Il quadrato esatto in cui è inscritta la facciata della Chiesa del
Redentore sembrava sapientemente intagliato dai pochi raggi sfuggiti alla
pesante coltre di nuvole bluastre sovrastanti la Giudecca. Il candore
immacolato del timpano e delle colonne neoclassiche risplendevano ancora di più
sull’acqua della laguna che rifletteva i tormenti del cielo: tutta la basilica
pareva irradiare una luce pura e misteriosa al tempo stesso.
Al suo interno, il Principe Viaggiatore era rimasto per lunghi
minuti silenziosi in osservazione della
Madonna con Bambino, tavola lignea di Alvise Vivarini, un pittore
del luogo vissuto oltre centocinquant’anni prima, alla fine del 1400. Quella
Madonna enorme, ricoperta da un manto di purissimo blu, con le mani appena
giunte, dominava la scena e forse tutta l’ampia navata della chiesa. Sul suo
grembo il Bambino, pieno di movimento e tensione verso la Madre; ai suoi piedi
due piccoli angeli suonatori, che toccavano la corde del liuto con lo sguardo
adorante rivolto verso l’alto. La loro era una musica inudibile agli umani e
totalmente soggiogata alla composta figura della Vergine che ne dominava il
ritmo e la melodia, fondendola con quelli della sua preghiera sussurrata. Il
Principe Viaggiatore si chiedeva se mai sarebbe riuscito ad ascoltare note come
quelle, imprigionate nella solenne compostezza di quell’immagine: un’ armonia di
serafica semplicità, fatta per la contemplazione e la pace. Sembrava difficile
in una terra decadente come quella.
Ad una voce del suo timoniere che attendeva all’attracco, il
Principe attraversò ad ampi passi la navata rettangolare: quando il Palladio la
ideò, quella costruzione doveva apparire come la sintesi difficile e perfetta
tra il tempio Olimpico e il pensiero cristiano. Il bianco puro degli stucchi,
le proporzioni perfette, gli acuminati campanili che si slanciano quasi fossero
minareti la rendevano ora il luogo di culto perfetto per ogni discendete di
Abramo, vuoi che fosse cattolico, musulmano od ortodosso.
Ma all’esterno di quella sublime architettura languiva una Città
morente.
Dopo la peste del 1630 pareva che nulla di peggio potesse
abbattersi sulla Serenissima. Invece, appena qualche anno più tardi, la Morte
visitò nuovamente la laguna quando la flotta Ottomana attaccò le derelitte
fortificazioni venete di Canea, sull’isola di Creta. Il sangue versato nel Mediterraneo
fu tanto da arrossarne le onde fino all’Istria. Per quasi due decenni un
conflitto aprissimo dilagò fino tra le più sperdute Isole dell’Egeo. La città
di Candia resistette eroicamente ad un assedio lungo oltre vent’anni, ma alla
fine Venezia fu costretta a cedere Creta, la sua più rigogliosa colonia.
L’ombra delle scimitarre musulmane dilagò per tutto il Mare Nostrum e i
baluardi della cristianità si dileguarono in ordine sparso tra sguardi di
terrore.
Venezia era una potenza in ginocchio, e da terra rimpiangeva quell’orizzonte
lontano che un tempo le apparteneva fino alle sponde in cui sorge il Sole. Ma
quello stesso Mare che fu giardino di conquiste per una classe di mercanti
intraprendenti e capitani spregiudicati, era oggi un lugubre cimitero salmastro,
dove gli alberi spezzati dei galeoni giacevano in una disordinata accozzaglia
attorno all’avello del Leone di San Marco.
Anche la borghesia sembrava ormai disillusa e refrattaria a
investire in nuove rotte oceaniche e mediterranee. L’epoca del coraggio,
dell’intraprendenza, del Viaggio, era finita. Alcuni grandi possidenti si erano
già ritirati a ovest, nell’entroterra Veneto: perché là la terra appariva più
solida delle onde incostanti e non c’erano turbanti o tempeste da cui
guardarsi. Si faceva largo una nuova classe di latifondisti e possidenti che
guardavano alla limitate valli del Po come alla nuova frontiera. Finalmente,
dopo secoli passati a proiettarsi sul mare, la città si ritraeva dove tutte le
altre città del mondo trovano robuste fondamenta: questa riscoperta della
campagna avrebbe finito per uccidere una delle maggiori potenze economiche che
il mondo antico aveva conosciuto.
E già allora, anno del Signore 1671, a qualcuno sembrò l’inizio
della fine: come una nuova Atlantide sarebbe sprofondata tra i flutti che aveva
sempre dominato, ma che ora era troppo vecchia per domare.
Anche il Principe Viaggiatore era in partenza per le campagne vicentine,
laddove possedeva una grande villa nei pressi della Bertesina, vicina al corso
del torrente Tesina, appena ad est della città di Vicenza. Lo attendeva un
lungo viaggio in barca.
Sul lungo pontile fuori dalla chiesa il vento rinforzava e
sbatteva sul selciato piccole gocce di pioggia. Sulla piccola bragagna, un
tempo usata per grandi battute di pesca in laguna, il lungo mantello scuro del
principe svolazzava come una vela strappata al suo albero. Il timoniere accarezzava
la barra mentre due uomini dell’equipaggio cominciavano a scandire il ritmo lento
della vogata, quando un trambusto proveniente dalla sponda opposta del canale ne
attirò l’attenzione.
IMMAGINI
Alvise Vivarini - Madonna con Bambino e due
angeli musicanti (1500 circa)
Canaletto - Il canal Grande verso Rialto (1723 circa)
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