lunedì 25 agosto 2014

Psycho-pills su Spotify (cercando altro)



Battendo il web alla specifica ricerca di “altro” - prog americano, nella fattispecie - è fin troppo facile imbattersi in rottamature del passato, nuovi nomi del mondo alternativo, vecchie glorie che non abdicano al tempo.
Sintetiche, sinteticissime prime impressioni di quanto potete incontrare setacciando, casualmente e senza meta, la rete.


Black Pistol Fire



Con tripletta di LP: Omonimo (2011) Big Beat ’59 (2012) e Hush or Howl (2014)
A prima vista scatenati blues-tamarri tex-mex alla corte di Eric Sardinas, ma più alternativisti e low-fi e quindi discepoli invasati degli ovvi Black Keys prima maniera (tra 20 anni forse si potrà ben valutare la reale portata di Auerbach, magari anche di fronte alla scomparsa dalla memoria dei White Stripes). Del resto coppia pure loro (canadese) e - del resto - quando una canzone si intitola Jezebel Stomp qualche motivo per sbattere in giro la testa ci deve poi essere... Sort me Out è addirittura sfacciata nella copia carbone del duo di Akron.
Big Beat '59, già un titolo che attinge al primordiale, spiana un beat veramente troglodita, riduce il numero di brani (bene), ne riduce pure il minutaggio (bene, se vi piace così),  inserisce qualche malsana tonalità da mariachi rock (Beelzebub) e qualche ronzio in più negli strati di accompagnamento desertico, con slide obbligatoria (Crows Feet). Roba da motociclisti debosciati in stile Sons Of Anarchy. Lamentatevi!
Il terzo LP finge di complicare un po' la rifferia, ma è poi sempre la stessa roba di contrabbando al mercato nerissimo del garage blues, più cinetico e cromato degli esordi, questo sì.


The Stone Foxes



Ancora tripletta: omonimo, Bears and Bulls e Small Fires. Americani di San Francisco, mica scherzi.
Iniziano in un juke joint indie, quasi agreste, anzi addirittura campagnolo, con certe rozze leccate di slide e armonica che neanche nella contea di Hazzard. Sul primo album ci sono titoli ingombrantissimi come Rollin’ and Tumblin e Spoonfull, risolte con amichevole menefreghismo, ma anche tortuosità acidule come Take a Breath e ballatone slow. Menzione per la jammona ustionante di Under the Gun, 7 minuti di Power Trio confederato e Larsen a valanga.
Bears and Bulls (2010), che si avventura in un naturale glam-stomp mica male, si arrischia perfino di un titolo come I Killed Robert Johnson, una murder ballad a 320 volt. Poi rollingstonismi assortiti, un po' di iperboogie cannedheattiani, il solito tributo alla tradizione (Little Red Rooster) compiti ben svolti ed un eloquio sempre educato e a volte troppo rispettoso (Mr. Hangman a parte, che potrebbe essere un Lester Butler in stato di grazia...). Restano, per fortuna, gli echi acidi della Frisco che fu (Reno, bella).
Su Small Fire (2013) solo 10 brani (ottimo), che lasciano le campagne per urbanizzarsi in un funk cittadino, costruito da un sound maturo, voluminoso nello spessore, a colonna sonora di un notturno poliziesco e revivalista. Vicini agli ultimi B.R.M.C, con qualche afflato sognante e una pericolosa tendenza melensa che pur salvano sempre in corner. Copertina pulp di straniamento hollywoodiano, tra Hipgnosis e Strange Days.


Grodeck Whipperjenny



Album omonimo, anno 1970.
Psycho-funky spaziale e distorto, dal sound fantasioso ed imprevedibile. Progressivo nelle intenzioni, funkadelico nei risultati, come dei Love furibondi per le strade più rissose di Detroit. Furono backing band di James Brown. Conclusions è un nero strumentale con intro per quartetto d'archi, ma occhio a Put Your Thing On Me: devastante assolo di chitarra ultra fuzz che smitraglia raffiche di black pulp nel midollo del più cool dei pusher. Fantastico! Evidence Of The Existance Of The Unconscious è inedito black prog strumentale e morboso, tra Hysaac Hayes e Quatermass.


Thee Image

Due album: omonimo (ma vè…) del ‘75 e Inside The Triangle, sempre ‘75.
Soft rock da west-coast di secondissima generazione, mescolato a sensuale slow funky da nightclub, rilassato sulla spiaggia di Venice e senza pretese di trionfi internazionali. Nel trio c’è pure il buon Mick Pinera, che dopo Blues Image e Iron Butterfly, sa il fatto suo in fatto di latineggianti colate di Fender (Temptation). Secondo album più robusto e rockettaro.
Prodotti dalla Manticore, label di proprietà di ELP, per cui negli stessi anni suonava pure la PFM; strani incroci.


Joe Henry

Invisible (2014) cioè l’ultimo album; solo questo perché il personaggio merita ben altro approfondimento.
Lo immagini nella penombra di una stanza d'albergo al crepuscolo di un Mardi Gras anni '20. Uno spleen dal sapore di sano eroismo piccolo borghese (bianco, indubbiamente), che affonda le radici nel cuore stesso della Grande Canzone Cantautorale Americana, dal Bob nazionale al primo Tom Waits fino ai Grandi Disillusi sulle soglie del millennio: i Kozelek, gli Eitzel.
Classe da vendere, Sign (in crescendo di epico abbandono), Alice e Swayed da ascoltare. La riscoperta di un “segno folk” arricchito da orchestrazioni minime ed eleganti, mai appariscenti, che meditano sulla profondità nascosta nelle cose semplici. Traccia di un blues dell'assenza riempito da un country jazzato da settimane astrali, di sincera nostalgia.
Tante penne non sospette ne scrivono; a ragione.


Mystic Braves

Due album tra il ‘12 e il '14 (fa impressione scritto così, eh?)
Il primo, omonimo, si apre con Mystic Rabbit, tanto per ribadire il concetto di rosicchiatori mistici a piede libero. Un juke-box distorto da estati anni '60 riparato da un vetro giallastro di revivalismo stile Barracuda; chitarre western piene di riverberi e miraggi di 13th Floor, Quicksilver e pigrizie doorsiane (Strange Lovers). Un pop pulsante come facevano Bryan MacLean e Arthur Lee privi di ispirazione, copertine di colorati mandala appesi alle porte chiuse del Fillmore. Esordio bello ma monocorde (Please Let Me Know, brit-pop risuonato da qualche sballato psicotico texano della International Artist) che fluisce senza salti come un unico eterno brano di 3 minuti, ciclico e riflesso da 1000 specchi.
Desert Island (2014) si scuote dal torpore ipnotico e non rinnega certo il passato, aggiungendo qualche logica (e timida) linea di Farfisa da Ventures spaziali. Personalità rinvigorita da qualche assolo azzeccato, songwriting più multiforme, dal vago sapore spagnolesco, vocalità rivedibile, produzione ancora un po’ piatta. Bello il surf di Valley Rat e la sarabanda virulenta di Born Without a Heart.

Un pomeriggio di stordimento fumoso su un morbido e oppressivo divano psichedelico. Poi correre all'aria aperta, spalancando finestre e sperando nella pioggia.

2 commenti:

mr.Hyde ha detto...

Mi rendo conto di nuotare nell'oceano..Vado a fare quattro giri su Spotify, magari riesco a fare una pesca ricca come questa..

Unknown ha detto...

Nuotiamo tutti in un 'mare magnum'

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