe attraversò ad ampi passi la
navata rettangolare: quando il Palladio la ideò, quella costruzione doveva
apparire come la sintesi difficile e perfetta tra il tempio Olimpico e il
pensiero cristiano. Il bianco puro degli stucchi, le proporzioni perfette, gli
acuminati campanili che si slanciano quasi fossero minareti la rendevano ora il
luogo di culto perfetto per ogni discendete di Abramo, vuoi che fosse
cattolico, musulmano od ortodosso.
Ma all’esterno di
quella sublime architettura languiva una Città morente.
Dopo la peste del 1630
pareva che nulla di peggio potesse abbattersi sulla Serenissima. Invece, appena
qualche anno più tardi, la Morte visitò nuovamente la laguna quando la flotta
Ottomana attaccò le derelitte fortificazioni venete di Canea, sull’isola di
Creta. Il sangue versato nel Mediterraneo fu tanto da arrossarne le onde fino
all’Istria. Per quasi due decenni un conflitto aprissimo dilagò fino tra le più
sperdute Isole dell’Egeo. La città di Candia resistette eroicamente ad un
assedio lungo oltre vent’anni, ma alla fine Venezia fu costretta a cedere
Creta, la sua più rigogliosa colonia. L’ombra delle scimitarre musulmane dilagò
per tutto il Mare Nostrum e i baluardi della cristianità si dileguarono in
ordine sparso tra sguardi di terrore.
Venezia era una potenza
in ginocchio, e da terra rimpiangeva quell’orizzonte lontano che un tempo le
apparteneva fino alle sponde in cui sorge il Sole. Ma quello stesso Mare che fu
giardino di conquiste per una classe di mercanti intraprendenti e capitani
spregiudicati, era oggi un lugubre cimitero salmastro, dove gli alberi spezzati
dei galeoni giacevano in una disordinata accozzaglia attorno all’avello del
Leone di San Marco.
Anche la borghesia
sembrava ormai disillusa e refrattaria a investire in nuove rotte oceaniche e
mediterranee. L’epoca del coraggio, dell’intraprendenza, del Viaggio, era
finita. Alcuni grandi possidenti si erano già ritirati a ovest, nell’entroterra
Veneto: perché là la terra appariva più solida delle onde incostanti e non
c’erano turbanti o tempeste da cui guardarsi. Si faceva largo una nuova classe
di latifondisti e possidenti che guardavano alla limitate valli del Po come
alla nuova frontiera. Finalmente, dopo secoli passati a proiettarsi sul mare,
la città si ritraeva dove tutte le altre città del mondo trovano robuste
fondamenta: questa riscoperta della campagna avrebbe finito per uccidere una
delle maggiori potenze economiche che il mondo antico aveva conosciuto.
E già allora, anno del
Signore 1671, a qualcuno sembrò l’inizio della fine: come una nuova Atlantide
sarebbe sprofondata tra i flutti che aveva sempre dominato, ma che ora era
troppo vecchia per domare.
Anche il Principe
Viaggiatore era in partenza per le campagne vicentine, laddove possedeva una
grande villa nei pressi della Bertesina, vicina al corso del torrente Tesina,
appena ad est della città di Vicenza. Lo attendeva un lungo viaggio in barca.
Sul lungo pontile fuori
dalla chiesa il vento rinforzava e sbatteva sul selciato piccole gocce di
pioggia. Sulla piccola bragagna, un tempo usata per grandi battute di pesca in
laguna, il lungo mantello scuro del principe svolazzava come una vela strappata
al suo albero. Il timoniere accarezzava la barra mentre due uomini
dell’equipaggio cominciavano a scandire il ritmo lento della vogata, quando un
trambusto proveniente dalla sponda opposta del canale ne attirò l’attenzione.
Quattro figure si
sbracciavano cercando di farsi vedere: il Principe, incuriosito, fece cenno
all’equipaggio di avvicinarsi. Quattro ragazzi pallidi, con barbe incolte e
capelli lunghi, tre valigie piene di adesivi. Chiedevano un passaggio verso
l’entroterra, una cosa abbastanza comune di quei tempi. L’imbarcazione del
Principe Viaggiatore non era molto ampia ma uno spazio per quegli autostoppisti
di laguna fu trovato. Caricati rapidamente i pochi bagagli, furono portate a
bordo anche due chitarre Gibson e un piccolo Mini Moog “Sonic 6” a 44 tasti,
unico superstite di un mastodontico complesso tastieristico disperso, assieme a
batteria, xilofoni e campane tubolari, nei meandri aeroportuali della
Serenissima in un normale pomeriggio di nevrosi.
Incuriosito, il
Principe volle saperne di più sui nuovi passeggeri: erano musicisti della
lontanissima Hannover nel Ducato di Brunswik. Da oltre un mese in tour
nell’Europa dell’est, erano arrivati la sera precedente da Belgrado dove
avevano tenuto un concerto di fronte ad un migliaio di serbi ubriachi e
violenti inneggianti al Partizan e per nulla interessati alla loro musica.
Ripartiti velocemente avevano attraversato l’Adriatico perdendo gran parte del
loro bagaglio, strumenti compresi. La spettacolo di quella sera di fronte a San
Marco era saltato ed ora cercavano almeno di raggiungere Verona per provare a
ultimare le rimanenti tre date del tour o fare definitivamente ritorno in
patria.
La pioggia scendeva con
più intensità, anche se il sole distante di settembre trovava ancora qualche
fessura nell’umidità.
Il Principe Viaggiatore
acconsentì ad offrir loro un passaggio fino alle campagne di Vicenza. Di li
avrebbero forse trovato qualche altro mezzo per giungere a Verona. Frank
Bornemann, chitarrista e fondatore del gruppo, abbozzò un sorriso sotto quel
suo strambo cappello floscio; anche gli altri tre apparvero finalmente più
tranquilli: tutta la tournèe stava andando a rotoli, ma finalmente la sfortuna
sembrava essersi dimenticata di loro per una sera.
Si erano scelti un
nome, Eloy, arcano ma pieno di significato: appariva nel racconto “La macchina
del Tempo” di H.G. Wells, scrittore inglese piuttosto sconosciuto. Gli Eloy
erano una razza umana a cui era stata data la possibilità, grazie al viaggio
temporale, di ricominciare daccapo in un futuro lontanissimo, per non ripetere
gli errori commessi dalle passate generazioni. Un nuovo inizio. A sentire
Borenmann, questo “nuovo inizio” doveva essere un riferimento alla nascita di
una nuova scena rock tedesca: uomini, musicisti nuovi. Arte nazionale e
originale; una tipica idea titaneggiante
in puro stile teutonico. In realtà per qualche anno funzionò: il gruppo aveva
già inciso cinque album ed era in giro per l’Europa a promuovere l’ultimo
lavoro, quello che li avrebbe dovuti consacrare definitivamente. Purtroppo, la
”nuova musica” degli Eloy aveva poco a che fare con la folle sperimentazione
Kraut che diede, se non fama, almeno un’aura mistica a colleghi come Ash Ra
Tempel, Can o Faust. Borenmann aveva cambiato formazione forsennatamente per
anni e alla fine, pur suonato con perizia e ottimamente prodotto, il suo rock
sembrava una traslitterazione continentale del peggior Prog anglosassone. Altra
era la musica che interessava il Principe Viaggiatore, specie in momenti di
tale decadenza culturale. Eppure anche lui si ricordava di un album, Dawn, che
quel gruppo di ragazzi pallidi e trasandati, che occupavano ora metà della sua
barca, aveva inciso l’anno prima. In verità era più la copertina che la musica
a ritornargli alla mente: una copertina che molti avrebbero giudicato insipida,
alcuni addirittura brutta: una fotografia del mare all’alba che sembrava buona
per qualche illustrazione di fotoromanzo. Eppure quel gradiente caldo che
pervadeva tutta la figura, la luce riflessa sull’acqua, lo scintillio del logo
erano lontani anni luci dall’espressionismo rigoroso del Kraut-Rock dell’epoca.
Sembrava quasi un presagio di New-Age. L’album si risolveva come
un’interminabile ode al Sole e alla Luce quali principi vitali del cosmo ed era
zeppo di riferimenti agli Yes.
Ma quando Detlev
Schmidtchen estrasse dallo zaino una copia dell’ultimo LP da offrire in regalo
al Principe, le cose sembrarono acquistare un senso.
Ocean traslava tutte le
tonalità gialle di Dawn verso ogni possibile variazione dell’ azzurro. Il mare,
che nel lavoro precedente era solo un espediente di copertina, era qui il
fulcro della composizione. Dopo la Luce, l’Acqua: gli Eloy parevano decisi ad
indagare ogni elemento generatore per cercare al suo interno quella scintilla
vitale da cui Tutto scaturì. Dopo Apollo, Poseidone.
E mentre i quattro
ragazzi, un po’ timidamente ma con passione, cercavano di raccontare la loro
musica a parole, di acqua attorno a loro ce n’era in abbondanza. Le spigolose
vele quadrangolari della bragagna erano state issate dai tre uomini
dell’equipaggio mentre il timoniere fumava lento una pipa, ancora ricurvo sulla
liscia barra di quercia. Lasciato il canale della Giudecca, la barca era nel
bel mezzo della Laguna che risplendeva di un metallico verde scuro a striature
bluastre che inghiottiva perfino il grigio del cielo, il quale andava aprendosi
di sprazzi rossastri serali. Sulla destra lo scoglio di San Giorgio in Alga era
battuto dal vento; su quel lembo di terra si ergeva il monastero dei Canonici
Regolari ormai del tutto nascosto dai pioppi. Entro quelle mura si diceva fosse
custodita una delle più preziose ed inaccessibili biblioteche della
cristianità, in cui erano celati testi tanto rari e potenti da far correre voce
che persino Köprülü Fazıl Ahmed, gran Visir ottomano, stesse progettando
un’incursione navale in Laguna per distruggere quel patrimonio. Il monastero fu
una tale fucina di cultura da portare, duecento anni prima, Gabriele Condulmer
al soglio pontificio col nome di Eugenio IV: mai persona così illustre venne da
un fazzoletto di terra più piccolo di quello.
La barca faceva ora
rotta verso la Fusina dove era agevole l’accesso alle foci della Brenta
Vecchia, ultime ramificazioni naturali dell’antico corso fluviale da cui era
possibile inoltrarsi nell’entroterra veneto. In una rete fittissima di cavi,
scoli, meandri morti e canali, tanto intricati da avere richiesto in passato la
consulenza tecnica di Leonardo, la bragagna infilò il Naviglio di Brenta, che
portava dritto verso Padova.
Ocean è diviso con
regolarità quasi simmetrica in 4 parti, due canzoni per lato: due suite enormi
e due pezzi più brevi, in uno schema rigoroso ABBA.
Poseidon’s Creation, il
brano d’apertura è un’intricata vicenda cosmogonica che attinge a piene mani da
un’ apocrifa religione Olimpica passata al vaglio di Platone e Campanella ma
illustrata come fosse un fumetto di fantascienza, o qualche vecchio B-movie:
Clash of the Titans in musica.
La storia di un tempo
remoto in cui i figli degli dei camminavano sulla terra. Poseidone, divinità
degli oceani e dei terremoti, regnava sull’isola di Atlantide, una sorta di
Eden incontaminato che il Dio popolò con i figli avuti da Kleito. Qui, in pace
e distante armonia, protetti da una muraglia dorata e da una legge suprema,
condussero una vita di perfezione e felicità.
Il brano inizia con un
crescendo strumentale come i Pink Floyd di Meddle fino ad assestarsi su un
semplice riff da barcarola con l’ organo rinforzato dalla chitarra, un suono
che potrebbe stare tanto su Vanilla Fudge quanto su Machine Head: è contagioso,
ritmico; molto rock. Dopo la lunga recita di Borenmann che sfoggia un accento
teutonico imbarazzante, è il basso che con una linea intricata e piena di
staccato segna l’inizio di una nuova sezione strumentale: il chitarrista, sul
proscenio, sfodera un lungo assolo fluido e striato di arabeschi mediorientali
e arabeggianti, che disegnano glifi contorti sulla ritmica e sul tenue ma ampio
sottofondo delle tastiere. Il tutto approda nel mezzo di uno stormo di gabbiani
meccanici migranti nello spazio, verso nebulose punteggiate da oceani freddi;
la chitarra geme languidamente, si intreccia con la sua stessa eco su di un
fondo di voice synth ponderoso e orbitante. Una banalizzazione di un certo modo
di suonare alla Gilmour, forse. Ma l’effetto nel suo complesso è notevole.
Già da qui si delinea
l’ampiezza dell’architettura musicale di un album che risuona come nell’abside
di una cattedrale neoclassica dai candidi stucchi rifiniti con striature
dorate. Il suono pulito e levigato come un marmo, i molteplici livelli di
tastiere adornano una concezione semplice, ripetitiva come un salmo.
Intanto la barca aveva
attraversato l’antico borgo fluviale di Mira, che dal medioevo controllava gli
accessi al padovano. Le campagne dintorno odoravano ancora di alghe e sale e
folti stormi di gabbiani si appollaiavano chiassosi sui rami bassi dei salici
grigi.
La narrazione riprende
con Incarnation of Logos, e siamo in pura Genesi Eretica che nulla ha a che
spartire con la filosofia di Giovanni: una voce distante a metà tra il Dio che
parla nei film di Cecil B. DeMille e le comunicazioni in sub spazio di Star
Trek, elenca i passi della creazione del genere umano. Il brano, aperto da un
sinistro accordo di tastiere, è privo di ritmo e tempo per tutta la prima
parte. Poi, quando è annunciato il compimento della “procreazione primaria”, è
di nuovo il basso a segnare una transizione ritmica che accelera
improvvisamente e vira di nuovo verso l’Hard Rock. E così degenera anche la
condizione e forse la natura stessa dell’uomo: vige la legge del più forte,
della sopraffazione, del potere individuale. Hobbes a fumetti.
Le prime pagine di
Decay of Logos sono il momento più spiccatamente Kraut dell’album: tocchi
rotondi di basso e loops di synth che procede con il solito fluttuare tidale;
una semplice batteria motorik e arpeggi aperti di chitarra. Una piccola
ouverture che introduce il solito salmo a cappella di Borenmann. La canzone
prova a recuperare i Tangerine Dream di Fedra e Rubycon e le loro tessiture
elettriche ma già “ballabili”.
Qualcosa è compromesso.
L’uomo è la creatura imperfetta per eccellenza. E’ la preghiera vendicativa
dell’ultimo dei giusti che invoca la punizione della Divinità sull’umanità. Un
intermezzo di tastiere distorte fino ricordare gli Amon Dull II di Riding on a
Cloud: ma il brano è ormai deragliato in un vorticoso Hard Rock in stile Uraiah
Heep. Solo la conclusione riporta un respiro più mistico e sofferto allo stesso
tempo. La voce si fa più lamentosa, pur mantenendo il solito impassibile rigore
teutonico. Borenmann non canta mai in effetti; pare più la lettura di un
giovane pastore protestante.
Ma la fine è ormai
vicina, appare ineluttabile annunciata dai versi migliori di tutto il lavoro:
Rainy dead end street,
Hanging deep above the vaporing sea!
Ancora qualche accordo
di chitarra e la voce che si dissolve sull’oceano in un’eco profonda.
Detlev Schmidtchen, il
tastierista del gruppo, teneva ancora tra le mani il mini-moog superstite
accarezzando i tasti come ripensando alla musica.
Dopo un altro breve
tratto risalendo il Brenta, il Principe Viaggiatore aveva fatto cenno al
timoniere di infilare il Canale della Brentella, un antico scavo medioevale che
a metà del XII secolo fu addirittura al centro di una guerra tra Vicenza e
Padova per i diritti di passaggio sulle vie d’acqua. Quella deviazione consentì
ai viaggiatori di evitare la turbolenta Padova per immettersi nel corso della
Tesina, torrente che scorreva presso la villa del Principe.
L’immane Atlantis'
Agony nasce sicuramente come un’enorme sinfonia elettronica di atmosfera, che
si sforza di citare tutte le suggestioni di colossi come Zeit o The Marilyn
Monroe-Memorial-Church, cercando di trasportarli in un contesto maggiormente
Rock, aggiornandoli alla languente scena Prog che andava disfacendosi alla fine
dei ’70. E’ una quinta teatrale coperta da un mastodontico fondale dipinto. Sembra
il lancio di un’arca spaziale destinata e salvare quella giovane umanità
dall’onda definitiva. Ma qualcosa va storto. La struttura collassa, c’è una
sirena nascosta che si fa sempre più inquietante. Poi, dall’alto, un organo
suona nella cattedrale marmorea. Va ingrandendosi sempre più, assimila il ritmo
e gli altri strumenti, si mangia tutto il brano. Attorno a lui paura e
distruzione. Quella stessa voce sintetica, impacciata, cosi “tedesca”, che
all’inizio fa giusto sorridere per la sua ingenuità, acquista, ripetizione dopo
ripetizione, una sinistra aura di tragedia che permea tutto quanto il brano; il
climax procede lento ma senza pause come accade in quell’incubo che è Mamie is
Blue dei Faust. All’organo si aggiungono sintetizzatori, folate di vento, anelli
elettronici in serie.
Quando dopo otto
interminabili minuti, la sezione ritmica si unisce e Borenmann riprende il
canto. Si delinea una melodia semplice e descrittiva, ancorata ad un giro
insistente di basso, su cui il respiro dell’organo si è fatto via via più
affannoso.
Poi il conto alla
rovescia si esaurisce e alle tastiere è concesso un lungo meditabondo assolo su
toni piuttosto mesti. La conclusione apre alla chitarra che sottolinea il
messaggio ultimo dell’album: particelle nell’oceano, lacrime nella pioggia.
Ancora un paio di minuti; il cuore smette di battere, un gong si porta via
tutto.
In verità il brano
riusciva molto meglio dal vivo, dove il gruppo esagerava la ridondanza
percussiva del gong e dei timpani ed enfatizzava quello stacco netto che
trasforma la sinfonia elettronica in canzone hard-rock, facendo del respiro
lento dei synth un vero e proprio riff sulla falsariga di Poseidon’s Creation;
nelle serate migliori il brano superava i 20 minuti.
Attorno, le grosse
zolle rivoltate dall’aratro fumavano appena al sole del mattino, emanando un
profondo odore di terra che ormai aveva soppiantato la salsedine aspra della
laguna. Lungo gli argini lunghe prospettive di pioppi acuminati vegliavano le
tese campagne tra Padova e Vicenza. Quella barca che la sera prima sembrava il
trasporto naturale, in quelle terre ora pareva un corpo estraneo ed
indesiderato.
Dopo un lungo silenzio,
in cui il Principe ripensò alla Serenissima e ai suoi tesori naufragati, Ocean
fu di nuovo al centro dell’attenzione. Qualcosa ancora non lo convinceva del
tutto, pur intuendone la grandiosità, se non della musica, dell’idea.
Perché la distruzione
di Atlantide tutta? L’annientamento di un’ Utopia con la sola colpa di avere
concesso ad una creatura limitata ed imperfetta l’accesso ad un Eden di Natura,
Storia e Architettura divine? E’ solo una punizione, o addirittura una
repressione? L’ esigenza di ribadire un’autorità ovvia? O piuttosto è una
vendetta? Come si può giustificare la vendetta di una divinità onnipotente nei
confrontanti di una razza infinitamente inferiore?
Jurgen batterista ed
autore di tutti i testi dell’album, fissava l’acqua melmosa dei canali.
Sosteneva un’altra tesi.
Ocean, il suo
“concept”, il suo intero universo, si collocano al di fuori dell’ottica, così
Cristiana, così tremendamente Francescana, di un Dio di infinito Amore e
Perdono. Le sue coordinate riconducono pittosto alla religione pubblica del
mondo Classico, dove gli Dei sono Attori che personificano in maniera quasi
caricaturale le peggiori deviazioni e le più grandi virtù dell’ Uomo. E
interagiscono con lui, con questa razza sì imperfetta, eppure abilissima a
copiare, replicare ed apprendere, a migliorarsi nel bene e nel male.
Se un uomo offende un
Dio questo ha il diritto di rendere l’offesa e non ha nessun dovere di
perdonare. Fu perdonato Prometeo? O Marsia? Edipo fu risparmiato dal dolore? La
Hybris è colpa tra le peggiori e la
punizione è un obbligo morale. Cinquecento anni prima di Cristo, prima di “ama
il tuo prossimo”, di “porgi l’altra guancia”. Poseidone si sente tradito dal
genere umano che lui stesso ha contribuito a plasmare. E la sua punizione si
rivolge anche contro sé stesso: distruggendo Atlantide egli cancella ogni
traccia divina dal mondo; cancella un po’ di sé.
Ma di fatto impedisce
ogni futura riabilitazione, o addirittura redenzione. Cancella sia l’errore
sia, ahimè, chi lo ha compiuto. Nega in maniera totale e irrevocabile quella
possibilità di migliorarsi in cui l’uomo eccelle; nega ogni prospettiva
“progressiva”. Non è diverso dalla Divinità irascibile e scorbutica dei pastori
nomadi che tramandarono il Vecchio Testamento. E’ giudice ed esecutore. E’ come
un giardiniere che ogni anno pota la pianta per mantenerla della stessa forma e
le impedisce di produrre fiori e maturare frutti. Qual è il significato di
tutto ciò? Sostenere che siamo schiavi di un Dio irascibile? O che, nonostante
tutto, siamo ancora soggiogati ad una Natura dormiente che ad ogni risveglio
genera catastrofi che, se non fuori dalla nostra comprensione, sono fuori dal
nostro controllo? Se l’obbiettivo e solo questo meglio guardare ai primi Van
der Graaf Generator di Darkness, After the Flood o Killer.
Non voglio dimenticare
un’altra cifra determinante di questo nostro lavoro. Ocean non è filosofia; è
narrativa. Non cerchiamo di fornire spiegazioni complesse; cerchiamo di
raccontare storie. Immagina il Mito spogliato di ogni suo riferimento sociale e
morale: cosa resta? Un racconto, forse una “favola di fantascienza”. L’unica
strofa che si può immaginare andare oltre è l’ultima:
Siamo una particella
nell’Oceano
Perduti e salvi come
una lacrima
Siamo nati e perduti
nell’Oceano
L’ Acqua fu il
principio della vita, siamo nati in essa e di essa composti. Questo alla fine
credo sia ciò che rimanga. In Dawn cercammo il Principio nella Luce, qui in un
diverso elemento. Non vogliamo giudicare quale tesi sia più giusta; cerchiamo
solo di proporre musica migliore. Ognuno può scegliere da che parte stare.
E in effetti, narrativo
o no, tutto il concept è come intriso di una liquida religiosità pagana
collettiva. Su questo si può certo concordare…
Quando giunsero ai
poderi della Bertesina anche i gabbiani più tenaci avevano lasciato il posto
agli aironi grigi e alle folaghe. Tra i folti argini di canne paglierine si
delineò l’ampia loggia tripartita di Villa Gazzotti, tenuta anticamente
appartenuta ad un intraprendente commerciante e mecenate del secolo passato che
fu costretto a venderla dopo un disastroso collasso finanziario. Da allora
versava in uno stato di semi abbandono; solo il Principe la utilizzava, di
tanto in tanto, quando si trovava ad attraversare l’Italia settentrionale.
L’enorme porticato frontale, simmetrico, perfetto, troneggiava nella campagna
bassa e marrone come un tempio antico e inviolabile.
La bragana attraccò al
piccolo molo di legno e subito i ragazzi del gruppo scesero impazienti di
sentire la terra ferma sotto i piedi. Era appena metà mattina e lo show di
quella sera a Verona poteva ancora essere salvato. Il Principe fornì loro un
vecchissimo Volkswagen T-2 Split azzurro del 1952, che aveva girato mezzo
mondo. Se all’arena gli Eloy si fossero ricongiunti ai rodiese e al resto del
loro clan avrebbero potuto finire il Tour.
Dopo tutto, Ocean lo
meritava.
Il principe aspettò che
la nuvola di polvere sollevata dal furgone in partenza si depositasse sul
selciato muschioso.
Poi si diresse verso
l’atrio della villa per ridare luce a quelle stanze cavernose.
Non incontrò più
Borenmann e il suo gruppo; continuò a seguirli da lontano, con curiosità e
simpatia. Non era la musica mistica ed insondabile degli angeli cantori nella
pala del Vivarini; non era la musica che cercava, né il suono perfetto destinato
a rimanere nel Tempo. Ma fu un diversivo interessante e inaspettatamente
profondo, che gettava un’idea di speranza nell’ inarrestabile Agonia di
Atlantide e della sua società.
Attorno a lui, timide
onde di superficie solcavano l’ampio meandro del fiume addormentato. Le sfiorò
con le dita, bagnandosi appena.
Si dice che la croce
cristiana avesse lasciato la Britannia a bordo delle galee del sedicente
Imperatore Costantino III, poi detto l’Usurpatore, che sguarnì il Vallo di
Adriano caricando uomini, donne e animali sulle navi per approdare sul
continente dove il rivale, Onorio, asceso al massimo soglio d’Occidente,
cercava di amministrare quel che rimaneva di un Impero.
Dopo alterne vicende
che videro i due Imperatori prima acerrimi rivali, poi addirittura alleati per
far fronte alla pressione dei Barbari, Costantino si ritrovò assediato ad Arles
da orde nemiche di cui nemmeno conosceva la stirpe; con le guarnigioni di
Onorio disperse per i boschi della Gallia, l’Usurpatore si vide rinnegato anche
dagli ultimi fedelissimi. Cercò di sfuggire alla cattura prendendo i voti e
spaccandosi per sacerdote cristiano. Non bastò. Solo la sua testa fu recapitata
a Ravenna nella tarda estate del 411 d.C.
Nel frattempo, mentre
già fiorivano le leggende sull’Ultimo Sovrano Cristiano d’Oltremanica, la
Britannia, totalmente sguarnita e indifesa, si abbandonò alla decadenza più
sfrenata.
Il Principe Viaggiatore
aveva assistito alla partenza della flotta dall’alto delle scogliere chiare del
sud; osservò le navi levarsi sulle onde come un enorme stormo di laridi
migratori. Quando si volse verso l’entroterra vide folle a cui ancora non
sembrava vero il poter di nuovo erigere altari nei boschi e venerare divinità
antiche e dimenticate, poter festeggiare solstizi ed equinozi al posto di
Natali ed Epifanie. Spronò il suo cavallo verso una grande tenuta di campagna
che possedeva nel Sussex del sud, mentre attorno a lui gli Dei della Festa e
del Vino, dell’Amore Carnale e del Banchetto scendevano dagli affreschi delle
ville romane e camminavano già tra il popolo euforico.
Il Principe arrivò in
vista del lungo viale di aceri quando il cielo notturno ancora era rischiarato
dai bagliori distanti del grande incendio che stava divorando Londra. Era
estate inoltrata ma le ceneri che si levavano dal Tamigi si depositavano leggere
come la neve sui campi verdi.
La grande tenuta di
caccia sembrava dormire aspettando il suo padrone. Le quattro grandi colonne ai
lati della porta principale erano nascoste da un’edera spiraliforme e lucente,
mentre il comparto delle stalle, sulla destra del grande parco, appariva
impolverato e mortificato dai nidi pesanti dei corvi.
Di fronte, dalla parte
opposta del giardino, appena oltre la fontana e i giochi d’acqua, il grande
portico semicircolare era appena impolverato ma ancora risplendente degli affreschi
che ne decoravano le volte.
Il Principe, già
entrato nell’atrio, scostò le tende dei veroni così come si apre un sipario. La
luce del sole, filtrata dalla cenere illuminò la scalinata e il lampadario di
vetro, i pesanti arazzi e i tappeti colorati riportati dai viaggi verso est. La
servitù impiegò poco a risvegliarsi dal suo letargo e ben presto tutta la
tenuta riluceva di fiaccole e falò; l’acqua della fontana tornava a zampillare
e si sarebbe detto che addirittura gli alberi stessero rifiorendo pur così
fuori stagione. Era l’inizio di una festa che sarebbe durata fino al sorgere di
un nuovo regno, mentre già i primi sfollati della capitale incendiata varcavano
la cancellata di ferro aperta sul viale. Tra loro marinai, mercanti e
prostitute, ma anche giovani scrittori, attori di strada e musicisti. In fuga
da una città devastata, trovarono danze sfrenate e protezione sotto i portici
del Principe Viaggiatore.
Tra di loro anche Roger
Wootton e Glenn Goring, due giovani chitarristi accompagnati da uno strambo
complesso che comprendeva un flautista prestato all’oboe di nome Michael Rose e
un violinista che prediligeva la viola, Colin Pearson. Con loro Crhis, un
manager scanzonato e John, poeta ventiseienne. Il Principe Viaggiatore li
scrutava attentamente mentre i ragazzi erano ancora a bocca aperta e naso
all’insù, estasiati dagli affreschi nel grande portico. Camminavano lenti,
senza pensare a dove mettevano i piedi, osservando il ciclo di Arianna a Nasso,
le sue nozze con Dioniso, i cortei delle Baccanti fino al suicidio della
sfortunata eroina.
Al quinto giorno
ininterrotto di festa, Il Principe chiese finalmente a Roger e Glenn di suonare
qualcosa per gli ospiti. Il palco fu approntato al centro del giardino, tra le
stalle e l’emiciclo, circondato da fiaccole che rinforzavano gli ultimi raggi
della sera. Mentre il gruppo accordava le chitarre e i tabla, le ragazze
candide giocavano ancora nella fontana e correvano tra i tavoli e le poltrone
damascate, bagnando i notabili con i vestiti svolazzanti che attiravano gli
sguardi degli ospiti.
Ad un cenno del
Principe, scese il silenzio tra la folla e il ronzio della viola di Colin alla
ricerca del “la” riempì le campagne.
First Utterance è un
evo oscuro intagliato nel legno di Ent da spiriti silvani; ma è anche un
prodotto colto, di raffinati arrangiamenti. Un lied da camera per orchestra
ridotta. Da solo illuminò le stanze della villa come una lampada ad olio
giallastra che ondeggia. Circondati da mimi mascherati e inquietanti, i
musicisti raccontavano la storia di ragazze perse nel bosco, in fuga da semidei
impertinenti, torturate, sedotte, tentate dalla carnalità più esplicita;
raccontarono dei cristiani perseguitati, ricacciati nelle tenebre e della metà
oscura del mondo. I riferimenti di quella musica erano sfuggenti: qualcuno ci
vide un’ombra di Genesis malvagissimi, oppure dei Pentangle in versione
esoterica e decadente. In realtà il timbro strumentale con viola, oboe, tabla e
chitarre acustiche era alquanto bizzarro e originale, così come la ritmica continuamente
caracollante, come prestata da balli desueti. Ma ciò che spaventò maggiormente
quel pubblico ormai stordito dalla baldoria fu l’impasto vocale: un impreciso
unisono di voci bianche e falsetti androgini, come un gruppo di sirene
naufraghe che, aggrappate ad uno scoglio, hanno perduto l’armonia e la soavità
in favore di una teatralità macabra e oltraggiosa. Raccontando di Diana, la
vergine catturata dalle divinità silvane, le parti vocali si intrecciavano con
turpe compiacenza per le sorti della giovane. Inseguita, trovata, sfuggita ma
inesorabilmente violentata: sembrava un Erwartung al contrario, in cui la
protagonista è anche la vittima. Drip Drip, che pareva un seguito ideale al
primo brano, nonché una trama costruita su una stessa idea del loro poeta
accompagnatore, era addirittura raccapricciante, ai limiti del sadismo, ma
appoggiata ad un accompagnamento serrato e vorticoso.
Dopo un inizio simile,
nel grande giardino del principe anche il ronzio degli insetti notturni
sembrava affievolirsi. La grande colonna di fumo che ancora saliva dal centro
di Londra si scontrava con correnti umide e rifletteva strani bagliori lunari
su tutto un emisfero. Sembrava che un caldo opprimente stesse scendendo sulle
campagne e sulle menti inebriate degli ospiti.
Glenn e Roger pensarono
che quello fosse il momento giusto. Attaccarono una melodia sottile
recitando sottovoce ciò che si vedevano attorno: “Bright the sunlight summer
day Comus wakes he starts to play Virgin fair smiles so sweet Comus' heart
begins to beat”. L’eco
delle parolecorreva veloce svanendo tra il pubblico, mentre il flauto di
Michael sembrava incantare serpenti invisibili. Poi la musica
si impennò in un barrage di heavy-folk terrificante, con chitarre a tutto
spiano; la voce sommessa dell’inizio divenne un’evocazione perentoria:
“Chastity chaser virile for the virgin's virtue Excite her exciter you better
go before you bleed and he hurts you He chased the chaste you better leave if
you value your virtue All right now”. Quando
un vapore violaceo si levò dal centro del palco anche il Principe Viaggiatore
portò la mano sull’elsa. Dalla nuvola emerse un’enorme maschera rotonda
intagliata nell’ebano che cominciò a dimenarsi come in preda alle convulsioni.
Il viso circolare, enorme, la bocca rossa da cui penzolava una lunga lingua
canina, occhi vuoti e catatonici: Komus, il semidio di cui pareva essersi persa
la memoria, emerse nel bel mezzo del banchetto. Il coppiere stesso che
accompagnò il Dio del Vino nel suo pellegrinaggio attorno al Mediterraneo, che
lo affiancò nelle battaglie in Tracia, a Tebe e Orcomeno, stava ora ritto nel
mezzo del palco e del giardino. Portava in mano il Calice di Dioniso, Graal
pagano e massima reliquia Olimpica, dorata e risplendente. Con essa annaffiò
tutti i presenti e fecondò con il vino di Bacco la Britannia sguarnita e
spaventata. Mentre la musica ancora rinforzava come vento marino, la Maschera
della Divinità Danzante inseguiva vergini e si faceva beffe dei profughi del
grande incendio, illuminando la notte di grida terrificanti a metà fra spavento
e piacere carnale. Una pressione fortissima precipitò sulle tempie di chi
ascoltava, un sonno comatoso si impossessò delle loro menti. I musicisti,
stremati, arrivarono alla fine di “Song to Comus” a fatica; l’epifania inaspettata
del Semidio gettò un panico attonito attorno a sé. Poi, allo scadere degli
ultimi accordi, Komus scomparve così come si era presentato, un profondo
inchino e una risata distorta. Fu di nuovo il silenzio nel giardino; una brezza
pungente diluì l’atmosfera afosa e carica di fuliggine.
Ci si guardava come
risvegliandosi da un sogno incerto, sollevati nel ritrovare l’erba fresca sotto
i piedi.
Era il termine di una
notte lunghissima, trascorsa con le menti nei boschi battuti dal temporale
estivo; i mimi con le grandi maschere piatte si tolsero i costumi e li
adagiarono informi sul palco dove il gruppo intonava una melodia ipnotica e
circolare. C’è tanta mitologia agreste e celeste in “The Herald”, con le sue
allegorie del Giorno e della Notte, della Luce e del Buio separati dal suono di
flauti lontani. Un brano interminabile nel cui ciclico interludio di chitarre
acustiche Chris e Roger si divertono a reinterpretare le affinate polarità di
Jansch e Renbourn, senza troppi sofismi ma raggiungendo un equilibrio e una
ritmicità mai noiose. Il ridestarsi della grande Ruota Cosmica è affidato prima
alla viola poi al flauto: e qui i paragoni sono veramente difficili; è un folk
che diventa lied romantico rarefatto, pare troppo raffinato per essere Pop
Music e resta così sospeso ed inattribuibile. Qualche eco nei brani più estesi
di Happy Sad, sostituendo al vivido acquerello intimista di Love From Room 109
At The Islander (On Pacific Coast Highway) un gusto allegorico pagano e remoto
nel tempo. Quando su una metà della terra è spenta la natura, un altro Araldo,
su meridiani celesti opposti, estrae il suo zufolo e le ombre si ritraggono
veloci. Rotazioni e rivoluzioni stagionali che insegnarono all’uomo l’arte
della vita. Il solito colore vocale di sesso indefinito qui si trasforma in
salmo religioso di voci bianche. Stupefacente.
Una mattina di molti
giorni dopo, il levarsi del sole vide una Londra finalmente placata. Pare che
le fiamme si fossero estinte presso la Temple Church, ma altre fonti
sostenevano che fosse intervenuto lo stesso Duca di York a distruggere la
Biblioteca per impedire l’ ulteriore diffusione del fuoco. La città ne usciva
comunque distrutta. Gli sfollati che occupavano il grande parco del Principe
Viaggiatore ripresero lentamente la via della capitale in una fila lunga e
ondivaga. Il giardino si svuotò.
Glenn, Roger e gli
altri ragazzi del complesso riposero gli strumenti. Era facile prevedere per
loro un futuro radioso, con una musica di quella qualità. Le cose andarono
diversamente.
Forse fu la malvagia
compiacenza dei testi, o quelle voci che evocavano perversioni incestuose; o la
mancanza di un singolo da classifica; il non scendere a compromessi con la pure
variegata scena prog dell’epoca. First Utterance fu un fiasco. Nonostante
passarono in tour buona parte del 1971, i Comus non esistevano commercialmente;
l’abbandono del fido manager Chris Youle l’anno seguente segnò anche la fine
del gruppo.
Un paio d’anni dopo in
verità ci fu un tentativo di ricostruire un progetto; la neonata Virgin pareva l’etichetta
perfetta e nel gruppo entrò persino lo stralunato saxofonista dei Gong, nonché
braccio destro di Daevid Allen, Didier Malherbe. Ci fu entusiasmo, ci fu anche
un nuovo album, To Keep From Crying, ben più di compromesso rispetto
all’esordio. Mancarono ancora i riscontri commerciali. Il Semidio pagano piombò
nel sonno definitivo.
Tanto definitivo che
presto divenne uno dei massimi culti del revival prog europeo dei primi anni
’80. First Utterance fu (e lo è tuttora) uno dei più rari LP della scena folk
britannica dei primi ’70; talmente raro che si cominciò a dubitare persino
della sua esistenza. Un vero Graal. In Italia veniva addirittura distribuito
come finto album dei Titus Groan, col titolo Plus: il fatto alimentava la
leggenda di un disco “per iniziati”.
Quando, nel 1995, sarà
finalmente ristampato in CD, l’aura mistica sembrò scomparire ma la musica
manteneva, a distanza di 30 anni, tutto il suo potere ipnotico. La sola
immagine di copertina, raccapricciante da sembrare il cadavere carbonizzato del
Re Cremisi di Barry Godber, valeva il prezzo del disco.
Il Principe
Viaggiatore, dal canto suo, abbandonò la dimora di campagna non appena partiti
gli ospiti. Richiuse le grandi finestre della loggia; tirò le tende pesanti.
Poi girò il cavallo e, incappucciato, lo spronò verso un tempo lontano; alle
radici del paganesimo, indietro nella storia.
1. The Battle of
Deorham
Il Principe Viaggiatore
arrivò a Deorham attraversando i filari scuri di querce su cui si infrangono le
onde erbose del Glouchestershire quando della battaglia rimaneva solo un eco.
Le enormi navi scricchiolanti avevano solcato la prateria ed a terra rimaneva
un intrico di corpi singhiozzanti e violacei. Il Principe Viaggiatore si faceva
largo tra le mebra menando fendenti con una spada appena ricurva. Ai primi
fiocchi di neve scesero nella valle anche i due Viandanti Scalzi che da giorni,
camminando verso Est, erano impazienti di raggiungere la piana di Dyrham.
Tony Hill e Simon
House, avevano formato gli High Tide nel 1969 e quello sarebbe stato l’apice
creativo della loro avventura. Tony, il chitarrista, aveva il naso alla Pete
Townsend e l’espressione di T.S. “The Reverend” McPhee dei Groundhogs; mica
male. Era già veterano di tante battaglie sonore, la più gloriosa della quali lo
vide assieme ad un gruppo di surfisti in acido catapultati in Inghilterra da
Riverside (California); si credevano i Nuovi Yardbirds, ma fecero comunque
meraviglie come Misunderstood. E mentre Tony sosteneva un garage ricco di
colori con accordi pesanti, l’inquietante cappellone Glenn Ross Campbell
sciorinava electric slide come temporali in estate. Misero sottosopra
l’underground londinese per alcuni mesi, lasciando gli strumenti in riverbero
con gli amplificatori, soli sul palco, guadagnandosi l’attenzione di un giovane
gruppo ancora blues, i Pink Floyd. Ma si sfaldarono, sotto i colpi della naja e
dell’indifferenza del Grande Pubblico che ignorò "Child of the Sun",
un 45 che ebbe l’ambizione e la caratura per fare epoca. Tony si disperse nel
sottobosco finchè incontrò l’altro Viandante Scalzo, Simon. Violinista
elettrico capace di trarre suoni pesantissimi e distorti, era molto più simile
ad un’evoluzione del Page di "Dazed and Confused" che ai folk
improvvisati di Rick Grech dei Family o
dei polistrumentisti dell’Incredible String Band. Aspetto da tardo hippy di
campagna, volto ascetico, Simon divenne un corpo unico con Tony e, accompagnati
da scudieri ritmici come Pete Pavli e Roger Hadden, si misero in cammino per
selve ante-cristiane, soffocate da rovi inestricabili di distorsione, feedback,
rumore, in cui il violino si attorciglia come un rampicante malefico agli
accordi della chitarra.
Nacquero gli High Tide.
Sotto il mantello del
Principe Viaggiatore, giunsero a Deorham grazie al lato A del secondo LP,
Omonimo, aperto da Blankman Cries Again, vertice della loro opera, nonché prima
canzone vera, che mette ordine nell’intrico d’edera velenosa che fu il primo
album (Sea Shanties), dominato, o addirittura tiranneggiato, da Death Warmed
Up, grande danza macabra circolare, di cui Blankam è un’evoluzione più solare e
rifinita: dove prima era tetra crudeltà strumentale, ora si aprono
arrangiamenti e spazi di spettacolare vastità e limpidezza. Del resto, sui
campi un tempo fortificati, anche la violenza dello scontro era scemata e
mentre i Britanni fuggivano in rotta, dispersi per le campagne sanguinolente,
Tony travestiva una semplice ballata folk da panzer hard rock tonante; poi già
alla fine della seconda strofa, prima della rivelazione del Sacerdote della Dualità,
le parole se ne vanno e Simon attacca una sarabanda irresistibile che è quanto
di meglio ci si possa aspettare dalla psichedelia pesante di fine ’60: il suono
sale a spirali sempre più strette e invita sul proscenio la chitarra e tutta la
sezione ritmica. Il brano decolla e si leva sui vincitori e sui vinti,
osservandoli dall’alto e preparando il sentiero che qualche anno dopo
percorrerà Argus, Guerriero dei Wishbone Ash. La guerra è finita e il momento
chiama alla redenzione e alla purificazione.
Fu il Principe
Viaggiatore a condurre i due Viandanti attraverso le terre di Re Coinmail, il
cui corpo ora giaceva tra i corvi e la cui città, Gloucester, tremava
all’arrivo della furia sassone. Nel borgo, dell’antica basilica voluta da Nerva
rimanevano pietre atterrate, ma il Principe spronò il cavallo verso un luogo
già sacro agli Antenati e dove presto Re Osric, con il benestare di Ethelred di
Mercia, avrebbe posato le fondamenta dell’Abbazia di San Pietro, primo saldo
baluardo cristiano contro il paganesimo dilagante nell’Inghilterra del sud.
Sotto le volte grigie e
gelate, nel barlume sacrale di una fede che rinasce, Simon e Tony si levarono i
pesanti mantelli da Nazgul. E’ il momento della profezia e dell’introspezione.
Così, dopo un’introduzione spigolosa e d’aspirazione jazz, ecco che prorompe un
tappeto di Organo Alto, lo sfondo agli accordi misteriosi della Gibson e alla
composta e monotona liturgia del violino. The Joke è la cerimonia a tinte
progressive che sta nel cuore dell’album e che rivela un’arcana saggezza da
Eremita dei tarocchi. Solo alla fine la melodia si apre; è come rivedere la
luce forte all’uscita dalla bassa navata romanica che odora di pietra:
oltrepassata la porta dell’abbazia, intagliata e pesante nella quercia, Simon
ricama una danza gentile per le ragazze spaventate del villaggio. E’ una
rinascita, dopo la paura della guerra, il terrore di una sconfitta; si apre una
nuova era. Danzando.
I tre pellegrini si
lasciarono Gloucester alle spalle in una giornata remota del VII secolo dopo
Cristo.
Il principe viaggiatore
che indossava le piume della Gazza, volteggiava in un mantello verdastro due
passi avanti a loro, segnando la strada. Ai musicisti, appena stanchi, mancava
ancora la seconda facciata di un LP che sarebbe stato secondo ed ultimo. La
misero assieme in viaggio e non fu facile. Sferzati dalla pioggia e dal vento
di fine inverno, nacque un lungo brano in forma di rigida suite ABAB, con due
lunghe parti strumentali e due cantate; era una musica carica di pensieri,
sferzata dal ricordo e da una lieve malinconia. Rimpianto. Il tempo delle danze
scalmanate di Futilist's Lament era in realtà scomparso sotto un fittizio muro
Heavy. Allora incomprensione, sguardi abbassati, uomini chini nascosti nel
vuoto; Saneonymous è una jam che presente la fine, vive su un presagio sottile,
come una vecchia nave scricchiolante che si spiaggia alla marea. Il gruppo, che
tra i flutti aveva trovato nome e ispirazione, non vedrà mai il mare, né la
gloria.
Alle porte di Londra,
mentre i sovrani dell’Essex si convertivano alla Nuova Religione Cristiana, la
compagnia si sciolse. Era finito il tempo delle battaglie e dei pentimenti; gli
anni ’70 nacquero promettendo rivoluzioni che già parevano modernariato
sintetico.
Simon si accasò con un
erudito gruppo acustico che pubblicava all’ombra dei Pink Floyd su Harvest: la
Third Ear Band. Non pago, salì a bordo della Mothership spaziale degli Hawkwind
ai quali offrì il suo levigato violino (ma anche sintetizzatori e tastiere
d’ogni tipo) per il classico Warrior on the Edge of Time: facilmente calatosi
nel nuovo immaginario fantasy di Michael Moorcock, scrisse ben quattro brani
per il disco e divenne colonna della band.
Verso la fine dei ’70 fu addirittura avvistato sui palchi con David
Bowie; in pochi lo riconobbero così ripulito e ammaestrato.
Tony, al contrario,
scomparve nelle nebbie del sud. Gettò le chitarre nel fondo del Tamigi
ritirandosi lontano dagli sguardi curiosi. Gli High Tide furono il suo più
grande progetto eppure forse lasciò gran parte della sua fortuna con i vecchi
Misunderstood; lo stesso tarlo avrebbe tormentato per anni Glenn Ross Campbell,
mentre si sbatteva coi Juicy Lucy, il cui merito più grande, oggi, è avere
inciso per la Vertigo. I Surfisti di Riverside, con Tony in sella, avrebbero potuto
fare sfracelli.
Il Principe Viaggiatore
non varcò mai le mura della capitale, né si diede da fare per stare al passo
coi suoni dei tempi. Dimesso il mantello di piume floreali, girò il cavallo e,
incappucciato, lo spronò verso un tempo lontano; alle radici del paganesimo,
indietro nella storia.
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