In copertina ci sono tre volti appena sfocati che sembrano affogare
nel trasparente verdastro delle swamp che presto sarebbero state territorio
sintetico per Sonny Crockett e Rico Tubbs.
La strenua lotta contro il soffocamento della vita e del mondo
tutt’attorno, porta Jeffrey Lee Pierce a servirsi come feticcio del più
Amerikano degli stili: il country. Quello stesso country che anno dopo anno
pareva sempre più un vessillo per la destra repubblicana più reazionaria, ma
che i Gun Club distorcono e imbastardiscono fino fargli ritrovare un’originale
seppur deviata verginità, raccontando parallelamente un Amrica Psycho che
frequenta la metropoli con l’alienazione di un vagabondo delle Pianure del sud.
Country-contro. Un sound che sostiene l’autore nei suoi insistiti tentativi di
“tornare a casa”, nel senso più ampio; tornare agli affetti, al preto davanto
alla veranda in cui sedersi a bere una birra con il vicino guardando il football. Ritornare in quel luogo da cui si era partiti urlando e sbattendo forte la
porta. L’emozione crescete del tentato ritorno costringe ad alzare il volume,
elettrificare e distorcere la vecchia tradizione del campione solitario che
torna al focolare dopo avere ucciso i “cattivi indiani”.
Così si spiega per esempio l’autopsia che il gruppo fa di Fire of
Love, vecchia hit del 1958 di Jody Reynolds, al tempo ricalcata sulla moda del
twang chitarristico di Duane Eddy, che nell’idea di Pierce diventa un mostruoso
riff quasi fossero AC/DC in abiti mariachi. E la cover di Run Through the
Jungle, il brano più tormentato e sinistro dei campioni del country-rock democratico,
i Creedence. Ma anche quella specie di surf da sballo di John Hardy, in cui
Dotson si immedesima nell’equivalente hardcore di Dick Dale mentre Jeffrey si
sgola nel racconto della vecchia storia del ferroviere del West Virginia, neanche fosse una ballata di The Times They
Are A-Changin'.
Ma non è finita: Jeffrey Lee è veramente uno dei pochissimi che può
fregiarsi del titolo di Erede di “quel” James Morrison, con il quale
condivideva tra l’altro il retaggio di giovane borghese bianco cresciuto nel
profondo sud, nonché la non invidiabile abitudine di mortificare la propria
esistenza affogando nelle bottiglie vuote di Southern Comfort. Riesumando Jim
direttamente dal Pere Lachaise, ne sfigura il crooning baritonale con uno yodel
che è più un incubo nel dormiveglia che il virtuosismo del vecchio Jimmie
Rodgers o la malinconia sentimentale del contemporaneo Chris Isaak. Ciònonostante
Pierce resta un personaggio tanto misconosciuto che pare incredibile sia
nientemeno che il reale anello mancante tra il Re Lucertola e il futuro
anti-divo Kurt Kobain. La sua voce sta sempre davanti; sbattuta sul proscenio
come l’attrazione della serata. Dietro di lei stanno quinte su quinte, strati
su strati di chitarre che suonano punk, rock e blues all’unisono, senza
soluzione di continuità, procedendo su binari paralleli e sovrapposti, generando
un fragore avvolgente dal caldo riverbero antiquato. Come nell’invito
sciamanico e lunare di Carry Home, o nell’invocazione femminea di Mother Of
Earth (con lo stesso twanging tra Ombre Rosse e El Mariachi) che chiude il
disco così come si era aperto: immagini in controluce, tutte con lo stesso
sfondo e tutte risucchiate nello stesso vortice, “in the dark”. L’album intero è
una fenomenologia, una declinazione continua di un’oscurità (dark) onnipresente,
tanto nei paesaggi esteriori, quanto nell’intimo del cantante e di tutti i suoi
“doppi” che sfilano nelle 12 canzoni come una processione di flagellanti
incappucciati che si puniscono pur senza riconoscere un Dio a cui chiedere
l’assoluzione.