mercoledì 31 ottobre 2012

Quello che non ho


Tra i pescatori sportivi professionisti, quelli che scrivono sulle riviste, che sponsorizzano materiali, c'è un tabù difficile da sfatare: nessuno di loro vi dirà mai il peso della più grossa carpa pescata. Questo perché sanno bene che qualunque pescatore della domenica, con un colpo di fortuna, può avere fatto ben meglio di loro.
Mica ci fa una bella figura chi passa per un guru del suo campo.
Allo stesso, qualunque professionista Rock sarà ben geloso dei suoi ascolti e sopratutto dei non ascolti: difficilmente il critico di turno vi rivelerà ciò che non ha mai ascoltato. Questo perchè sa benissimo che nella lista c'è anche quell'album, fondamentale, considerato imprescindibile dal senso comune, che...gli manca. Magari è mancata l’occasione, il tempo, la voglia o il coraggio. Sta di fatto che gli manca.
Così, in fede alla linea di “auto miglioramento” che da un po' di tempo contraddistingue questo blog, ho deciso di fare outing. Vuoto il sacco.
E chissà che ciò che mai abbiamo ascoltato non ci definisca meglio di quello che conosciamo e di cui sproloquiamo fin troppo spesso...

venerdì 26 ottobre 2012

Prigioniero del proprio testo


  
La maggior parte delle recensioni che ho scritto e un buon numero di quelle che si leggono in giro sono organizzate, più o meno esplicitamente, secondo un immutabile schema tripartito, buono per ogni tema dalla seconda superiore in su:

introduzione

svolgimento

conclusioni

Uno schema assai funzionale, che agisce bene soprattutto con gli album che poco concedono alla fantasia, adatto a testi lineari, scorrevoli e senza troppe pretese ma che presto prende il totale controllo del prodotto e lascia al povero autore scarsi margini di manovra. Non c’è nulla di male a seguire un canovaccio simile: si possono scrivere ottimi articoli seguendo quest’impostazione, ma la verità è che alla fine stanca. Forse più l’autore del lettore; ad ogni modo dopo avere toccato il fondo con un paio di pezzi su Maypole e Tongue, mi sono ripromesso di cercare alternative, soprattutto alla cronica sclerotizzazione di ognuna delle tre parti.
Quali sono i temi ricorrenti e ormai consunti? Vediamoli punto per punto.

NB: questa NON è una lezione; non voglio fare la morale a nessuno, sono considerazioni che faccio a me per primo e non pretendo assolutamente di insegnare a scrivere a chi già lo sa fare. Detto questo, se la galassia dei blog musicali, e più in generale delle fanzine sul web (e magari anche della stampa specializzata?) vuole arrivare ad avere quei riconoscimenti e quella considerazione che forse merita, credo si debba lavorare sulla qualità innanzi tutto, magari partendo proprio dai testi.

giovedì 25 ottobre 2012

Look this Blues – Immagini dal catalogo Delmark (1962 - 2002)


Se mi chiedete cosa sia il Blues, io non posso rispondervi.
Dovete chiederlo a Son House, Robert Johnson, Lightnin' Hopkins; e tanti altri…

Well, some people tell em that the worried
blues ain't bad
Worst old feelin I most
ever had
some people tell me that these
old worried, old blues ain't bad
Its the worst old feelin,
I most ever had

Robert Johnson - Walking Blues (1936)


Now I met the blues this morning, walking just like a man
Oh, walking just like a man
I said good morning blues, now give me you right hand
Now there aint nothing now baby, Lord that's gon' worry my mind
Oh, Lord that's gon' worry my mind
I'm satisfied I got the longest line
I got to stay on the job,I aint got no time to lose
Yeah, I aint got no time to lose
I swear to God, I got to preach these gospel blues

Son House - Preachin' Blues (1930)

martedì 23 ottobre 2012

Le brutte recensioni - Parole esiliate


Di brutte recensioni ne ho scritte parecchie e ne ho lette a caterve. Fanno parte della vita. Così, imbracciando una filosofia positivista basata sulle sorti progressive del genere umano, che piacerebbe a Carlo Cattaneo, ho deciso di stilare un elenco degli “errori” che non voglio più commettere nello scrivere di musica. Un corso autoimposto di scrittura professionale, assumendo come oggetto cruciale dell’analisi la recensione. Forse come diceva Greil Marcus la recensione musicale è veramente “una forma morta”. Io faccio sempre più fatica a trovare soddisfazione da questo genere di testi. Ho la costante sensazione di ripetere le stesse parole, gli stessi aggettivi, gli stessi enunciati. Di organizzare il testo nel medesimo modo, come se fossi intrappolato in una griglia solo da compilare. Perché farlo allora? Perchè sono convinto si possa migliorare; si possano battere altre strade, sfruttare diversi approcci.
Orbene, rispolverando vecchi scritti e tanti articoli in giro per il web e la stampa specializzata, ecco stilata una lunga lista delle parole ed espressioni più inflazionate, abusate e ormai insopportabili, tipiche del recensore Rock degli anni 2000.
Per ora mi limito ad un livello grammaticale e morfologico. In futuro non escudo di approfondire la ricerca dal punto di vista sintattico e testuale.
So che un post come questo può risultare antipatico. Non voglio passare per il professore acido di turno a cui il tema dello studente orfano non va mai del tutto bene. Ma è un’ operazione che compio su di me per primo, che ritengo importante per migliorare la mia produzione.
Poi, non prendiamoci troppo alla lettera. Parliamo di musica mica di oncologia!

venerdì 19 ottobre 2012

Il Monumento al Rocker Ignoto


“It wasn’t that we were so much overlooked when we were around. It was just that nobody knew we existed!”
Glenn “Ross” Campbell  (The Misunderstood)

Arrivo a Clevelend verso sera; la nuvole sono scomparse e un liquido rossastro dilaga in cielo. Mi faccio tutto Clifton Boulevard fino al Lakewood Park.
Le acque del lago sembrano ancora in fiamme dall’estate del 1969. E’ rimasta una canzone imprigionata tra i rami autunnali di una dissolvenza lontana. La libero e la lascio volare via.
Di fronte a me, tra i cedri, il Monumento al Rocker Ignoto.
Un grande parallelepipede di bronzo, quindici metri per otto, modellato come fosse l’esteso proscenio di un palco pietrificato. Una quinta trasparente lascia che lo sguardo scorra fino all’orizzonte. Uno stage, vuoto. Luci spente.
Incisi su tutta la superfice, centinaia di nomi di ragazzi e ragazze. Nomi, cognomi. E basta. Niente date, niente riferimenti.
Sfioro i caratteri in rilievo; leggo a caso: Michael Stevens, Steve Arcese, Gary Justin, Todd Potter, Greg Arama. Nomi comuni.
Non sono soldati; per la maggior parte sono vivi e, spero, felici. Ora sono assicuratori, inseganati, taxisti, rivenditori di materiale elettrico, programmatori di computer.
Trenta, quaranta anni fa, ognuno nel suo piccolo, era impegnato a cambiare il mondo. A costruirsi il proprio sogno di Gloria nell’Olimpo della Musica. Seguendo quel sentiero di pietre gialle che conduce ad un regno di magia e ricchezze; di personaggi strampalati e idoli di cartapesta.
Tutti ci hanno provato. Nessuno di loro ci è riuscito. Almeno ai nostri occhi.
I loro nomi sono scomparsi dalle chart, dalle radio, da Billboard. Non li troverete nel negozio sotto l’angolo, non nel megastore in periferia, tantomeno sui libri.
Quei nomi sono incisi qui. Su un palco vuoto di bronzo su cui i bambini, al sabato pomeriggio, si divertono a rincorrersi e a fingere di suonare una chitarra a tutto spiano.
Perché i nomi passano. Ma il sogno resta!
Si è fatto buio, attorno. E’ il lago ad illuminare la città.

giovedì 18 ottobre 2012

Gli Intoccabili



"Quali sarebbero questi temi che non potrei affrontare?"
Il funzionario televisivo mi disse: "Lo sai benissimo sono i 5 temi tabù che non si possono affrontare in televisione e cioè: la religione, il capo dello Stato, gli handicap fisici, le razze diverse e l'omosessualità."
Io lo ringraziai perchè pensai... la prossima volta che andrò in televisione, in un programma mio, in diretta,la prima battuta che dirò sarà: "Cristo di un Dio, dice Scalfaro, quello zoppo di un negro è una checca."
Daniele Luttazzi

Giorni passati entomologicamente, mentre il ritornello dei 50 anni degli insetti più famosi del globo riempiva pagine di giornali, rimbalzava sui CD in omaggio, attraverso monografie inedite e rimorchi del materiale più vario. Tanto da fare quasi passare in secondo piano l'uscita nella sale dell'ultimi film di marca Led Zeppelin, Celebration Day...
La domanda è sempre quella, i più smaliziati avranno già indovinato...ma voglio provare a formularla in maniera un po' differente senza passare per la solita annosa quanto inutile questione "Meglio i Beatles o gli Stones?”
Non voglio neanche stare a sindacare eccessivamente sui loro reali meriti artistici (personalmente credo comunque siano importanti); provo a fare un passo oltre e mi domando: l'esposizione mediatica dei Beatles, che dura da 40 anni, è realmente proporzionata al valore artistico e storico del quartetto? O è sovradimensionata pur rispetto all'indubbia importanza musicale dei Fab Four?
Da qui, mi permetto una generalizzazione. In epoca di caste e profonde disparità politiche e sociali, esistono gli intoccabili anche in musica? Chi fa parte della Casta?
Ammetto che queste domande sembravano ben più sagaci prima di metterle nero su bianco. Ora mi accorgo quanto siano in realtà banali, sopratutto la prima.
Certo che esistono gli intoccabili. Intoccabili per la stampa di massa, per quella specializzata, per le radio e le televisioni. Intoccabili anche per il senso comune.
I Beatles sono tra questi; anzi, sono qualcosa in più. Sono un bene rifugio. In periodo di crisi, sbatti le loro facce in copertina ed avrai un ritorno assicurato.
Gli intoccabili esistono, oltre che per indubbi (...non voglio fare il bastian contrario per forza…) meriti artistici, anche per una capacità tutta particolare di “far vendere”. Give the people what they want. Vendere non solo il disco; ma anche la rivista, il giornale, gli spazi pubblicitari, i biglietti del cinema... Sono in grado di muovere, nel loro piccolo, l'economia.
Riguardo ai meriti artistici, ripeto: non voglio fare il facile gioco di sparare sul Divo di turno. Può essere divertente sostenere che Elvis fosse una montatura, che i Beatles scopiazzassero a destra e a manca e che gli U2 da vent'anni campano di rendita. Non è questo l'aspetto che mi interessa.
Certo, è bello (e in moltissimi casi giusto e lecito) sparare a zero sulla Casta, quella vera, di “stelliana“ memoria , metterne alla berlina gli eccessi, le truffe, le corruzioni. Questo è un dovere per l'informazione e nel suo piccolissimo anche per il cittadino.
Ma noi... siamo disposti a sparare sul nostro Mito? Ad accettare che il nostro artista preferito faccia parte di quest'elite? Siamo pronti ad ammetterlo o preferiamo negarlo? Magari cercando di dimostrare il contrario, cosa per altro sempre fattibile quando non si parla di cartelle fiscali.
Il fan di Elvis ammetterà che il suo Mito fu un'abile costruzione pubblicitaria? Quello dei Led Zeppelin sopporterà il fatto che fossero un gruppo per teenagers? E quello dei Beatles riuscirà a tollerare che non tutti i primati e le invenzioni pop spettano ai quattro di Liverpool?
SI, dovremmo imparare tutti a farlo...perché, a differenza della politica, in un contesto artistico non ci sono necessariamente reati penali nè frodi ai danno del contribuente.
E' musica.
Piace? Ottimo; fermiamoci lì. Perchè sentirne sempre il bisogno di rivendicarne superiorità, originalità; intoccabilità, magari appoggiandosi al gusto degli altri pittosto che al proprio. Gioviamoci anche nel Rock del meraviglioso effetto della Corazzata Potemkin di fantozziana tradizione.
“Per me… A Day in the Life è una cagata pazzesca!”.
E’ terapeutico! Provateci.
“Per me… OK Computer …”
“Per me… The Great Gig in the Sky …”

Noi siamo quelli che ascoltano, non abbiamo bisogno di sbattere il Divo in copertina. Lasciamo che siano intoccabili per coloro che li devono promuovere per pagarsi lo stipendio.
E quando la canzone non ci piace, spegniamo lo stereo. Senza sforzarci di piegare il nostro gusto all’ anniversario di turno.

domenica 14 ottobre 2012

Vanilla Fudge: il più grande enigma del 1967


Mark Stein, Tim Bogert, Vince Martell  e Carmine Appice formarono i Vanilla Fudge sulle ceneri degli Electric Pigeons nel 1967 in quel di Long Island. Rimasero assieme per tre anni e cinque album.
Ancora oggi i Vanilla Fudge sono uno di quei gruppi, pochi per la verità, di cui si può coerentemente sostenere tutto e il contrario di tutto.

***

L’articolo che segue è piuttosto lungo ma ho deciso di postarlo comunque tutto insieme. Ne ho fatto però una versione in PDF, credo più facilmente fruibile, scaricabile dal link seguente:

A coloro che decideranno di avventurarsi nel testo: buona lettura!

***

venerdì 12 ottobre 2012

Stop, and look! (Visibilità – Pt.3)


“You don’t look, do you? You don’t look at the world, you just drive straight through it. Stop, and look!"

Wallander - The Fifth Woman


Il Rock ha spesso guidato attraverso veloci autostrade, sgasando a folle velocità per città rivestite di neon;  ha attraversato stati, deserti, oceani e palchi, fronteggiando isteriche masse umane in delirio per l’eroe di turno. Più raramente si è fermato, ad osservare. Ad osservare la realtà attorno a lui, a considerare la visibilità delle cose, o come esse appaiono agli occhi di chi le osserva. Come lo sguardo, ancor prima del cervello, costruisca la propria realtà.

lunedì 8 ottobre 2012

domenica 7 ottobre 2012

US Hard Rock Underground – Atto II


Giro la macchina e procedo sulla 75, verso il lago Erie. E chi pensava ce ne sarebbero stati tanti lassù? La settimana scorsa a Toledo ne hanno beccato uno mentre cercava di spaccare la Gibson in fronte all'insegnate d'inglese; c'è mancato un pelo...viva per miracolo! Sono entrati in tre, lo hanno massacrato a colpi di Benelli.
Avrebbero ucciso un elefante con quel cannone.
Accendo la radio; giù il finestrino.

venerdì 5 ottobre 2012

Il Blues secondo Robert Crumb


Abbracciavano pensieri orientali, tanto più anticonformisti quanto più fasulli (la maggior parte dei guru era californiana e non avrebbero saputo distinguere Confucio o la Lao—Tze da una mucca malata), si definivano "figli dei fiori", praticavano l’amore di gruppo e assumevano qualunque tipo di droga, dal peyote alla vernice tenditela dei vecchi aeroplani. Studiosi serissimi si occupavano della “espansione della Coscienza" tramite allucinogeni e in mezzo a tutta questa baraonda, allegra, oh, quanto allegra, spaziava Crumb. Che era convinto di appartenervi, ma non era vero. Lui spaziava un po’ più in alto, ma non lo sapeva, anche se lo avvertiva confusamente. Lui non seguiva la moda, seguiva il se stesso, che in quel momento coincideva fortuitamente con la moda, ed era comunque convinto di seguirla. Poi, siccome avvertiva confusamente il senso artificiale della maggior parte di tutto questo, cominciò a staccarsene molto presto. Ora ne prende le distanze. Fa quella che i marxisti (ce ne sono ancora?) chiamano l`autocritica. Rifiuta buona parte della musica popolare d’oggi (ma, a pensarci bene, è la vastità dei decibel, il volume assordante che rifiuta, e in questo non possiamo che essere dalla sua parte) e quindi buona parte della cultura giovanile odierna. È un fatto di età? Forse. O forse è l’insopprimibile desiderio di anticonformismo che l`ha sempre dominato, o meglio la tendenza di usare la sua testa, costi quello che costi.

Ferruccio Alessandri – Robert Crumb “Disegna il Blues” – Franco Cosimo Panini Editore, 1993

mercoledì 3 ottobre 2012

Chi si ricorda di Basketball Jones? (TV Eye)


Prodigiosa reliquia dei più profondi anni '70, Cheech and Chong (Richard "Cheech" Marin e Tommy Chong) furono un duo di stand-up comedy, dissacranti paladini della controcultura più estrema col vizio della canzone; una specie di Cochi & Renato di Haight-Atsbury.
Nel 1973 pescarono addirittura il jolly con una hit clamrosa: Basketball Jones featuring Tyrone Shoelaces, una sbeffegiante parodia del mondo dello sport cantata da Cheech Marin in un demenziale falsetto su un atmosferico funky-spaziale alla Little Wing (derivato in realtà da Love Jones dei Brighter Side of Darkness),  che monta in un crescendo ripetitivo e prevedibile ma straordinariamente contagioso, a cui (pare) contribuirono tra gli altri  George Harrison, Carole King, Michelle Phillips e Nicky Hopkins. La canzone faceva parte dell’album Los Cochinos che raggiunse persino la posizione n°2 nella chart di billboard.
L'anno seguente, sull’onda del successo, fu realizzato un videoclip animato per promuovere il brano, anch’esso oggi paurosamente datato e per questo un bel pezzo di modernariato.

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