giovedì 26 giugno 2014

Uno sguardo a Scarabocchi Ubriachi


Lista aggiornata dei racconti?
Fatta.
Lista delle canzoni?
Ormai completa
Impaginazione?
Diverse idee sul piatto, probabilmente faremo un layout a più colonne… Per le canzoni siamo già al 90%.
Piattaforma e formato?
Ormai decisi: A4 in quadricromia su “Il Mio Libro”, ci costa una quindicina di euro a volume, si può fare…
C'è un denominatore comune profondamente “Amerikano" nella musica di Bart, in quella che trasudano le sue pagine.
E sarà pure quella ormai “solita” America delle periferie, del profondo, dei blue-collar. Sarà quella, ma vista in maniera personalissima, originale, attraverso l'occhio distante ma affine di chi sta vivendo una congiuntura economica tremenda (tre-men-da, non badate a chi dice il contrario) sia pure dall'altra parte del mondo.
Ci sono i vinti, ci sono i vincitori; ci sono i vivi e i morti. Vincono sempre gli stessi, anche nel rock e nei tormentoni dell'ultima estate. Ma ci sono altri che restano, resistono, si nascondono, discreti, nascosti sul fondo di un bicchiere.

Sarà triste rincasare
per attendere la notte
e poterti ritrovar
al fondo di un bicchiere
nel cielo dei bars

(Fred Buscaglione)

E nonostante l'apparenza non la smettono un attimo di lottare, anche si tratta di gettare sassi contro i carri armati, come cantava Everlast in un bel disco: Love, War and the Ghost of Whitey Ford.

You build your fighter jets, you drop your bombs
You kill our fathers, you kill our moms
Kill our brothers and our sisters, and our uncles and our aunts
Still I'm fighting with the stone that's in my hand

Scarabocchi Ubriachi non è nulla più che uno di quei sassi, e si dovrà tenere conto di questo.
Consentire un'evoluzione coerente a quel dolciastro e rurale fatalismo afroamericano che emergeva evidente in Viaggiatori nella Notte; farne slogan di opposizione, magari anche di lotta, di contestazione. Graffiti sul muro, forse l’unica cosa che mi è chiara dall’inizio.
Mi passo tra le mani alcuni volumetti, incoerenti, eterogenei, da cui trarre qualche ispirazione, fosse anche solo per un colore, un'immagine, un carattere...
Do it! di Jerry Rubin, e i suoi manifesti a collage. Il Sinclair di Guitar Army. Poi Rock Babilonia di Gary Herman, un testo che consiglio a chi ancora non fosse (un po') disincantato; ci sarà ancora qualcuno là fuori?

Con Bart ci sentiamo spesso; non credo gli dispiacerà se dedico questo post ad “un altro orfano” raccolto dal web “nella sua ricerca dei figli perduti”... Vik di Radio Nowhere.
Spero sia in ascolto.  Chissà che Scarabocchi Ubriachi non abbia bisogno anche di lui...

P.S. Nel frattempo Massi di Detriti di Passaggio sta correggendo qualche bozza ed impostando un'introduzione. Mr. Hyde sta rovistando nei suoi Cassetti Confusi alla ricerca di qualche illustrazione.

Chi ce lo farà mai fare?
La musica? Il rock? Bart? La noia, la frustrazione?
La voglia di riscatto?
Barrate la casella giusta.


Evil Monkey

lunedì 23 giugno 2014

Sommersioni di U.S. Prog – Volume 2



Cronologicamente, se nella prima metà del decennio 70 il genere era un morboso incesto di stordimenti acidi, suggestioni anglosassoni e fantasiose tendenze folk jazz miscelate all’esigenza di fusion, è nel triennio 1975 – 1978 che il progressive americano arriva al suo apogeo, con qualche anno di latenza rispetto alla controparte inglese. A maturazione, si presenta come un pomp rock sinfonico da arena, ispirato tanto agli Zeppelin quanto, soprattutto agli Yes, in effetti tra i pochissimi gruppi inglesi di reale prog ad avere più successo in America che in patria. Per quanto riguarda il pubblico americano, esso resterà sempre piuttosto freddo con quanto prodotto dai compatrioti epigoni del flash rock di Howe e Wakeman. Ben diversamente andrà invece alla fine del decennio, quanto, scesi a più miti e radiofonici consigli, i rocker “romantici” americani escogiteranno una forma di AOR orchestrato che farà la fortuna di Asia, Boston e compagnia bella.
Del periodo zenitale dello U.S. Prog restano testimonianze luminose, dagli Starcastle ai Cathedral, dagli Happy the Man agli Ethos. Gruppi ed album oggi in buona parte sommersi, che faticano ancora a trovare la strada del digitale, rimanendo confinati in pregiatissimi vinili dal valore eterogeneo ma dal fascino notevole.

giovedì 19 giugno 2014

Sommersioni di U.S. Prog – Volume 1


Il prog sommerso statunitense è un curioso ponte incerto ed ondeggiante, gettato dagli ultimi spasimi acidi alle grandeur AOR, passando per mille tentazioni hard, folk, jazz. Più caotico e disorganizzato della controparte britannica, vanta però una carica, perfino una violenza, tutta americana e mascolina ignota alle prelibatezze europee. Non mancano i barocchismi esasperati, gli stucchi rococò, le inutili sperimentazioni e le pietose auto indulgenze, ma c’è sempre qualcosa di divertente e piacevole, pur nelle suite più esasperanti.

Un viaggio coloratissimo, da oceano ad oceano, lungo le solite traiettorie (da New York a Detroit, passando per l’Ohio) con l’apparente defezione della California e un buon contributo dalle province più remote.

lunedì 16 giugno 2014

Note di U.S. Prog





Partendo da una gretta generalizzazione: l’America (U.S.A. e per esteso, Canada con la notevole eccezione del Quebec francofono) non ha mai conosciuto, in senso stretto, un movimento di rock progressivo unitario, identitario, riconoscibile tanto da fuori quanto da dentro.
La sua nicchia ecologica è stata alternativamente occupata dalle esplosioni acide (Vanilla Fudge, Spirits) e da quel genere misto, definibile come fusion (o “Americana”, in tempi recenti), portato al successo da band come Electric Flag, Blood, Sweet and Tears e Chicago. Gruppi che hanno avuto l’ambizione di dare uniformità ai differenti linguaggi del recente patrimonio musicale popolare americano: folk, blues, jazz, rock ‘n’ roll. Senza dimenticare l’apporto che in quest’ambito hanno avuto le sperimentazioni elettriche di Miles Davis.
L’assenza di un Rock Progressivo “di stampo britannico” è in parte spiegabile con l’assenza – o almeno la lontananza – di quel patrimonio storico (musicale e non) di cui gli artisti europei hanno sempre fatto tesoro. Far from the reaches of Kingdom and pope”, come cantavano gli Steppenwolf in Monster. La mancanza di un Romanticismo; di un contatto diretto con la musica colta della tradizione, magari filtrata attraverso i ritmi popolari (valzer, polka…). La mancanza di profondità storica.
Gli U.S.A. sono nazione giovane per antonomasia; non hanno medioevo. Non possiedono quell’immaginario comune di storia – leggenda - letteratura che in Europa risale su, fino a Roma.
Togliete il medioevo a certo rock britannico… e vi resterà ben poco.
L’unico vero “mito” americano resta quello della frontiera (geografica e umana), ed è tutto appannàggio, oltre che del cinema, di country, folk e dei grandi songwriter che ad essi si ispirano. Una musica che inevitabilmente si basa sul riff, sulla frase ritmica ben più che sulla melodia. Una musica che trova nella “forma-canzone” la sua ragione d’essere, non certo nella suite o nella sinfonia.
La mancanza di un movimento progressivo riconoscibile non significa però che manichino manifestazioni prog tout-court. Magari singole canzoni-suite, piccole band, con piccole discografie; ma anche transizioni, o stadi larvali di grandi gruppi che in qualche fase della loro esistenza hanno prodotto reale, tangibile e ottima musica romantica, fantasiosa, melodica e progressiva (Styx, Kansas, Journey…).
Nessuna linea evolutiva; nessuno scambio, nessun progetto, scarsa o nulla ispirazione reciproca, pochi riferimenti all’Europa di Genesis e King Crimson. Una costellazione un po’ disordinata che va da una costa all’altra e attraversa più o meno tutti i 70, ben sopravvivendo agli scossoni che ’76 e ’77 portarono al rock europeo.


lunedì 9 giugno 2014

Viva la E Street Band!


Fermi tutti: perché questo non è un post sulla E Street Band. Né sul Boss.
Quindi Sprig-fans, potete anche smettere di leggere.
Questa è la band dei “proiettili d'argento”, quelli che ammazzano i licantropi nelle notti di luna e che il venerdì sera danno un po' di svago al vecchio Frank, che finalmente stacca da una settimana passata sulla vasca di zincatura alla Visteon Corporation di Ann Arbor.
Perché, come dice Bob, “il pubblico di Detroit è il miglior pubblico rock del mondo!”
Rock, nulla di più. Un po' di buoni propositi, qualche figlio da tenere sulla retta via; facendogli capire che il lavoro è quella cosa per cui tutte le mattine la sveglia suona alle 6.30, che tanto rompe i coglioni, che tanto è da tenersi stretto, strettissimo.
E se non dovesse essere ancora chiaro, ci pensa Bob Seger a spiegarlo a suon di bianco funk incazzato ma facile ad aprirsi al sorriso e al perdono, perché, alla fine, chi non sbaglia in questo mondo? Bob ha una parola buona per tutti.
Live Bullet è la sismica testimonianza di quel vangelo laico e proletario che è stata la sua carriera, un compendio elettrico di un’ ampia e dimenticata pagina di Grande Rock Amerikano.
Per i distratti, i pigri, gli ascoltatori accidentali, basti bearsi della coppia Travelin’ Man / Beautiful Loser. Potrebbe essere il titolo del "Grande Romanzo Americano", ma Bob non è mica uno da aspirare a tanto. E almeno vi godrete un mastodontico Drew Abbott, che, palla in mano, guida la transizione coast-to-coast dalle scalmane metalliche del primo, al soffice lirismo del secondo brano.
Grandioso.
E non è affatto la E-Street Band!

Travelin’ Man / Beautiful Loser, in questa versione live, pare non esistere nemmeno su Youtube, il che, al giorno d'oggi, equivale a pensare che forse non esiste affatto.
É falso, sappiatelo!

Il disco usato lo trovate online per qualche dollaro. Anche Frank l’ha già comprato.

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