sabato 20 agosto 2011

Chi ha ha paura del Free Jazz? Pt. 2°

<<Nell’idea di Coleman non esiste un tema vero e proprio e gli assoli non sono impostati su variazioni melodiche o armoniche: la musica fluisce libera, senza limitazioni, tutto dipende solo dalla creatività immediata del musicista...>>





Il lato B suona più notturno e a tratti ipnotico, essendo appannaggio dei contrabbassi e delle batterie. Nell’ordine: Charlie Haden, LaFaro, Blackwell e Higgins, separati, come incorniciati, dai brevi frammenti all’unisono che sono l’unico principio d’ordine nel fluire della composizione, e che restituiscono un senso tangibile di “tempo” e temporalità, coordinata che diversamente sembra scomparire, assorbita nei meandri dell’improvvisazione collettiva.
Ancora un paio di questioni. Quale fu la reale portata di quest’album?
Come tutti i manifesti fu opera sincera ed appassionata, che facilmente può prestare il fianco alla critica più cinica. All’epoca fu certo molto destabilizzante, ma va considerato non come unicum, ma piuttosto nel contesto dei primi lavori di Coleman, di Cecil Taylor, di Sun Ra, e anche di certo Davis, quello “modale” di Kind of Blue (1959), a cui Free Jazz viene a volte contrapposto. Sicuramente Coleman diede un nome e fornì le linee guida per un intero movimento: questo già la dice lunga. Musicalmente il discorso si fa ancora più interessante; come già notava Adorno in “Filosofia della musica moderna”: “L’origine dell’atonalità intesa come purificazione completa della musica dalle convenzioni, ha proprio in questo un che di barbarico”. O ancora: “L’accordo dissonante […] sembra anche, a sentirlo, che il principio d’ordine della civiltà non l’abbia del tutto soggiogato, quasi come se esso in certo modo fosse più antico della tonalità”. Questo essere “barbarica” e “non soggiogata” fece si che, nell’effervescenza dei primi ’60, la musica di Coleman fu subito interpretata dalla comunità nera come un tentativo di riappropriarsi di una primigenia cultura africana, che venne utilizzata come mezzo di rivendicazione di indipendenza e come collante per una nuova unità degli americani di colore. Una Cultura ed una Storia africane percepite, a ragione, come precedenti (più antico della tonalità…) a quelle - di fatto ancora embrionali - degli americani bianchi ex-schiavisti; una musica quindi che riannoda i fili della memoria innalzandola addirittura a memoria di razza. E’ il contributo che il Jazz (non si parla qui solo del free né tantomeno solo di Coleman) ha dato alla nascita del soggetto “Afro-americano”.
Lasciando da parte un attimo i risvolti sociali, occorre poi ribadire che la musica di Coleman eserciterà una grande influenza anche al di fuori del circuito Jazzistico: Frank Zappa, Captain Beefheart, Tim Buckley, George Clinton, perfino il punk di Detroit fino alla new wave e al rock tedesco, veicoleranno la nuova forma di libertà introdotta dal free in ambienti rock e pop, gettando le basi per contaminazioni e sperimentazioni fino ad allora sconosciute. La possibilità di lasciare da parte tanta teoria musicale, unita all’utilizzo di strumentazioni elettriche ed elettroniche (come ribadirà poi Bitches Brew) in mano alla giovanile irruenza rock darà libero sfogo alla creatività dei solisti più virtuosi o dei teorici più intransigenti, contribuendo a fare uscire la musica leggera dal suo stadio larvale di hit parade estiva.

Riguardo alla soggettiva, ciò non di meno dibattuta, “ascoltabilità” / “inascoltabilità” di una musica così prepotentemente estroversa e libera, questo è un falso problema. Armonia, tonalità e tutto quanto da esse deriva, sono convenzioni. Radicate nella cultura occidentale magari da millenni e a cui siamo tutti morbidamente assuefatti, ma sono pur sempre convenzioni; e come tali rinegoziabili. Con l’effetto che non viene meno la musica, ma ne subentra una diversa da quella che apparentemente l’Uso e la Storia hanno legittimato. La stessa cosa succede per le arti visive, quando le avanguardie del primo ‘900 hanno riveduto i centenari canoni di prospettiva, proporzione, riproduzione. A partire dall’Impressionismo, per arrivare a Mondrian, Picasso, Kandinsky, si sono aperte nuove strade alla pittura, svincolandola dalla pedissequa riproduzione del “vero” da realizzarsi secondo regole codificate.
Se può piacere un quadro di Mirò o di Pollock, allora può facilmente piacere anche Free Jazz, senza necessariamente scendere nel profondo della composizione, magari gustandosi i timbri e le coloriture dei solisti.



Per chiudere, una pagina tratta da “Il Popolo del Blues” di Amiri Baraka, tanto per chiarire come la rottura operata da Coleman fosse già chiara ai suoi contemporanei (il libro è del 1963), nonché condivisa dalla gran parte degli intellettuali afro-americani: “Ciò che hanno fatto Coleman e Taylor è stato un tipo di Jazz praticamente non basato sull’accordo, e in molti casi anche atonale […]. La direzione e la forma della loro musica non dipendono da accordi costantemente stabiliti, né accettano le costrizioni formali della battuta. Si può dire che questa musica si basi, per la sua forma, sullo stesso tipo di riferimenti delle prime forme di blues. E’ una musica cioè che prende in considerazione l’area tonale della sua esistenza, come mezzo per evolversi, muoversi, come un concetto musicale intelligente, strutturato dall’inizio alla fine.”

Non abbiate paura del Free!





The B-side sounds more nightly and at times hypnotic, being prerogative of the bass and drums. In order: Charlie Haden, LaFaro, Higgins, Blackwell, separated, as framed, by the short unison fragments that are the only principle of order in the flow of the composition, and that return a tangible sense of "time" and temporality, coordinated who otherwise seems to disappear, absorbed in the intricacies of the collective  improvisation.

Just a couple of issues. What was the real power of this album?

Like all the “manifesto” was a work sincere and passionate, which can easily lay itself open to criticism. At the time, was certainly very unsettling, but it should be regarded not as unique, but together with the early work of Coleman, Cecil Taylor, Sun Ra, and also, of course, Davis, the "modal" one of Kind of Blue (1959), that Free Jazz is sometimes opposed. Surely Coleman gave a name and provided the guidelines for an entire movement: this already says a lot. Musically, the question becomes even more interesting, as noted by Adorno in “Philosophy of Modern Music”: "The origin of atonality intended as a complete purification of the music conventions, has in this something of barbaric". Or again: "The dissonant chord [...] also seems, in listening it, to feel that the principle of order of civilization has not entirely subdued it, almost as it were, somehow, older of the tonality itself". This being "barbaric" and "subdued" meant that, in sparkling early '60s, Coleman's music was immediately interpreted by the black community as an attempt to regain possession of a primitive African culture, which was used as a means of independence claiming and as glue for a new unit of Black Americans. A History and an Africa culture perceived, rightly, as previous (older of the tonality...) to those - in fact still embryonic – of white ex-slave American, then a music that renews the threads of memory, even raising it to a “race memory” . This is the contribution that Jazz (here we don’t talk only of the Free or Coleman) gave to the birth of "African-American" subject. Leaving aside for a moment the social implications, it must then confirm that the  Coleman musi  exert a great influence outside the Jazz circuit: Frank Zappa, Captain Beefheart, Tim Buckley, George Clinton, and even Punk and New Wave or Detroit and the German rock, will carry the new form of freedom introduced by the Free in rock and pop space, paving the way for contamination and experiments hitherto unknown. The chance to put aside a lot of music theory, combined with the use of electrical and electronic equipment (such as underline Bitches Brew) in hands of the youthful rock impetuosity, will give free rein to the creativity of the most virtuoso soloists or theoretical firmer, helping to make pop music evolve from the larval status of a summer hit.

With regard to the subjective, nevertheless debated, “listenability” /”unlistenability” of a music so powerfully outgoing and free, this is a false problem. Harmony, tonality and everything is derived from them, are conventions. Rooted in Western culture for millennia, and that, perhaps, we are all softly addicted, but they are still conventions, and as such open to negotiation. With the effect that the music does not disappear, but it takes over an apparently different from that who the use and history legitimized. The same goes for the visual arts, when the early-‘900 avant-gardes have revised canons of perspective, proportion, reproduction. From Impressionism to Mondrian, Picasso, Kandinsky, they have opened new way of painting, releasing it from the slavish reproduction of the "true" to be carried out according to rules encoded.
If you can enjoy a painting by Miro or Pollock, then it can easily also like Free Jazz, without necessarily descend into the depths of the composition, perhaps enjoying the timbres and coloring of the soloists.

Do not be afraid of the Free!

1 commento:

mr.Hyde ha detto...

Non sempre è di facile ascolto, però ha una sua purezza espressiva che altri generi,oltre al punk, non hanno. Il musicista free non cerca il consenso dell'ascoltatore,è più intento a seguire e la sua ispirazione..

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